Riassunto di “Perché la Chiesa”



E. Hopper – Gente al sole – 1963(ingrandisci)

2° Cap. I tre fattori costitutivi (91)

  1. Una realtà sociologicamente identificabile
  2. La comunità investita da una «forza dall’alto»
  3. Un nuovo tipo di vita
  4. Conclusione

Domandiamoci: un contemporaneo delle origini che dal di fuori avesse osservato l’emergere del fatto, quali elementi avrebbe indicato per descriverlo? Quali sono le caratteristiche con le quali inevitabilmente si sarebbe trovato a confronto.


1 – Una realtà comunitaria sociologicamente identificabile (91)

Il fatto cristiano si pone nella storia, cioè la Chiesa si presenta all’osservatore, come una comunità.

«La moltitudine di coloro che erano venuti erano un cuor solo ed un’anima sola».

At 4,32

Il primo fattore, dunque, con cui la Chiesa ha dimostrato di porsi come realtà è stato quello di essere un gruppo individuabile, fenomeno sociologicamente identificabile, un insieme di persone che si sono legate tra di loro.

Il movimento di Dio nella storia richiama la dimensione comunitaria come fondamentale.

«Credere in un Dio unico era dunque nel medesimo tempo credere in un Padre Comune di tutti, unus Deus et Pater omnium

(H. de Lubac – Cattolicesimo. aspetti sociali del dogma)

Dunque quel «noi» visibile è stata la prima caratteristica della fisionomia della Chiesa che da un osservatore poteva essere fotografata.


COMUNITA’ in:


A) – Antica e nuova consapevolezza: la scelta di Dio (94)

Il primo fondamentale scandalo che l’azione di Dio provoca nell’uomo: la preferenza, cioè la scelta operata da Dio di un particolare in tutta la sua creazione come specialmente posto al suo servizio.

L’idea di appartenenza, di proprietà di Dio, che definiva l’autocoscienza del popolo ebraico, si ritrova come contenuto della coscienza di quel gruppetto di persone, che inizialmente non dava certo l’idea di un popolo..

In Paolo e negli altri scrittori neotestamentari, […] emerge la certezza di costituire il compimento del fenomeno del popolo ebraico, di prolungarne la realtà avverandola in modo definitivo, di realizzare il vero popolo di Jahvé.

È difficile per noi immaginare lo sconvolgimento mentale che per un ebreo come Giacomo è stato annunciare che il popolo di Dio si realizzasse tra i pagani.

E per gli ebrei, la repulsione di sentire un altro ebreo che diceva che Dio si era preso cura di far sorgere il popolo suo tra i pagani, un popolo cioè come quello di Israele!

Tutto questo ci aiuta a evidenziare il fatto che in nessuna epoca della storia come in questa a buon diritto si può parlare di rivoluzione culturale.

L’espressione si addice perfettamente a particolare momento della storia umana di cui ci stiamo occupando.

Noi viviamo ormai le conseguenze di quella rivoluzione, ma non prendiamo mai coscienza adeguata delle sue origini.

La rivoluzione culturale più profonda è che quel gruppo che si andava ingrandendo, affermava di non essersi formato da una origine etnica o da una unità sociologica stabilitasi per avvenimenti storici.

Per i cristiani, dal primissimo istante in cui è registrata la loro esistenza,

è totalmente evacuato il CARATTERE ETNICO della preferenza di Dio.

Questo nuovo popolo è, infatti, formato da coloro che Dio mette insieme nella accettazione della venuta del Suo Figlio.

Si supera così radicalmente qualunque tipo di qualificazione nativa o «carnale» che può distanziare gli esseri umani.

Il fenomeno cristiano, perciò subito si rifà a quella idea di «scelta di Dio» che aveva forgiato Israele, e a sua volta ne è formato, ma senza alcun confine carnale, perché la scelta di Dio coincide con l’adesione alla fede in Cristo.


APPARTENENZA/APPARTENERE in:


B) – Il valore culturale di un concetto nuovo di verità (pag. 100)

Il fenomeno nuovo che si andava verificando aveva una sorprendente corrispondenza con le sue radici: si tratta dell’immagine che la tradizione ebraico-semita aveva della verità.

Nella tradizione biblica la definizione e l’allusione alla verità, più frequentemente usata, si ritrova nella metafora della “roccia” o la “rupe”.

L’uso di questa metafora rivela come il metodo supremo per la conoscenza della verità, nella mentalità semitica, non sia tanto il vedere con i propri occhi, ma

il riferirsi a qualcosa di sicuro come stabilità.

La stabilità cui ci si riferisce non è erosa dal tempo, la durata documenta la verità.

Quale è allora il metodo che emerge da questa metafora?

San Tommaso diceva, che grande intuito psicologico, che l’uomo è molto più persuaso da ciò che ascolta che non da ciò che vede.

Nell’aderire a qualcuno che ascolta, infatti, l’uomo deve poggiare la totalità della sua persona sul «tu» di un altro.

E mentre è molto facile per ognuno mettere in dubbio se stessi, è molto più difficile gettare l’ombra dei propri «se» e dei propri «ma» su una presenza stimata e amata.

In un rapporto tra persona e persona si mette in gioco la totalità dell’io, allora la conoscenza e l’amore formano una unità e il gesto di adesione al vero interessa la totalità dei fattori che costituiscono la vita.

Non c’è nulla di più fragile che appoggiarsi solo a se stessi nella ricerca della verità.

L’indicazione metodologica che definitivamente emerge dall’immagine della roccia come immagine di verità,

è la solidità del testimone. 

La figura del testimone autentico coinvolge l’adesione di tutta la tua persona, rispetto al vedere con gli occhi che ne coinvolge una parte.

La testimonianza è una unità vivente, una unità esistenziale.

Il Dio vivente è testimoniato da una realtà vivente, il Dio fatto uomo nel mondo è testimoniato.

Così la comunità cristiana, al suo nascere, intendeva se stessa come il luogo in cui la testimonianza si poneva, come il luogo in cui

la solidità della rupe biblica appariva spazio alla ricostruzione dell’umano.


TESTIMONIANZA in:



C) – Il termine usato: ecclesia Dei (104)

Quel gruppo che si raccoglieva dapprima sotto il portico di Salomone, e che è andato poi via via allargandosi e moltiplicandosi, in ambienti ormai ellenizzati, chiamava la propria realtà che si radunava ekklesia. 

Il termine greco significa letteralmente, riunione di persone.

Era perciò una parola che indicava realtà normali della vita sociale.

La definizione dell’assemblea cristiana, comunque, come l’idea della qahal Jahvé, è determinata e completata con il genitivo “Dei“: ecclesia Dei, la comunità di Dio.

Il Signore Dio,[…] si propone a tutti attraverso la scelta di una realtà umana particolare.

Non c’è nulla di più contradditorio con il razionalismo in cui siamo formati e con l’egualitarismo o il democraticismo che ne è conseguenza.

Non esiste niente che affermi o insegni all’uomo l’assolutezza di Dio come il fatto che Egli sviluppi nel mondo la sua opera attraverso coloro che Egli sceglie attraverso una ELEZIONE: Dio non è legato a nulla e proprio nel fenomeno di questa preferenza elettiva si manifesta.

È il metodo al quale Dio è sempre stato fedele.

(Gv14,20): «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti»…il problema degli uomini è quello di resistere alla sua logica.

Così all’idea ebraica di qahal Jahvé succede l’idea finale di ecclesia Dei.

Ciò che costituisce la comunità cristiana come Chiesa non è il numero, come non è il fatto puro e semplice di stare insieme, ma il fatto di venire raccolti da Dio, un Dio che raccoglie chi vuole, e dà a ciascuno i doni e le responsabilità che vuole.

È Dio che agisce nella Chiesa, con la Chiesa.


PREFERENZA in:


D) – La Chiesa e le «chiese» (pag. 109)

L’espressione Ecclesia Dei rappresenta il popolo di Dio nella sua totalità, proprio per l’inevitabilità di doversi riferire al gesto di Dio, alla sua scelta libera e totale.

In tal senso, come afferma De Lubac, l’ecclesia è convocatio prima di essere congregatio (così come invece si concepisce nel protestantesimo dove ogni comunità è autonoma e autogenica).

Ogni comunità, per quanto piccola possa essere, traendo il suo valore dalla Chiesa totale, la rappresenta tutta, incarna il Mistero di quella chiamata che era così presente nella coscienza dei primi cristiani.

«Le comunità dell’Asia vi salutano. Vi salutano molto nel Signore Aquila e Prisca, con la comunità che si raduna nella loro casa»

1 Cor 16,19

Il piccolo gruppo ha il significato della Chiesa tutta.

Il singolo gruppo, affettuosamente ricordato in questo brano è segno del Mistero in funzione del quale l’apostolo vive.

Per questo una semplice assemblea familiare può essere citata con le grandi comunità.

Il valore che viene dato dai documenti della prima cristianità alle singole e diverse esperienze di comunità, in quanto unite dagli apostoli, è il valore stesso della Chiesa totale, proprio in quanto esprimono la sua realtà profonda e unitaria, che il Signore fa emergere in esperienze diverse.

E’ spesso ben lontana dai cristiani la coscienza di questa sorgente autentica del loro valore.

Il modo per imparare che cosa sia la Chiesa totale è andare fino in fondo all’esperienza ecclesiale che uno ha incontrato, purché tale esperienza abbia i caratteri della vera ecclesialità.

La riflessione sul termine Ecclesia ci ha aiutati a comprendere il tipo di consapevolezza che i primi cristiani avevano del valore della loro comunità, valore che derivava totalmente, interamente, dalla partecipazione all’unica Chiesa retta dagli Apostoli.


CHIESA in:


2 – La comunità investita da una forza dall’alto (112)

I primi cristiani hanno espresso la loro ferma persuasione che la realtà di Cristo vivente afferrava la loro vita redimendola,

assumendola nella propria e rendendola il mistero di una compagine unitaria.

Dal punto di vista della coscienza che di sé aveva la gente che si riuniva, l’idea dominante era che la loro vita era stata mossa e trasformata da una azione superna che veniva indicata come “dono dello Spirito”.

L’essenza di questa comunità viene chiarita nella sua origine in quanto investita da una «Forza dall’alto».

Vediamo ora cosa implica la consapevolezza della cristianità primitiva d’essere costituita dal «dono della Spirito»


SPIRITO SANTO in:


A) La consapevolezza di un fatto che ha il potere di cambiare la personalità (114)

È giusto affermare che il contenuto dell’autocoscienza nuova di quella gente, che si sentiva determinata da un’energia proveniente dall’alto, coincideva con la forma di una nuova personalità.

In loro è scattata una personalità diversa, intimamente nel profondo.

Da che cosa è plasmata una personalità?

Dalla coscienza di sé e dall’impeto creativo, dalla fecondità.

E quei primi che ci hanno preceduto proprio questo ci testimoniano: si sentivano personalità differenti nel mondo, nella società, differenti come concezione di sé e come forza comunicativa.

Così l’uomo investito da dono dello Spirito si verifica un mutamento di volto, espressione di una ontologia nuova.


B) Un inizio di cambiamento sperimentabile (117)

(Per) chi avrà investito tutta l’esistenza nel seguire Lui riceverà il centuplo quaggiù e la vita eterna.

Un cristiano adulto, ragionevole nella sua adesione, è chiamato a intuire l’esistenzialità di questa frase, a sperimentarne l’inizio della portata.

Ed è proprio la realtà quotidiana a trasformarsi, è il tempo presente quello in cui si riceve «di più», sono i normali connotati dell’esistenza umana a essere mutati: l’amore tra uomo e donna, l’amicizia tra gli uomini, la tensione della ricerca, il tempo dello studio, del lavoro.

Senza passare attraverso questa esperienza risulta molto difficile, per non dire impossibile, acquistare una convinzione capace di costruttività.

(Il dono dello Spirito) Conferisce loro (ai cristiani) una nuova consistenza, in funzione dello scopo immediato di quella chiamata, l’edificazione della comunità, caparra del mondo nuovo.


CAMBIAMENTO in:


C) La capacità di pronunciarsi di fronte al mondo, forza di testimonianza e di missione (119)

Il dono dello Spirito comunica a queste nuove personalità un impeto, che rende la loro capacità comunicativa feconda, comunicativa delle novità che nel mondo Gesù ha portato.

Così, sia l’individuo, sia la comunità si sentono in grado di pronunciarsi di fronte al mondo.

Nel linguaggio religioso l’espressione più adeguata di questa manifestazione è racchiusa nella parola “profezia”.

Profeta è colui che annuncia il senso del mondo e il valore della vita.

La forza della profezia è la forza di una conoscenza del reale che non è dell’uomo, che viene dall’alto.

Questa capacità di adesione e confessione di una nuova realtà in atto avviene, comincia ad avvenire nel giorno della Pentecoste.


D) Il documentarsi della energia con cui Cristo attesta il suo dominio sulla storia, il miracolo (121)

Nella comunità cristiana primitiva, la potenza divina era spesso segnalata da una esperienza sensibile.

Spesso questo Spirito che veniva dato nel battesimo letteralmente provocava atteggiamenti prodigiosi: gente che parlava lingue sconosciute, che comprendevano l’incomprensibile.

Ma un miracolo più grande inizia e cresce nei secoli, col tempo:

quale prodigio più eccezionale e grandioso di tutta la gente che sarebbe venuta dopo e che avrebbe perpetuato il riconoscimento di Gesù nel fatto della sua Chiesa!

È il prodigio per cui lo Spirito di Cristo vince la storia, è quell’evento affascinante per cui la potenza dello Spirito attraversa la vicenda umana e Cristo si rende presente nella fragilità, nella trepidazione, nella timidità e nella confusione delle nostre persone unite.

Invocare lo Spirito significa chiedere quella luce e quella forza capaci di renderci sperimentabile il Mistero la cui natura non vediamo.

È l’umile e grato riconoscimento del dono dello Spirito e della Forza dall’alto – e la loro invocazione – l‘albore della vittoria di Cristo, il segno del continuo miracolo.


3 – Un nuovo tipo di vita (123)

Non è il fenomeno comunitario come tale a distinguere il fatto cristiano, bensì il fenomeno comunitario assunto e vissuto in un determinato modo: koinonia in greco, communio in latino.

Questo termine ha due informazioni da darci

  • La prima è che essere koinonoi implicava un possesso in comune.
  • la seconda è che da questo possesso in comune conseguiva una solidarietà tra di loro.

Quel gruppo di cristiani, che soleva sedersi sotto il portico di Salomone, perché ha poi usato la stessa parola per indicare la comunità?

Che cosa quei cristiani avevano la coscienza di possedere in comune?

Possedevano in comune una unica ragione di vita, LA ragione della vita – cioè Cristo.

La parola koinonia indica prima di tutto una realtà esistente, Cristo, posseduta in comune dagli uomini che la riconoscono.

Essa ha perciò prima di ogni altro aspetto un valore ontologico, vale a dire implica qualcosa che interessa e coinvolge l’essere dell’uomo, che diventa creatura nuova.

Si ha in comune il senso della vita.

La parola koinonia vuole proprio esprimere la situazione reciproca dei cristiani tra loro nella comune ontologica dipendenza da Gesù Cristo e dallo Spirito, con il quale Lui cominciava a manifestare il suo possesso del mondo.

Gli aspetti etici, pratici di questa reciprocità sono conseguenza della coscienza di una realtà viva e operante nei cristiani e tra i cristiani.

Se abbiamo in comune Cristo, tanto più abbiamo in comune le cose della vita, sia materiali che spirituali: ecco l’idea guida dei rapporti concreti dei primi cristiani tra loro.

Da una realtà ontologica scoperta e riconosciuta scaturisce il bisogno di un comportamento nuovo.


DIPENDENZA in:


1° fattore: un ideale etico (127)

Avendo in comune il fondamento e il senso della vita, Gesù Cristo, i primi cristiani sentono come legge della loro convivenza la tendenza a mettere in comune e, più profondamente, a concepire in comune le risorse materiali e spirituali.

La parola importante, in questo primo elemento di analisi, è la parola “tendenza” o “tensione”.

Essa implica una libertà in atto sospinta da un valore ideale che produce un dinamismo condizionato dalla storia, dal temperamento, dalla capacità, dalla disponibilità dello spirito di ciascuno, un impeto e quindi un dinamismo che Dio solo può giudicare e nessun altro, perché ognuno sta di fronte al suo Signore ed è di fronte a Lui responsabile.

Lui conosce la situazione dell’anima.

Un altro aspetto della tensione al coinvolgimento di tutte le energie da parte della prime comunità cristiane è rappresentata dall’alta considerazione dell’ospitalità.

L’ospitalità è il vertice della condivisione, perché in essa si mette in comune tutta la vita della persona.


CONDIVISIONE in:


L’atteggiamento etico dei primi cristiani, compresa la spettacolare espressione della condivisione dei beni, era motivato dal fatto di essere una cosa sola e avesse come condizione la libertà.

«Il Signore ama chi dà con gioia.» Cor 9,7

Si può compiere un sacrificio avvertendone la fatica fino alle lacrime, eppure con una ultima certa spontaneità, insomma volentieri, come l’ineliminabile suggerimento di qualcosa che si vuole esprimere, con passione, come l’espressione di qualcosa che vale la pena vivere e perciò manifestare.

Tale criterio è l’opposto del moralismo, del sacrificio concepito e fatto in nome di un formale senso del dovere: si tratta invece del dono di sé a Dio come frutto autentico della propria adesione al grande dato di fatto, la comunanza riconosciuta della ragione della vita.


SACRIFICIO in:


2° fattore: una connotazione istituzionale (131)

La parola koinonia o communio, che abbiamo visto tendere a esprimersi come condivisione vissuta nella dipendenza di Gesù Cristo, assume anche una connotazione istituzionale.

Si andava formando cioè un fenomeno istituzionale nuovo in seno alla società, provvisto di elementi qualificanti suoi propri e non semplicemente espresso da un sentimento fraterno.

Koinonia o communio vengono usate per indicare la Chiesa come tale e si pongono come sinonimi del termine ecclesia, indicando l’unità del popolo di Dio come fatto sociale che ha preso una sua forma, come istituzione, struttura sociale nuova.

La tensione a condividere nella libertà è aiutata dal sorgere di forme e strutture stabili che ne costituiscono l’alveo, che ridimensionano il disordinato irrompere nell’esperienza di impeti isolati, destinati a spegnersi e facile preda di un soggettivismo sproporzionante, senza la pietra di paragone.

In questo senso sono commoventi altri sinonimi: eirene, che significa pace e che viene usata per indicare il vincolo che unisce tutti i cristiani.

L’altro sinonimo è la parola agape, amore.

Dire agape significava dire Chiesa, dire amore era indicare quella realtà che nelle sue istituzioni fraterne radicava nell’esistenza degli uomini l’amore risanante di Gesù stesso.

È interessante il fatto che la parola agape, in senso stretto, indichi una particolare istituzione, e cioè un pranzo indetto da persone agiate per invitare alla propria tavola i più bisognosi della comunità.


3° fattore: un’espressione rituale (134)

Esso era totalmente implicato dal termine koinonia, perché sentito come supremamente espressivo dell’unità della Chiesa come tale.

Nei primi tempi, alla conclusione di una cena collettiva, veniva compiuto il gesto che Cristo aveva chiesto si ripetesse […] gesto e segno che portava dentro di sé la densità ontologica della presenza reale di Gesù.

Veniva chiamato «sacramento» in latino, «mistero» in greco.

Il mistero, in senso cristiano è il mistero in quanto si fa conoscere sensibilmente, sperimentalmente.

Un altro esempio storico del fatto che la celebrazione dell’Eucarestia fosse vissuta dai primi cristiani come il segno distintivo supremo della loro fede comune è contenuto in una prassi assai diffusa nelle comunità primitive: le «lettere di comunione».

Tali passaporti si chiamavano lettere di pace o di comunione, poiché attestavano che il viaggiatore apparteneva alla communio e poteva quindi ricevere la Eucarestia.


4° fattore: un fattore gerarchico (136)

«Si ha l’impressione che gli apostoli, suoi primi testimoni da Lui stesso designati e stabiliti, godessero, com’era giusto, di grande autorità morale […] Tra i Dodici Pietro sembra occupare un posto di primo piano […] è colui che prende iniziative.

La sua opinione ha un peso particolare. […] Questa preminenza di Pietro, che avrà importanza considerevole per le sue conseguenze, si fonda essa pure sulla dichiarazione esplicita del Maestro, che ha voluto dare alla sua formazione un principio gerarchico e che ha chiaramente designato come la pietra sulla quale avrebbe edificato la Chiesa quest’uomo saggio, dal cuore generoso, la vecchia “roccia”».

H. Daniel-Rops – Storia della Chiesa di Cristo

Quasi subito però, come ci trasmettono i primi documenti, gli apostoli hanno bisogno di collaboratori.

Quello che è certo è che qui ha origine la figura autorevole su tutta la singola comunità.

Il vescovo di Roma era il perno di tutta una trama di rapporti tra vescovi, e quindi tra comunità.

«Anche i pagani sapevano che vero cristiano era quello in comunione con Roma».

L. Herling – Storia della Chiesa

5° fattore: un fervore di comunicazione, un ideale missionario (140)

La parola koinonia indicava una realtà di vita, un istituto, una societas non chiusa in sé stessa, ma potentemente animata da un fervore comunicativo.

Anzi, i primi cristiani si sentivano come tali chiamati a comunicare l’annuncio di Cristo a chi ancora non l’aveva conosciuto.

Non esiste un momento della storia della Chiesa primitiva in cui la comunità non si sentisse determinata e giudicata dalla dimensione missionaria.

Senza l’ipotesi di un intenso fervore missionario vissuto come dimensione essenziale alla Chiesa stessa, diventa inspiegabile il fatto che già nel 2° secolo il cristianesimo si fosse largamente diffuso in tutti i paesI dell’area mediterranea e che fosse persino penetrato in lontanissime regioni dell’impero romano.

Il messaggio di salvezza viaggiò con i commercianti, con i soldati e con i predicatori lungo tutte le strade dell’impero romano.

Del resto, come Gesù Cristo raggiunge gli uomini nella storia? Attraverso coloro che lo riconoscono e che egli ha scelto.

La dimensione morale dell’uomo cristiano si misura sinteticamente dalla testimonianza che offre agli altri, si misura sinteticamente dall’amore a Cristo per gli uomini e agli uomini per Cristo.

Ma non si possiede la carità se non si vuole diffonderla universalmente.

Quello di comunicare agli altri è stato e rimane un dovere determinante, decisivo della autenticità della vita cristiana.

Tante obiezioni della nostra epoca si sono diffuse contro l’atteggiamento missionario.

La comunicazione di una certezza è in qualsiasi caso un aiuto per chi cerca, anche se non ritenesse di aderire ancora a quella proposta: questa dà comunque testimonianza del fatto che la certezza è possibile e che la sua comunicazione può servire come ipotesi di lavoro.


MISSIONE in:


6° fattore: la moralità come dinamismo di un cammino (142)

Santo indicava qualcuno che apparteneva all’Alleanza di Dio con l’uomo e per questo si protendeva in un cammino secondo il volere di Dio.

Perciò Israele era il popolo santo.

Tanto più santo doveva essere definito colui che era coinvolto con la presenza di Gesù Cristo, compimento dell’alleanza.

La moralità cristiana prende finalmente il suo volto adeguato: un dinamismo di tensione sorgente dall’appartenenza a Cristo.

L’articolarsi di un cammino dentro il mistero personale di Cristo in cui con l’aiuto del Suo Spirito si è stati eletti e in cui si realizza la propria umanità.

Non è quindi contradditoria all’immagine della comunità dei santi quella di una comunità cristiana primitiva che si riconosceva fatta di peccatori.

La Chiesa primitiva, dunque, non si sente certo il luogo della gente perfetta.

Ma dentro quella realtà così banalmente umana, così misera, c’è una certezza [ …]

La certezza è che Gesù Cristo può vittoriosamente attraversare la nostra impotenza con la sua forza e mutarla in una energia operosa per il bene.

Questa è la certezza che noi ereditiamo, insieme alla possibilità del male, da coloro che ci hanno preceduto.

La testimonianza dei primi cristiani ci avverte che

non si può affermare un valore ideale senza desiderarlo,

senza cercare di applicarlo e che perciò, a lungo andare, chi sa riconoscersi peccatore, con la dolorosità che è segno dell’intensità del desiderio, non può che essere sulla strada della realizzazione del proprio essere uomo vero, uomo di Cristo.

«Chiunque ha questa speranza in lui purifica sé stesso, come egli è puro».

1 Gv 3,3


APPARTENENZA in:


Conclusione (147)

“Rilievi conclusivi”

  1. Il peso delle parole: 2000 anni dopo per ignoranza, per abitudine, distrazione, le usiamo svuotandole, annebbiandole, addirittura distruggendole, come la stessa parola Chiesa, comunione, mistero, santo, verità. Non è un interesse filologico bensì una attenzione alla realtà che esse sottendono.
  2. Alcune parole sono state per noi il mezzo di accostarci a quei fattori fondamentali che hanno radicato il fenomeno della Chiesa nel terreno della storia. Tali fondamenti si sono rivelati in modo esplicito subito nella vicenda cristiana, ed esprimono una realtà che ci giudica ancora oggi. Fondamentalmente, infatti, la Chiesa di oggi è la Chiesa di allora, solo che con qualche secolo in più sulle spalle. È importante perciò comprendere che riandare a quei fondamenti, accostare quella che è la tradizione della Chiesa, aiuta innanzitutto a giudicare il modo di concepire noi stessi e il mondo.

NEWMAN

La sua crisi fu lunga e terribile, la sua indagine accurata, e uno dei temi più assillanti consisteva proprio nell’accusa che l’anglicanesimo portava alla chiesa cattolica di avere alterato le origini dell’esperienza cristiana.

Ci propone due osservazioni.

L’una riguarda il criterio della unità del nostro essere che tutta si gioca nella ricerca o nel riconoscimento del vero:

«Nel caso mio non era la logica a spingermi avanti: tanto varrebbe dire che è il mercurio del barometro a far cambiare il tempo. Si ragiona con tutto l’essere, nella sua concretezza. Passa un certo numero di anni e mi avvedo che il mio pensiero non è più al punto di prima: come mai? Si muove l’uomo tutto intero»

Newman – Apologia pro vita sua

Il secondo notevole rilievo di Newman riguarda proprio quel criterio di sviluppo organico della Chiesa come realtà vivente, che resta il grande punto di vista interpretativo di fondo in ogni aspetto della Chiesa in ogni epoca.

« Vidi che la teoria dello sviluppo non spiegava certi fatti, ma rappresentava in se stessa un avvenimento filosofico importante, che imprimeva un carattere a tutto il corso del pensiero cristiano. Si poteva individuarla dai primi anni dell’insegnamento cattolico fino al giorno d’oggi ed essa dava a quell’insegnamento unità e carattere. Era una specie di prova, che gli anglicani non potevano offrire, che Roma era in verità le antiche Antiochia, Alessandria e Costantinopoli, così come una curva matematica ha la propria legge e la propria espressione».  

Newman – Apologia pro vita sua

E proprio questa unità e questo carattere abbiamo cercato di delineare, perché siano essi ad interrogarci ancor oggi e a spingerci a quel confronto personale dal quale la nostra vita non può risultare più ricca e piena, cioè più vera: più umana.


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