Parte seconda –Decisione per l’esistenza
Indice linkato ai titoli e sottotitoli
- Riconoscere l’evidenza di un fatto
- Un presenza da seguire
- Una proposta da verificare
- La verifica come pegno
- L’affermazione dei valori e la pratica

RICONOSCERE L’EVIDENZA DEL FATTO
Il fondamento (95)
L’esistenza rappresenta innanzitutto una decisione circa ciò che si riconosce come proprio fondamento: e tale decisione è un avvenimento che si ripropone di continuo.
Si tratta di trovare l’unum necessarium, l’unica cosa necessaria, vale a dire ciò che riconosciamo come significato di noi stessi, e perciò come fondamento di tutto quel che facciamo.
Non perciò un’immagine di vita o un tentativo di attività, né l’uno né l’altro uomo cui si fosse legati disegnano adeguatamente i contorni di questa decisione.
Quando così accade la nostra vita accusa inevitabilmente il disagio di una mancanza di radice solida.
Il fondamento è colui che, come diceva la madre dei Maccabei, chiama alla «esistenza le cose che ancora non esistono»(2 Mc. 7,28).
Egli è l’oggetto, almeno inconsciamente cercato, di quel riconoscimento sul quale incomincia ad esistere, ad avvenire la consistenza di noi stessi.
(Gb 37,4-34) Il dialogo di Jahvè e Giobbe mette bene in luce quanto l’uomo, se sa osservare il mondo che gli sta intorno e la natura delle cose, debba piegarsi al riconoscimento di una mano potente che regge la vita.
Il problema della vita è il rapporto con Dio.
Ma perfino dire questo ancora non è adeguato a spiegare quanto quel rapporto sia costitutivo dell’io, della persona.
La questione della vita è Dio reso fatto storico, il Dio della Storia.
In ciò si manifesta la fede: nel riconoscimento della Sua presenza dentro la nostra storia.
Aderire (97)
Tutta la vita viene potenziata da un “aderire a“ che si snoda nell’abbraccio a una situazione oggettiva in cui si è ravvisato il segno della nostra consistenza, nella quale cioè il valore della fede si è annunciato in modo persuasivo.
Chiunque, in qualunque situazione si trovi, non può non desiderare la propria stabile realizzazione, comunque realizzazione, comunque se la immagini e qualsiasi forma le attribuisca.
Così l’argomento più importante del cuore dell’uomo appartiene indubbiamente al discorso decisivo di quell’aderire.
Infatti la certezza della propria realizzazione sta nell’oggettività della storia con cui Dio si è reso Presenza,
sta nella forma definitiva con cui quella storia ci ha personalmente coinvolti e convogliati.
Il gesto semplice dell’adesione a tale forma, a tale complesso di contingenze e situazioni – il gesto di tale obbedienza – rappresenta la saggezza con cui la forza creativa della potenza di Dio si articola, penetra, investe la nostra libertà.
Nella contingenza dentro la quale ci siamo venuti a trovare è il momento più sano della nostra libertà, anche quando ci troviamo a nostro dispetto
Non il Dio riconosciuto dal nostro pensiero o dal nostro sentimento,
ma la Potenza che diventa Presenza nella storia, nel tempo e nello spazio.
Si nasconde in questa fragilità (le circostanze), tanto che basta essere orgogliosi o insofferenti per vivervi dentro senza accorgersene, o basta un nostro soffio per distruggere tutto.
Invece la nostra ricchezza è proprio il mistero presente in quella fragilità, e si traduce, come dinamica del nostro cuore, solo nell’atteggiamento di adesione.
E allora canta in noi la certezza di un sostegno e di una costruttività che non sono «nostri» ma che agiscono nella «nostra vita», perché come dice la Bibbia: «Il Signore ricorda il suo patto».
La maledizione (99)
«Qualunque peccato e bestemmia sarà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito Santo non gli sarà perdonata né in questo secolo né in quello futuro».
Mt 12,31-32)
Bestemmiare lo Spirito è proprio non riconoscere l’evidenza di ciò che è accaduto:
perché tale riconoscimento è il fondamento senza il quale non può esservi costruzione, senza del quale non può essere recuperato niente,
L’edificazione del Regno di Dio sulla terra è realizzata dalla potenza dello Spirito ed è pur vero che noi possiamo diventare realmente pietre vive di quella costruzione, con tutto il nostro apporto originale, nella misura in cui collochiamo tutta la nostra certezza, tutta la nostra energia di esistenza nel riconoscimento di quello che è accaduto, e quindi nella misura in cui traduciamo la nostra vita nell’aderire all’evidenza di quel fatto che ci costituisce.
L’uomo, invece, che ripone la sua certezza, la sua gioia in qualunque altra cosa incorre nella maledizione lanciata dai profeti della Bibbia, è maledetto.
Dovremmo veramente ricordare sempre che tutta la nostra tristezza, il malumore e il disagio che riescono ad appropriarsi del tempo della nostra giornata, dipendono dal fatto che subiamo la maledizione di chi pone la sua fiducia in qualunque altra cosa che non sia la Presenza nascosta dentro la nostra storia.
La semplicità del cuore (100)
L’immagine suggerita è quella del bambino, oppure quella della parola “semplice”, opposta a “dotto”; qualcosa che è una forza, una energia, un valore che viene prima dell’interpretazione, il valore originale della nostra creaturalità.
Noi invece leghiamo il valore di noi stessi a delle cose, a una nostra espressività, mentre quella semplicità è tutta stupita dall’espressione di un Altro, cioè dal dato delle cose; è stupita di quello che Dio ha operato nella sua vita.
Il bambino è tutto quanto stupito da ciò in cui si imbatte.
Nel primissimo contatto con il reale il bambino accusa il dato. Ed è questo che soprattutto manca nella nostra vita.
La condizione del nostro soggetto implica perciò una impostazione per cui la
Presenza del Significato è attraverso, e quindi dentro, le situazioni quotidiane.
Al di fuori di questo, le banalità che capitano nella giornata sono un laccio del cacciatore che ci prende, non ci permette di comprendere il significato di quanto accade, che è Cristo, tenta di abolire il mistero della vita.
E infine impedisce una visione realistica del messaggio cristiano all’umanità: in esso infatti
la verità dell’uomo è chiamata a venire a galla in questo mondo.
L’offerta (102)
Se viene percepita l’oggettività totale che caratterizza il contenuto della fede, scatta – poco o tanto, timida o meno, secondo i temperamenti, secondo l’età –
l’affezione a ciò che sta dentro il segno.
Il gesto espressivo di questa affezione, che allo stesso tempo la esprime e la educa, così come un’affezione tra due esseri umani si esprime e la educa, da un abbraccio e da un bacio, che si chiama offerta.
Anche liturgicamente l‘offerta è un segno che nell’istante del suo compimento porta dentro un’altra cosa.
Così la percezione di sé si accompagna a una certa quale evidenza sperimentale di un Altro, di una Presenza che dà consistenza a quel che si è, che fa dire con pienezza “io“.
Il sentimento di sé tende a coincidere col sentimento della Presenza di un altro, della Presenza del Figlio dell’uomo, del Verbo che in me diventa Figlio dell’uomo.
Questa affezione all’attore della storia che costituisce il mio volto nel mondo e che ha la sua espressione adeguata, propria, nel gesto dell’offerta, diventa davvero una esperienza.
Questa esperienza comincia inevitabilmente dalle cose o dai momenti in cui ci si prende più sul serio.

UNA PRESENZA DA SEGUIRE
Il metodo di Dio (103)
Parlando del dolore, Paul Claudel scrive:
«A questo terribile problema, il più antico dell’umanità ed al quale Giobbe ha dato la sua forma ufficiale e liturgica, solo Dio, direttamente richiesto e sollecitato, era in grado di rispondere. E l’interrogativo era così enorme che solo il Verbo poteva soddisfarlo dando non una spiegazione, ma la Sua presenza».
Paul Claudel
Dio non conosce altro metodo per far crescere l'uomo se non quello di proporgli una presenza da seguire.
La grande regola è seguire un Altro.
Non c’è strada, non c’è sforzo intellettuale né scaltrezza che abbia il valore di questa direttiva.
Andare a Cristo per avere la vita non è costruire ragionamenti, ma seguirlo attraverso ciò che Egli ci chiama.
Cercare di fare da sé, tentare di convocare le proposte di Dio al tribunale dei propri criteri sarebbe la vanità più grossa: sarebbe il peccato di Lucifero, che pretese il significato dalla sua persona da sé.
La vita è una strada o occorre seguire un altro che guida.
Parlare di «seguire» oggi può suonare particolarmente ostico.
Ed è paradossale, ma comprensibile, che proprio in un’epoca in cui l’uomo si è lasciato indurre a comportamenti sempre più standardizzati e resi anonimi in una massa, si manifesti almeno a parole, episodicamente o superficialmente il bisogno di una vera personalità, il bisogni di non conformarsi ciecamente.
Seguire non vuol dire copiare in modo meccanico.
Esso è un fenomeno umano proprio della persona, che quindi richiede l’impiego delle energie più caratterizzanti la personalità, cioè l’intelligenza e la volontà.
Seguire quindi non è un atteggiamento passivo.
Seguire non può essere un gesto automatico, ma è una decisione personale che diventa un gesto continuo della propria libertà.
Seguire è insomma amare
poiché è proprio affermare un altro come se stessi.
Chi veramente segue non lo farà mai al fondo come una ribellione sorda o un sacrificio rabbioso, ma con un atteggiamento che genera sicurezza e gioia.
Infatti quanto più si segue veramente, tanto più si prende coscienza di tutto, ci si sente aprire e legare a tutti, si è in grado di condividere tutto con coscienza di sé e capacità critica e creativa.
Il manifestarsi del metodo (105)
Gli inizi più significativi del contatto che Dio ha preso con gli uomini mostrano il manifestarsi e l’evolversi di questa grande regola di salvezza per l’uomo: il seguire.
Ne troviamo il suggerimento innanzitutto nella figura di Abramo.
La Madonna incarna anch’essa questa adesione alla volontà di Dio.
L’unica logica della vita della Madonna è stato il Mistero, la luce oscura del Mistero che ha accettato di seguire: non aveva progetti su di sé, non poteva avere progetti sul bambino.
«...avvenga di me secondo la tua parola»
E la saggezza di questa parola, cui ella si è affidata, guida Maria da quando è accaduto l’avvenimento: ne cercherà poi la verifica di continuo, ne sperimenterà tutta la verità a suo tempo.
Il Vangelo di Giovanni sottolineerà più volte l’ubbidienza di Cristo.
Questa grande regola non si smentisce mai, e in Cristo l’abbandono al Padre trova anche le sue radici umane nella sapienza dell’umanità nuova di Maria cresciuta e plasmata nell’affidamento al mistero nel quale aveva generato il Figlio.
Dopo la venuta di Cristo l’affidarsi a Dio si concretizza nel seguire la comunità cristiana, la Chiesa.
Essa infatti continua nel tempo e nello spazio la presenza di Dio incarnato in terra.
Essa è dunque la Grande Presenza da seguire.
Così Dio manda Saulo da una autorità della comunità cristiana di Damasco, Anania, i cui suggerimenti, colui che era stato l’agguerrito persecutore dei cristiani, seguirà, anche se Anania non aveva certo le sue eccezionali qualità.
Applicare il metodo (107)
In seguito, Paolo, quando sarà divenuto l’apostolo che annuncerà il Cristo a tutti, e non solo al popolo di Israele, per esprimere il concetto del seguire userà spesso la parola ubbidienza.
Obbedienza vuol dire abbandonare sé per seguire un Altro
perciò è l’unico vero completo sacrificio: è un cuore che si comunica,
è il cuore di un altro che incomincia a muoversi dentro la nostra vita.
La presenza obbedita è piena di espressività, penetra ed è immanente alla situazione, si rivela come umanità nuova, come amicizia.
Siamo perciò chiamati ad essere e a seguire una presenza, costruendo un pezzo di umanità nuova, come amicizia.

UNA PROPOSTA DA VERIFICARE
Compiere un’esperienza (109)
Ciò che si impara seguendo è la parola presenza.
Il Padre ci ha collocati “dentro” una condizione: se non passiamo attraverso questo filtro, perdiamo l’occasione della nostra maturità, di una fede incisiva e creativa secondo il ruolo in cui Dio ci ha chiamati, la funzione che Dio ci ha dato.
Ma a che cosa ci invita quella persona da seguire, che ci raggiunge con il richiamo in un ambito o in una condizione che sono nostri? Ci invita a compiere un’esperienza.
Che cosa è infatti il cristianesimo se non Dio che si è reso esperienza dell’uomo dentro una situazione?
Ma se ci accade di provare un certo interesse religioso o una consistenza che finalmente prende per noi la parola di Dio, tutto questo non è forse segno o miracolo, quindi esperienza possibile a noi?.
L’esperienza come verifica (110)
Ben lontano da un ottuso “provare“
la prima condizione della verifica è la chiarezza, la limpidezza, il gusto della razionalità.
Occorre essere attenti.
Significa seguire il richiamo con tutta l’energia della nostra volontà, con tutta la nostra capacità di impegno, cioè con tutta la nostra libertà.
La verifica quindi è atto intensamente carico dei due fattori della nostra umanità: L’intelligenza e la volontà (cioè la libertà impegnata).
Per verificare davvero occorre impegnare tutta la propria persona con attenzione chiara e aperta.
Per fare esperienza non occorre buttarsi in molte iniziative: il problema è l’atteggiamento con cui si partecipa, non la quantità di partecipazione; e l’atteggiamento giusto è la verifica.
Tale verifica necessita di autenticità.
Questa può essere chiamata in tanti modi: purità di cuore, semplicità, povertà di spirito.
Una povertà come di colui che non ha nulla da difendere, eccetto che la propria autentica originale umanità.
Tale atteggiamento normalmente però è fatica.
Il lavoro di conquistare e conservare la purità di cuore sta nell’educarsi ad amare le cose in quanto ci sono, perchè sono: come implica il concetto cristiano di amore.
Occorre cioè aderire alle cose perché sono, non perché sto perseguendo dei miei concetti di giustizia o altro.
Così, l’unico modo adeguato per verificare la proposta del richiamo cristiano è quello di convertirsi ad esso.
Siamo chiamati a seguire fino alla fine, perché la proposta ci viene fatta fino alla fine, fino all’ultimo istante.
Il genuino atteggiamento dell’uomo, che sa di non essersi fatto da sé, è quello della ricerca delle proprie origini e dell proprio destino.
La necessità di una verifica è la condizione di un’adesione ragionevole.
La verifica della fede (113)
La verifica si esercita sempre sul proprio passato: dopo qualche tempo che si segue ci si accorge di essere cambiati, che ci è stato dato qualcosa di più.
Ma il cambiamento avvenuto, non ha però la forza di sorreggerci esistenzialmente in vista di ciò che ci sta di fronte: solo una visione di fede infatti sostiene realmente una prospettiva di sé.
La verifica conferma la ragionevolezza della fede per quanto riguarda il passato, e lascia tutto il senso del rischio per l’atteggiamento da avere nel presente e nel futuro.
La fede sarà sostegno autentico solo se è coscienza chiara del fondamento di ciò cui aspiriamo.
Occorre impegnare la propria libertà per accorgersi del nesso tra la realtà cristiana e la nostra umanità.
Tale nesso è indicato dalla parola segno.
E’ questa parola che scuote, perché attraverso il segno la presenza del trascendente tocca la carne.
Ma il segno, o il miracolo, può anche non essere percepito, si può evitare per la tangente di accorgersene, e allora perfino il prodigio perde il suo significato.
Sta alla libertà dell’uomo lasciarsi scuotere dal miracolo, intendere questa parola con cui Dio ci raccoglie dalla nostra distrazione.
La certezza di un segno sempre sperimentabile sostiene la vita con stabilità di una prospettiva futura: il miracolo, in questo mondo del Dio vivo, è sempre incombente.
La vita cristiana è la ricerca del miracolo (del cambiamento di sé), che diventa storia, annunzio di bene per noi e attorno a noi.

LA VERIFICA COME PEGNO
Una umanità nuova (115)
La verifica della proposta cristiana deve portare con sé, nella fede, il pegno della soddisfazione piena deposto nel presente come un seme.
La liturgia cristiana parla di «pegno di vita immortale» di possesso delle «primizie dello Spirito», di una iniziale esperienza di possesso di tutto in Cristo, dove questo «in Cristo» definisce una nuova natura: io in Cristo.
La potenza dello Spirito potrà far divenire realtà per noi una affezione al Dio reso carne e ossa, una affezione agli altri e al mondo capace di essere vera generazione, autentica fecondità della vita.
Se l’affezione agli altri, ai fratelli, è già fecondità di cui l’affezione di Cristo a noi e di noi a Cristo rende capace la nostra vita, dobbiamo dire che questa generazione è generazione di una umanità nuova.
Nella prossimità (116)
Questa umanità nuova, questa realtà storica nuova inizia in uno spazio delimitato, cioè nella prossimità.
Dio ha scelto un popolo che fra tutti fosse il prossimo suo quello con cui fa l’Alleanza, per cui si rende Presenza, con cui si coinvolge direttamente: ed è nell’Alleanza con questo popolo che la “cosa” nuova comincia a generarsi nel mondo, si palesa,
così Dio ha mostrato di voler ricreare il mondo creando Gerusalemme.
Cristo incomincia con un gruppetto di apostoli, e anche in seguito
la Sua presenza si dilaterà sempre attraverso la legge della prossimità
nelle primitive comunità cristiane.
La vera prossimità, comunque non è solo quella di coloro che ci vivono vicini, ma quella di chi è chiamato con noi, dove questo con deve essere definito con la maggior concretezza possibile.
Solo l’affezione che nasce dalla consapevolezza di questo legame può generare una realtà umana nuova tra di noi che sia come la luce posta sopra il candelabro e come il sale della terra.
Una unità misteriosa (117)
Il rapporto di unità in Cristo e con Cristo, se non è sempre necessariamente di gioia esplicita, sempre però è pace.
San Paolo identifica questa pace, la pace dell’affezione a Cristo, con la chiamata all’unità tra noi.
Il segno, infatti, esaurientemente dimostrativo della potenza di Cristo, della presenza di Cristo è la nostra unità.
L’affezione a Cristo genera una compagnia: l’umanità infatti vive come compagnia; la compagnia è il volto fenomenico più adeguato di una umanità.
In essa vien segnata la primizia di un rapporto che completi, realizzi totalmente.
Il criterio della sapienza di questa umanità nuova è la luce oscura del mistero, l’abbandono al mistero.
È contro l’idea del Dio cristiano l’immagine di una potenza che travolga automaticamente l’uomo senza la sua iniziativa di libertà: infatti
nessun gesto compiuto da altri può sostituire il nostro gesto libero.
Scribi e Farisei si aspettavano la salvezza come un fulmine e un clamore che venisse dalle nubi del cielo.
In ciascuna delle nostre vite c'è stata una storia di prodigi, di avvenimenti perspicui, chiari, una storia di presagi di completezza.
La nostra lotta e la gloria di Dio (120)
La lotta è proprio tra l’affermazione di sé e la affermazione di Dio,
…… fra dare come significato alla realtà il mistero o quello che si pensa.
La lotta è lotta per un cambiamento in noi, una conversione.
L’inizio della salvezza, il sentire Dio presente, il contraccolpo dello Spirito in noi è per primissima cosa il senso della nostra debolezza e povertà.
Il peccato e il dolore sono la strada normale a tale verità.
Di fatto il Signore per far capire all’uomo che ha bisogno di un altro ha usato come strumento normale il peccato e il dolore: l’uomo è povero.
La suprema espressione di questo è la morte e l’uso si un tale strumento è uno spettacoloso paradosso.
È perciò segno di meschinità quello che noi normalmente alberghiamo, quello cioè di rendere scandalo a noi stessi lo strumento pedagogico alla verità.
La consapevolezza della dipendenza da ciò che ci costituisce, la coscienza di questo essere costituiti da un altro (in cui sta l’essenza della pietà) rende la nostra vita “gloriosa“.
Nel linguaggio biblico la gloria è la pienezza, la felicità resa già avvenimento sperimentabile, cioè primizia dello spirito.
Vivere la pietà è portare a galla questo: una umanità trasformata dalla coscienza della verità, dal riconoscimento di ciò che la costituisce, da una povertà, perciò, che sarebbe solo disperazione senza l’esperienza di ciò che ci riempie e ci arricchisce.

L’AFFERMAZIONE DEI VALORI E LA PRATICA
Una questione di metodo (123)
La vita è un compito.
Tale compito consiste ultimamente nella realizzazione compiuta, totale del disegno che Dio ha su di noi, il cui riflesso sul nostro esistere è la felicità, la perfezione, la soddisfazione.
Noi siamo fatti per la verità, ma per giungervi la questione fondamentale è porsi sulla strada giusta.
L’arrivarci, poi, è una questione di tempo, e l’impazienza è la più grande stupidità perché rischia di farci abbandonare la strada giusta per sperimentare altri tentativi.
Il metodo è questo: se si affermano i principi in modo serio, esistenzialmente vivo e partecipato, la vita pratica cambierà.
I principi sono la strada e non si può rischiare di perderla in nome di un cosiddetto «concreto».
Il problema è il tempo: le scritture dicono: «nella vostra pazienza possiederete la vita»-
È quindi una questione di pazienza.
L’atteggiamento del «mondo» invece mente proprio su questo punto: che il risultato del proprio sforzo etico si debba potere misurare.
Invece percepire i criteri della verità è la cosa più semplice del mondo.
È come riconoscere la madre per il figlio.
E a meno che non si sia totalmente e volontariamente alterati dalla menzogna, non c’è nulla che impedisca il consolante penetrare della verità nella nostra esistenza.
Occorre che sia vero l'atto di ripetere i principi.
Occorre che esso stesso non diventi menzogna, cioè diventi formalismo.
Allora si può essere certi che il tempo salva perché è lo strumento di Dio,
non è una cosa nostra, come la salvezza che non è una bravura nostra, ma una oggettività di Grazia.
Non c’è niente di più realistico dell’affermazione di un principio giusto con accadimento e fedeltà.
Il tempo produrrà il cambiamento.
E il cambiamento avverato sarà sufficiente per testimoniare il miracolo di Dio in noi.
Ancora una volta l’esito non è l’affermazione di una nostra misura, ma è l’affermazione del significato del vero.
La verità della vita è la misura di Dio
…….bisogna espungere dal profondo la nostra misura.
L’unità dell’io è data dal riconoscimento del principio sintetico,
anche se si è tutti dissolti dalla nostra approssimazione, che il tempo continua a rilevare.
Il cammino del Signore è semplice come quello di Giovanni e Andrea, di Simone e di Filippo, che hanno cominciato ad andare dietro a Cristo: per curiosità e desiderio.
Non c’è altra strada, al fondo, oltre questa curiosità desiderosa destata dal presentimento del vero.
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