Alla ricerca del volto umano

CONCLUSIONE


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  1. La Chiesa come luogo di moralità

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Monet davanti ai suoi quadri (ingrandisci)

LA CHIESA COME LUOGO DI MORALITA’ 

1 – La moralità cristiana: adesione, non misura (231)

La figura morale è l'uomo che vive l'atteggiamento originale in cui l'ha plasmato il gesto creatore.

Ossia in qualche modo ne è cosciente, vi aderisce e lo mantiene, cioè lo vuole.

L’atteggiamento originale in cui l ‘uomo viene creato è quello di un impeto con una direzione e un termine preciso, una tensione cioè al mistero stesso che lo pone, all’infinito di Dio.

«Fecisti nos ad Te, Domine, et irrequietum est cor nostrum donec requiescat in Te»

Sant’Agostino

L’essenza della moralità sta nel vivere l’istante dentro questa tensione, nell’affrontare il progetto, più o meno cosciente ed esplicitato, di ogni azione all’interno di questa tensione.

È in tale senso che una autenticità morale attraversa lo stesso errore o peccato, rimanendo fedele a se stessa, giudicando il fatto in cui l’uomo si piega per debolezza, ribellione o incoerenza e per cui l’atto in cui l’uomo stesso si esprime, inverte la rotta e arresta la direttiva dell’esigenza originale.

E proprio in questo giudizio si radica il riprevalere dell’affezione giusta, cioè dell’energia di adesione a ciò cui è destinata la dinamica naturale del proprio essere.

Non è dunque una misura la moralità cristiana; è l’adesione ad una Presenza, all’Essere che è mistero personale e origine costitutiva della creatura umana.


2 – L’emergenza di un riferimento oggettivo (232)

Il mistero di Dio esprime il cammino su cui l’impeto affettivo a sé da parte della creatura è chiamato ad incanalarsi: cioè palesa una modalità di richiamo che attraversa, facendo emergere una oggettività, l’emotività della reazione umana.

Si tratta della “natura delle cose“, si tratta cioè di quella ultimamente inevitabile struttura di riferimento, e quindi di funzionalità all’unità del disegno di divino che costituisce l’unità delle cose stesse.


3 – L’uomo sulla soglia del mistero si “finge” Dio (232)

L’uomo difficilmente riesce a mantenersi diritto su quella soglia vertiginosa in cui il mistero è riconosciuto come mistero.

L’uomo vien meno su quella grande soglia, si distrae e s’addormenta o sogna il mistero: si finge il “dio” a sua immagine e somiglianza, inventa e manipola i significati delle cose secondo articolazioni esigite dai suoi programmi.

La morale dell’ideologia tende così, distruggendo la funzione ultima della contrizione, a cristallizzare l’impeto in misure.

Il moralismo diventa la prigione della libertà.

«Me infelice chi mi libererà da questa situazione mortale?».


4 – La Chiesa: misericordia di una presenza (233)

Chi” l’abbiamo saputo.

E «Chi ci separerà dall’amore di Cristo Ma l’obbedienza a Lui impone il riconoscimento del “dove” l'”Opus Dei” a noi si applica, e vi si illumina una regola di vita oggettiva, come la roccia su cui costruire, e la via incorruttibile.

La Chiesa è questo luogo, lì la misericordia ultima diventa la presenza di Cristo; il termine ineffabile dell’aspirazione costitutiva dell’uomo diventa oggettivo termine di sequela.

La parola di Cristo, custodita e brandita dalla Chiesa, contesta i sogni umani in cui la realtà tende ad affacciarsi spaventando con figure mostruose o illudendo con certezze e promesse fallaci.

L’articolarsi delle cose entro la manipolazione umana acquista una possibilità di essenziale lucidità che dilata la valorizzazione delle cose stesse e rende più intenso l’uso del tempo.

La Chiesa è il luogo di questo dono di chiarezza, di sicurezza e di rendimento del rapporto tra l’uomo le cose e il tempo.


5 – I giochi del relativismo e dello scetticismo (234)

È difficile fuori di essa evitare in varie degradazioni lo scetticismo e il relativismo che si annidano dentro questa ricerca, non solo là dove essa sia diventata nervosa, ma anche là dove essa rimane presuntuosa.

Il relativista, nella pratica del vivere e nella urgenza dei suoi progetti, assolutizza in modo contradditorio il punto di vista che gli è interessante, e nei rapporti con gli altri tende ad imporlo, come forzosamente, anche se, incoscientemente lo impone a sé stesso.

Così una strumentalizzazione abnorme di sé, degli altri e delle cose non è violenza derivata derivata solo dall’inquietudine ansiosa, ma più clamorosamente e direttamente dall’inquietudine di una volontà di potere che nella riuscita cerca sicurezza e consistenza.

E’ nella santità della Chiesa che questo gioco complesso viene continuamente snidato, combattuto e superato.

Il significato ultimo è presenza;

La chiarezza fruga dentro la continua ambiguità delle apparenze e vi scopre l’utilità del reale delle cose; in particolare il tempo è stato esorcizzato dalla sua ostilità, di cui la morte e la corruzione sono i segni supremi: l’organizzazione della propria presenza nel mondo avviene nella fatica, ma nella pace.

Il lavoro della vita diventa pazienza.


6 – Vivere la memoria: essenza della moralità (235)

La certezza che il tempo è creativo di un ordine, e quindi ultimamente favorevole, non è fondata su una propria analisi.

Quella certezza è fondata su una Presenza. E’ il favore di questa Presenza che rende sicuro l’esito del tempo.

Ma essa non è un avvenimento estraneo alla ricerca del pensiero e alla fatica della libertà.

E’ come se l’oggetto primo dell’attenzione sia questa Presenza: non il «dovere» da compiere.

E’ come se il termine primo dell’affezione sia quella Presenza: non la realtà da possedere.

La chiarezza del giudizio morale, l’inclinazione affettiva al giusto, la forza della volontà, tutto ciò matura come conseguenza: infatti nel rapporto con quella Presenza la totalità della persona è attratta, è suscitata al bene.

La moralità della Chiesa è innanzitutto un avvenimento: il riconoscimento di quella Presenza, lo “stare” con essa.

Vivere la memoria, questa è la moralità della santità cristiana.


7 – La memoria ancorata al segno (236)

La memoria è ancorata al segno.

E la famigliarità con esso, operata dallo sguardo del bambino e mantenuta nella povertà del cuore, assicura la vigilanza, tendendo l’immagine di sé a conformarsi alla Realtà, nascosta sì, ma resa palese nei suoi tratti esistenzialmente più significativi ed operativi dalla struttura oggettiva del segno.

E’ nella dipendenza della vita cristiana dal sacramento che come ad un pozzo si attinge la freschezza d’una motivazione adeguata d’impegno morale, o come dentro l’offerta di un contesto decisivo si evidenzia l’atteggiamento giusto, pertinente.

Ma il segno Eucaristico si dilata ed esplicita in un segno più grande, la Chiesa, segno adeguato “della presenza di Colui che si realizza interamente in tutte le cose“(Ef 1,23).

Questo corpo «ben compaginato e connesso»”, che «mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ciascun membro, riceve forza in modo da edificare se stesso nella carità» (EF 4,16)

Destare l’autocoscienza della persona come realtà totalmente appartenente all’unità dei fratelli operata dal battesimo e custodita e sviluppata dall’autorità, e stimolarne l’espressività in funzione dell’espressione comunionale, questa è la radice d’una pedagogia alla moralità cristiana.

L’immanenza di sé al mistero comunionale – nella misura in cui è riconosciuta e amata e quindi partecipata – fa penetrare, come per una pressione osmotica, l’essere personale di una misura e di una sensibilità nuove, diverse (metanoia), e rende possibile una nuova delectatio victrix, che facilita il costruirsi della virtù, e una nuova gioia – la gioia perfetta – che rende la speranza capace di motivi «contro ogni speranza».


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