Parte quinta: Santità come desiderio di vita
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(1) – IL SANTO E’ UN UOMO (163)
Punto 1 (163)
Vi è una accezione della parola santità la quale si rifà ad una immagine di eccezionalità che una aureola esprime.
La santità va vista in ogni tempo come la stoffa della vita cristiana.
Il santo non è un superuomo, il santo è un uomo vero
perché aderisce a Dio e quindi all’ideale per cui è stato costruito il suo cuore.
Significa «fare la volontà» di Dio dentro una umanità che rimane tale e pur diventa diversa.
La santità è il riflesso della figura dell’Unico in cui l’umanità si è compiuta secondo la sua potenzialità: Gesù Cristo
Punto 2 (163)
La santità è la realizzazione ultima del proprio significato, «l'unica cosa necessaria» del santo Evangelo.
Il rapporto con Dio è l’ipotesi di lavoro più adeguata all’incremento e alla realizzazione dell’unità della personalità.
Il mondo ha bisogno di testimonianze di unità, di coerenza della vita con il suo bisogno fondamentale.
«Siamo resi spettacolo agli angeli, al mondo e a noi stessi».
San Paolo
Punto 3 (164)
L'aspetto più immediato di questo spettacolo è l'unità di coscienza che si crea.
Vivere il mistero della comunione con Dio in Cristo
fa imparare a vedere tutte le cose riferite ad un valore unico
per cui tutti i giudizi e le decisioni incominciano a partire da una misura unica.
Una sola Realtà come criterio e misura e modi investe della sua luce tutte le cose; per cui l’io si sente uno con tutte le cose, perfino di fronte alla morte.
Punto 4 (165)
Un amore alla vita, creatura di Dio – dentro un abbraccio consapevole e leale delle sue condizioni esistenziali, disegno di Dio – caratterizza la figura del santo.
Egli per affermare la propria vita appassionatamente non ha bisogno di dimenticare o di rinnegare nulla: tanto meno la morte.
Così la prospettiva della vita eterna dà al santo di abbracciare la morte come gesto della vita, pur dentro la paura e l’angoscia.
Punto 5 (163)
Quale differenza fra l’eroe di eticità puramente razionale e il santo cristiano.
La morte è redenta, è passaggio alla vita.
«Io, davanti alla morte non cercherò di fare né l’eroe né lo stoico. E se avrò paura dirò: ho paura. Ma a Gesù Cristo»
Bernanos nel Diario di un prete di campagna”
E in questo test supremo dell’umano l’immagine vera si ritrova: in Gesù di Nazareth, che di fronte alla morte «incominciò ad aver paura e ad esser triste» e chiede che la morte gli sia evitata, ma la forza del giusto gli fa abbracciare fino in fondo il volto premendo del significato buono ed eterno:
« Però non la mia, ma la Tua volontà sia fatta»
Punto 6 (166)
L’energia della volontà si libera tutta, non bloccata o rattrappita nella
violenza di un proprio progetto,
ma dentro l’orizzonte di un rapporto vero, eterno.
Sicché il coraggio del sacrificio fino alla mortificazione totale di sé utilizza tutta la forza che proviene dalla ragionevolezza e dalla vitalità senza confini dell’amore.
Così l’unità di coscienza non si arresta sugli spalti del disimpegno estetico, ma diventa operativa e trasformatrice, dominatrice dello spazio intero della persona e quindi del tempo e dello spazio, e
l'unità della personalità diventa storia di maturità propria e altrui, del mondo.

(2) – LA COSCIENZA DELL’INCAPACITA’ (167)
Punto 1 (167)
Il santo è l’uomo che più acutamente e drammaticamente ha la coscienza del peccato.
L’essere peccatore è la modalità esistenziale con cui più si documenta il limite ontologico che ènella nostra stessa libertà.
La libertà ha una limitatezza immanente da cui scaturisce la possibilità del male, del peccato.
«Che meraviglia è se la debolezza è debole?»
San Francesco di Sales
Punto 2 (167)
In tale contesto l’atteggiamento complessivo dell’animo che insorge da una coscienza di sé non può essere che l’umiltà.
La virtù è una inclinazione stabile alla realizzazione di un valore,
e implica una facilità a tale realizzazione: l’umiltà è questa familiarità virtuosa a concepire sé stessi dentro il contesto totale, a sentire che il
proprio vivere è un essere continuamente creato,
ma più clamorosamente a riconoscere l’esistenza come un essere instancabilmente ripresi.
Questa percezione antropologica il santo vive come sentimento normale di sé.
Punto 3 (168)
L’umiltà s’appoggia tutta ad un ultima calma perché la riconosciuta verità di sé induce la pace in cui è il ristoro, il rifluire della vita autentica.
La calma della umiltà penetra un dolore attivo: la parola mortificazione domina la vita del santo:
Una mortificazione per la coscienza vivida della propria originale impotenza e totale fragilità: sostanziale mortificazione del proprio io, il cui risultato è la povertà di spirito.
Il povero accetta con semplicità il paradosso ed ama la maturazione di sé dentro la stranezza della rinuncia, perché
riconosce la salvezza di sé attraverso la misteriosa permissione del male.
Dentro la coscienza del proprio male e sotto il volto del proprio dolore, il santo riconosce tutto questo con la semplicità del cuore di un bambino.

(3) – L’AFFEZIONE A CRISTO (171)
Punto 1 (171)
Nella fisionomia del santo l’affezione a Cristo costituisce il tratto più rispettabile e stupefacente, e il senso della sua Presenza l’aspetto più determinante.
Ciò che brama il santo non è la santità come perfezione; è la santità come incontro, appoggio, adesione, immedesimazione con Gesù Cristo.
La volontà per il santo non è tanto volontà di riuscire, ma è un volere Dio, il desiderio attivo di un Altro.
Ci si può allontanare dalla strada del cristianesimo anche per un calcolo ascetico sbagliato.
Nella presunzione e nella pretesa di poggiarci su fattori apparentemente più realistici, dimentichiamo che l’unico fattore del nostro essere reale è la libera potenza di Dio….
La forza di Dio trasformerà il mio magma umano nella perfezione del suo disegno, nella sua giustizia.
Punto 2 (172)
Nessuna conseguenza etica è più radicale, necessaria e assoluta di questa: la certezza di essere trasformati e perciò di poter cambiare.
Non è la certezza di una salvezza che avvenga dopo la morte, nell’al di là, ma è la certezza di una salvezza che già sta avvenendo nella mia vita:
prima che io muoia la santità penetra in me, la sua giustizia mi possiede.
E’ una certezza che sfida il tempo della mia miseria, e lo sconforto della evidenza del peccato che esso mi veicola, perché ha il suo motivo nella onnipotenza di una Realtà che mi è partecipata come persona, perché mi ha scelto per donarsi a me, per entrare dentro la mia struttura di povertà: la potenza di Cristo in me.
«La santità non consiste nel fatto che l’uomo dà tutto, ma nel fatto che il Signore prende tutto».
Adrienne Von Speyr
In un certo senso anche a dispetto di colui che il Signore sceglie.
Punto 3 (173)
Seguire Gesù Cristo implica dal punto di vista psicologico ed etico una reale povertà di sé.
Nel gioco spirituale il riverbero psicologico è una analoga esperienza del proprio bene, della propria impotenza, della povertà totale di sé, ma proprio come conseguenza del contenuto della direttiva etica, che è l’abbandono a Cristo.
Così la rinuncia cristiana non è l’oggetto di una scelta ma ne è il conseguente breve volto fenomenico.
Il santo, in senso vero, non rinuncia a qualcosa per Cristo, ma vuole Cristo,
vuole l’avvenimento di Cristo in modo tale che la sua vita ne venga permeata, anche visivamente, anche come forma: la rinuncia ne è come modalità apparente.
Perciò il mistero di Cristo è quell’avvenimento, per sua natura perennemente nuovo, che deve costituire per la vita spirituale l’esauriente oggetto di considerazione, dal quale scaturisca una totale speranza: la totale speranza che solo può efficacemente liberare l’energia dell’io per l’azione di giustizia, per l’Opus Dei.
Punto 4 (173)
Il volto della liberazione plasma l’io in un atteggiamento radicalmente nuovo innanzitutto verso se stesso.
In primo piano viene messo quel «qualcosa» di nuovo che siamo noi stessi in quanto ci abbandoniamo all’evento redentore e trasformatore di Cristo, allora noi siamo in grado di recuperarci, di riabbracciare “fraternamente” noi stessi in qualunque condizione.
Se invece il punto di vista è innanzitutto la nostra riuscita, la nostra capacità attuale di esito, noi allora perdiamo noi stessi: con la stessa violenza con cui affermiamo l’orgoglio e la passione, subiamo irresistibilmente la delusione, e dall’amor proprio noi siamo trascinati ad avere recriminazioni e quindi disgusto di noi stessi.
Punto 5 (175)
Il valore del cristiano risiede nel progetto di Dio su di lui: egli lo riconosce e l’accetta come struttura e storie proprie.
L'uomo conosce per quella Presenza d'essere già una creatura nuova.
Punto 6 (175)
Se la nostra ricchezza è nel gesto con cui Dio viene, non possiamo prevedere il modo e i tempi del Suo affermarsi, fino al compimento nella nostra vita.
(Per il cristiano) l’obiettivo qualificante è la “venuta di Cristo“.
Il suo atteggiamento è l’attesa, l’attesa che Cristo venga dentro di sé – e attraverso sé dentro il mondo – nella santità.
Il cristiano attende e desidera essere purificato da tutti i suoi peccati, ma
nessun peccato lo potrà mai sottrarre a questa attesa.
Questa è la radicale abolizione del moralismo, perché la morale cristiana è la storia di Dio nell’uomo.
La nostra libertà non è tanto in quello che riusciamo a realizzare perché questo dipende da Dio.
E' piuttosto nella verità con cui chiediamo a Dio, nella verità con cui mendichiamo Cristo.
Questa è l’essenziale decisione in cui la libertà s’avvera: chiedere con serenità.
È l’atteggiamento che permette una continuità senza fine: «Bisogna pregare sempre», ci invitò Gesù.
Punto 7 (176)
Di fronte al limite del suo male, il desiderio prevalente del cristiano non può essere quello di agire con la propria forza per estirparlo: tale forza avrebbe ovviamente la stessa debole stoffa della volontà che ha fatto del male.
Il desiderio prevalente deve essere Qualcosa che sta sotto tutti i propri limiti e le debolezze che in essi trovano alimento.
Qualcosa che sia in grado di scalzare tutto ciò, che operi in noi ad un livello più profondo di quello in cui s’abbarbica l’attaccamento alle nostre passioni.
Il desiderio prevalente del cristiano deve essere quello del ritorno di Cristo, cioè della sua manifestazione nella propria personalità, nei propri gesti, in tutta la propria esistenza.
Che tale desiderio diventi capacità del cuore di un uomo, contenuto supremo del suo giudizio di valore, oggetto acutamente privilegiato del suo volere sotto tutta la sua miseria, questo è miracolo di santità.
Punto 8 (177)
L’attesa del suo ritorno finale – vissuta non come risoluzione estatica dall’angustia del presente o formula di distacco, se non di recriminazione, dal tempo presente, ma come l’urgenza allo svelarsi della verità di ogni impegno contingente, come il contenuto profetico di ogni serio amore e responsabilità verso il concreto, anche capillare, del cammino della vita, costituisce la sorpresa più sconcertante, provocata da questa umanità nuova, all’occhio mondano, e lo spettacolo più ammirabile e l’accento più colmo di commovente sfida per chi si imbatte e reagisca con sensibilità di uomo e vi rifletta con serietà di spirito, pur nel tacito stupore del cuore che non capisce come ciò possa avvenire.
Punto 9 (178)
E’ in questa attesa che fiorisce quella sorprendente possibilità di
affezione a Cristo che è il dono supremo del suo Spirito e il miracolo più autentico della vita cristiana.
Il privilegio dato all’abbandono di tutto sé su Cristo, Presenza determinante il proprio io e fattore del proprio destino, non oblitera e non elude il giocarsi serio dell’intelligenza che giudica, della ragione che ricerca, o del cuore impegnato fino alla durezza del sacrificio di sé, o della volontà che svolge la sua energia nella tensione di una lotta o del lavoro quotidiano: quel privilegio rende possibile la verità di tutto questo e la sua “durata” nel tempo.
L’abbandono di sé su Cristo implica il coinvolgimento di tutte le forze dell’io.
La dinamica della vita è una operosità per Qualcuno.
Il senso unico della vita è quello di essere dono.
La vita deve essere animata da una volontà di dedizione; e da una impossibilità a concepire il tempo e perciò sé stessi – che è il contenuto essenziale del tempo – se non come operosità instancabile per/in un amore.
E ciò vive nella mortificazione di sé come centro e progetto dell’azione.
Questo deriva al santo dalla chiarezza definitiva con cui Cristo ha descritto, nella sua carne, l’esistenza come dolore.
(4) – PARTE DI UN POPOLO (181)
Punto 1 (181)
Cristo è la consistenza del santo.
Cristo supplisce e sostituisce l’impotenza della propria energia di uomo, come ha sperimentato san Paolo: «Di tutto sono capace in Colui nel quale è la mia forza».
E’ infatti all’interno di questa amicizia consapevole, di questo coinvolgimento esistenziale con la Presenza, la compagnia di Dio, che l’uomo acquista una personalità nuova.
L’alleanza Nuova ed eterna è il luogo della conversione.
La compagnia di Cristo diventa l’ambito di autentica moralità, cioè del tempo come indomita tensione al compimento di sé.
La santità nasce quindi da un giudizio di unità, dalla percezione e dal riconoscimento del proprio totalmente all’interno del “cosmo” di Dio e dentro la sua storia che è Cristo.
Punto 2 (182)
La santità risulta così esperienza di una nuova radice culturale.
Nel rapporto con il mistero della persona di Cristo s’accende, si svolge e si esalta una percezione di sé, della umanità, delle cose, degli avvenimenti, che tende, in modo più implicito o più consapevole, ma sempre appassionatamente, ad una valutazione e ad una concezione critica e sistematica, organica del reale.
L’avvenimento culturale che fluisce potremmo chiamarlo la cultura del “già avvenuto“: il compimento – via, verità e vita – il significato e la perfezione ricercati sono già tra noi e dentro di noi; tutto l’agire è un lievitarsi irresistibile ed immenso del loro manifestarsi.
La verità, la bellezza, la giustizia sono l’organismo del reale umano che vive in questa fede: «La gloria di Dio è l’uomo che vive».
Punto 3 (183)
E’ per questo che la santità come origine di cultura è organizzatrice di popolo, di un popolo nuovo:
l’ideale della edificazione di un popolo è dimensione estrema di una cultura autentica, e di una santità.
Nell’Antica Alleanza santo era chi apparteneva a tale popolo, chi partecipava a tale mentalità, a tale “misura” del reale.
La differenza con le nazioni non era solo etnica: era più profondamente spirituale, e quindi culturalmente esplicita.
Per questo nella tradizione cristiana originale il vero significato della parola «santo» è quello di colui che riconosce «la venuta nella carne» del
Figlio di Dio
Punto 4 (184)
La Chiesa appare il luogo mirabile dove l’umanità vera, quella secondo il disegno di Dio, diviene alla portata di tutti.
La vita della Chiesa è il suo tesoro nascosto per comperare il quale val la pena di vendere ogni cosa.
Il fondamento è Cristo, la pienezza è già compiuta.
L’opera di ognuno è la conversione ad essa.
Si costruisce su questo fondamento in vari modi e l’opera di ciascuno rivelerà poi il suo valore.
La moralità della nostra opera è data da un criterio preciso: l’edificazione del Corpo di Cristo.
Punto 5 (185)
Qualsiasi teoria etica al fondo dice che il problema è fare il bene e fuggire il male, ma il vero problema è quale sia il bene.
Il bene per il cristiano, è la costruzione del Corpo di Cristo.
Per cui possiamo affermare che
il cammino della santità del cristiano è l'edificazione della Chiesa.
Il contenuto, il positivo sta nell’essere continuamente mossi da questo, nel riassumere tale motivo come la vita della propria vita.
Il valore non sta, ancora una volta, nella misura del risultato.
Il comandamento supremo di Cristo, «Ama Dio con tutto te stesso» e «ama il prossimo come te stesso» si concreta in quella disponibilità viva, attiva di dedizione totale al mistero della Chiesa che investe l’immagine di ogni progetto, ma anche il giudizio di valore e il sentimento di ogni azione.
Punto 6 (186)
La santità non è nella Chiesa solo un fatto di eccezionalità.
«I santi sono la dimostrazione della possibilità del cristianesimo, perciò possono essere guide su una strada verso la carità di Dio che sembra altrimenti impossibile»
Adrienne von Speyr
Nella loro fisionomia e nel loro cammino il cristiano scorge come su uno schermo d’ingrandimento la struttura della propria figura più embrionale e i tratti del proprio cammino più breve ed inevoluto.
Per questo agli albori dell’avvenimento cristiano, anche nel fervore degli inizi, la Didaché raccomandava: «Cercate ogni giorno il volto dei santi e traete conforto dai loro discorsi»
Conclusione
Questo è il peso, la responsabilità che abbiamo in mano: non immediatamente la nostra virtù, la nostra solidarietà, non le nostre strutture, le nostre istituzioni, non i nostri ideali e i nostri sentimenti morali, ma l’avvertimento di un Accaduto.
Il vero problema della santità cristiana non è la scelta di un atteggiamento da avere nel mondo, ma il
riconoscimento di Qualcosa che è accaduto e ci è stato donato,
e ci muta giorno per giorno l’atteggiamento e il volto.
La chiave di volta non è un “poggiarsi” su di sé, ma aderire a Qualcosa che «è apparso nella carne».
«Fate questo in memoria di me»
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