Riassunto di “Si può, (veramente?!), vivere così?”

6° Capitolo – LA FIDUCIA


Indice linkato ai titoli e sottotitoli

  1. Fiducia: ripresa sintetica
  2. Dialoghi
  3. Memoria, coscienza di una Presenza

1 – Fiducia: ripresa sintetica (398)

[233-238] «È l’oggetto scoperto dalla fede che sostiene tutto il nostro futuro, è l’oggetto scoperto dalla fede che sostiene tutto quanto l’ignoto della speranza, perché la speranza è piena di ignoto.[…] La speranza è fino al compimento: questo è introdotto dal concetto di fiducia. Fiducia è affidarsi a uno.

1 – Fiducia è affidarsi a uno. La fiducia, perciò, ha dentro la speranza come compimento, cioè ha dentro la povertà come regola della vita.

2 – Un altro modo di dire la stessa cosa: è la parola abbandono. Abbandono richiama ancora la parola povertà, come se uno dovesse privarsi di qualche cosa, invece non è privarsi: l’abbandono è come il bambino con la madre, è la sicurezza.

3 – Questo ottimismo che si attua come abbandono, decide di ogni risveglio, di ogni ripresa di coscienza, così che il motto della vita, la formula della vita diventa quella che ha detto san Paolo: «Tutto posso, di tutto son capace insieme a Colui nel quale è la mia forza»

4 – E’ da questo perdono, è da questo potere che viene in me, è da questo poter far tutto insieme a Lui che si stabilisce la mia forza, insieme a Lui che mi è fedele».

Si può vivere così?

2 – Dialoghi (400)

Fare silenzio è la cosa più importante dopo il generare.

(401) Il nichilismo non necessariamente vede il mondo ridotto a cenere e a niente, ma riduce a cenere e a niente l’io, il soggetto che possiede.

Il silenzio è perciò la memoria del mattino che si risveglia, che è la Risurrezione di Gesù; questa certezza assoluta del futuro, proiettata sul sentimento che ci ingombra l’animo alle sei e un quarto di quella mattina in cui ci svegliamo, e in cui si innesta la guerra tra la consapevolezza ideale, l’amore alla vita, l’amore all’essere e la sopportazione del tempo dell’esistenza, la guerra tra l’amore e la sopportazione.


[234-235] «Giovanni e Andrea, mentre erano lì a sentirlo parlare, non avevano paura della vita o un interrogativo se la vita fosse negativa o positiva»

Si può vivere così?

Per mia esperienza è come se la certezza dell’essere affidati dovesse sempre ricominciare da capo. Allora deve prevalere il giudizio o l’attaccamento, o insieme? (403)

Deve prevalere quel giudizio cui a un certo punto sei arrivata, dal quale non si può non sprigionare un attaccamento.

Ma l’attaccamento si sprigiona quando e come Iddio vuole.

Tu devi essere fedele al prima, fedele all’accaduto, fedele all’avvenimento, il cui frutto principale è un giudizio di certezza.


Quindi è normale la sensazione di re-iniziare di nuovo? (403)

La sensazione di re-iniziare daccapo non è solo normale, ma è l’essenza della libertà.

(404) È della essenza della libertà che tu compia questo gesto, non perché l’hai già compiuto, ma perché lo compi adesso.

È sempre un sì ripetuto: quanto più lo si ripete, tanto più diventa consapevole dei motivi.

Chiunque spacca questa fedeltà va alla deriva.


[ 235-236] «Il segno dell’abbandono è come se a uno si prosciugassero tutte le sorgenti dell’orgoglio; non si inorgoglisce più, gli diventa impossibile inorgoglirsi perché niente è suo, e tutto diventa suo se niente è suo».

Si può vivere così?

Non riesco proprio a capire questa cosa nella mia esperienza (405)

La difficoltà vostra è nel non ritrovare nell’esperienza un corrispondente a ciò che si dice.

Quando si parla dell’essere, le cose più ultime e profonde, c’è un solo tipo di esperienza riassuntivo; l’esperienza dell’amore.

(406) Guardandoti dentro, tu capisci che il voler bene a un persona non è prenderla, ma è abbandonarsi.

L’abbandono è come se ti liberasse, non nel senso che ti libera dalle persone, ma ti libera nel rapporto con la persona: l’hai senza preoccupazione di averla.

(407) Lo accetto come Cristo lo ha voluto e lo vuole.

La parola abbandono indica un modo di presa: la presa di una cosa nella sua realtà finale, fin nella sua sorgente.

La sorgente della cosa, essendo Dio, è una presa della cosa fino al palpito dell’intelligenza e della sapienza e del cuore con cui Dio crea.


Allora l’abbandono non è l’abbandono della cosa, ma abbandono di noi stessi come capaci di capire, capaci di prendere la cosa. (408)

Come possessori della cosa! Perché qui il termine di paragone, ricordiamolo è la povertà.

La sorgente della fiducia è la povertà, e la povertà è il distacco, è che “non è mio.

Proprio perché non è mio, in quanto non mio, io mi appoggio tutto, mi abbandono tutto.

È solo a qualcosa che non è mio che mi posso abbandonare totalmente: quanto più uno è tronfiamente sicuro di sé stesso, è debolissimo.

(409) Pretendere di essere la sorgente del possesso completo:

questo è l’orrore che Dio denuncia come peccato originale.

(410) È proprio non possedendo niente che emerge la vera virtù, la vera capacità di possedere, che è la fiducia in ciò che realmente possiede l’oggetto che ti deve dar forza, aiuto, luce, affezione, presenza, bellezza, immaginitività nella creazione, nell’edificare.


[236] «b) Tutto posso in Colui nel quale è la mia forza. Questo ottimismo decide di ogni risveglio, di ogni ripresa di coscienza».

Si può vivere così?

Io volevo capire che cosa è questo “tutto”, perché di fronte a una sorella down, oppure di fronte a un amico che mi tratta male, non mi basta (411)

Te lo impedisce, perché non basta, quel che pensi tu non basta. Proprio ciò che manca dimostra che tu non possiedi.


Nel capitolo sulla fiducia fai  due corollari: l’abbandono e il “tutto posso in Colui che è la mia forza”. A me questi due corollari sembrano identici(412)

No! L’abbandono è il non possedere niente.

Essere abbandonato è una forma di sicurezza lieta; il corollario di questo primo corollario è la letizia.

Mentre, il corollario del secondo corollario è una forza, una sfida, è che niente mi è più obiezione.

Sono due vibrazioni dell’animo diverse: una è semplicità e l’altra è forza.


[236-237] «Non arzigogolare e tendere alla perfezione, ma guardare in faccia Cristo».

Si può vivere così?

Mi sembra che in me il nemico di questo guardare sia la distrazione. Cosa vince questa distrazione? (413)

Non è colpa della distrazione. Diventa colpa quando è voluta.

Quando è voluta la distrazione?

(414) Quando non si ascolta la compagnia; quando pretendi di definire la loro vita e i suoi passi. Nella compagnia no: devi obbedire e il passo deve essere modulato su quello molto più piccolo del bambino (poniamo!).


[237] «Guardare in faccia Cristo invece cambia»

Sul guardare Cristo e sull’amare Cristo, mi verrebbe da dire: «Ma io con la coda dell’occhio è più facile che tenga presente il Gius che neanche Cristo», Quando uno passa ad amare proprio Cristo stesso?(414)

Passa ad amare Cristo stesso quando riconosce chi è Cristo e dice: «Sì, tu sei la cosa più importante della mia vita». Sì: questo è senza sbavature né possibilità di equivoco.

(415) Da questo può essere riconosciuto un compito nella propria vita, che è quello di aiutare il disegno di Dio a svolgersi, a procreare, a essere fecondo, a prolungarsi.

Non c’è niente di più concreto di questo,

perché cambia l’oggi, cambia lo sguardo mio a te, cambia la mia famelicità che metterebbe su di te le mie mani adunche, che avrebbero terrore della morte e perciò sarebbe intirizzita del grande gelo ultimo.


Capisco che quello che abbiamo detto deve investire tutto il mio modo di stare in rapporto con le cose, ma vorrei capire come. (416)

Il “come” lo capisci dopo che l’hai fatto.

Perché se tutto è abbracciato da quel allora tutto sarà toccato da quel “, e quando sarà toccato cambia.

Tu t’accorgerai di cosa avviene dopo che cambia. Preoccupati del “ a Gesù, Dio fatto uomo.


[238] E’ da questo perdono, è da questo potere che viene in me, è da questo poter far tutto insieme a Lui che si stabilisce la mia forza….l’esito continuo di questa nostra vita che sarebbe così impoverita, così meschina, brutta e sporca…..l’esito è una grande festa.

si può vivere così?

Io vorrei capire di più questo (416)

(417) La festa più inconcepibile, perciò la festa più grande della casa è il perdono.

E quanto più è grande l’infedeltà, tanto più grande è, se avviene, il perdono, tanto più clamorosa è la festa.

Un figlio può essere buono, può essere cattivo,

prima del fatto che è cattivo, che è buono, viene il fatto che è figlio.

Questa è la misericordia: amare il fatto che è figlio più che sia buono o cattivo.

Se la fiducia ha come esito una festa, vuol partecipare tutti a questa festa.

(418) Il figliol prodigo ha avuto fiducia nel padre, da qui è sorta la festa, e la festa travolge tutto!

Così il rapporto personale del padre con il figlio diventa tempio, cioè luogo dove tutto è festa.

E nel tempio converge tutto il tempo; in quel tempio, pensando a duemila anni prima, è come fosse adesso.

Duemila anni prima e adesso sono lo stesso, e la stessa cosa avviene.


[239] Ma è una festa che rende l’adulto principio di una storia nuova, artefice, protagonista di una storia nuova nel mondo, vale a dire creatore di un popolo, generatore di un popolo: per creare un popolo bisogna generare.

Si può vivere così?

Vorrei capire meglio che cosa significa generare (419)

(421) Generare un popolo non vuole dire buttar fuori dei bambini dal seno di un donna, vuol dire comunicare una cultura, cioè una concezione, una percezione, una affezione, un impegno, una serietà nel lavoro, una genialità del lavoro, una capacità di abbraccio e di ospitalità.

Un popolo è una concezione, un sentimento.

Nel nostro breve popolo che è il Gruppo Adulto ognuno di voi  mi interessa più che mio padre e mia madre; è più vicino, prossimo, inerente e immedesimato: «Ma non sapete che siete membra l’uno dell’altro?».


[246] Colui cui appartiene il tempo, è buono. Tanto è vero che prima ancora che muoia per noi, e quindi risorga per noi, aggiunge tempo a tempo, prolunga il nostro tempo: «Iddio ha pazienza perché voi vi correggiate» dice san Pietro ai primi cristiani

Si può vivere così?

Cosa vuol dire “aggiunge tempo a tempo?”(422)

Colui a cui appartiene il tempo è buono; non buono verso il tempo, buono verso noi; tant’è vero che, pur sapendo quanto sei fragile ed equivoco nell’uso del tempo, ti lascia tempo, allunga il filo, aggiunge tempo al tempo.


[ 247] – c) il dolore, amore a un presente.

Si può vivere così?

Sapere che il dolore che provo tutti i giorni è segno che sono di fronte a una presenza,  mi ha aperto, mi ha dato ossigeno. Però mi sembra che Lei dica che questa è una categoria passeggera. Vorrei chiedere come è possibile, perché nella mia esperienza mi sembra impossibile che possa essere superata da questo dolore (423)

Riconoscendosi peccatore, l’uomo incomincia l’esperienza di un dolore che è la fonte dell’amore.

Si trasforma: il dolore è un amore.

Per questo non è negatività la sua permanenza; anzi, quanto più permane, tanto più diventa amore attivo, fattivo e dedicato.

L’amore o incomincia come dolore o resta come documento di una famelicità di possesso.

(424) Mi spiace ma mi spiace fino a un certo punto.

Il riconoscersi peccatori come inizio dell’amore è ben diverso: riguarda un FATTO accaduto che, secondo l’idealità del cuore, non sarebbe dovuto accadere.

Il dolore del peccato non è l’umiliazione di sé.

(425) La riuscita della vita non è la gloria dell’uomo; la riuscita della vita è la gloria di Cristo.

La gloria di Cristo verso di me peccatore è la misericordia che ha. Perciò io verso di me divento misericorde, per gratitudine a Cristo.


3- Memoria, coscienza di una presenza (425)

[257/258] Giovanni e Andrea avevano fede, perché avevano certezza in una Presenza sperimentabile. Il segmento che mette in rapporto la sera precedente e il giorno dopo si chiama memoria, e la memoria è la continuità dell’esperienza di un presente, di una presenza che non ha più le qualità di quando uno prende il naso di qualcuno e tira tira: quella immediatezza non decide affatto della profondità e della sicurezza del rapporto. Non l’avessero rivisto per tre settimane. il desiderio dominante di quei due era quello di ritrovarlo, perché era chiaro che era Lui, che Lui era Lui; non sapevano chi fosse,  ma era Lui. La memoria è la coscienza di una Presenza.

Si può vivere così?

Volevo chiederti se coscienza di una Presenza vuol dire che in tutti gli istanti della mia giornata io devo pormi in un atteggiamento di domanda, cioè domandare quello che di vero ho incontrato nella vita (426)

Questa è una domanda seria, è la domanda che qualifica la serietà di una persona.

La domanda è giustissima.

Il valore di ciò che sta accadendo in voi – il valore, cioè il rapporto con l’eterno, il merito per l’eterno, la grandezza dell’animo con cui entrerete nell’eterno, la grandezza della vita eterna – sta nella memoria vissuta, sta nella fedeltà della memoria .

(427) Dov’è la difficoltà, se è così chiaro quel che ha detto lui (siccome la memoria è coscienza di una Presenza, la coscienza di questa Presenza dovrebbe accompagnare ogni nostra azione)?

Questa difficoltà, innanzitutto misura la povertà, la piccolezza e anche l’infantilità del modo con cui si vive: infantilismo è agire senza coscienza dello scopo, o agire con  un tipo di reazione non degno dell’uomo.

Dunque ad ogni azione dobbiamo aver coscienza della Presenza,

(428) altrimenti è falso ciò che compio.

Manca dello scopo, della coscienza dello scopo, manca dell’impegno con lo scopo, manca della responsabilità verso lo scopo, perciò manca dell’affettività verso lo scopo. Se è così evidente quello che abbiamo spiegato, perché sorge la domanda del nostro amico?


Perché è difficile sostenere la posizione di domanda, perché siamo distratti. (428)

La domanda sorge perché sarebbe troppo difficile che ad ogni azione noi realizzassimo la coscienza della Presenza.

È impossibile non essere distratti.

(429) Allora, il Signore che ha fatto il cielo e la terra, che appunta nel cielo le stelle, come risponde a te che, di fronte al triplice passo cui ho accennato

  1. La doverosità della memoria come coscienza della Presenza
  2. Come far si che questa memoria determini il mio soggetto in azione
  3. È troppo difficile, tanto che la distrazione è come una salvezza.

Il Signore come risponde a te, che di fronte al triplice passo, poni la domanda: «Come devo fare?».

Dice: « e’ impossibile che tu ci pensi ad ogni azione, e non è neanche necessario».

(430) Non ci si può pensare ad ogni azione. Memoria non significa che ad ogni azione si pensi a Lui; non è neanche necessario che sia così.

E’ necessario che tu ami questo.

Per questo si capisce perché il sì di Pietro è l’origine della morale: il di san Pietro, non l’analisi del come e quando, o delle leggi rispettate o no.

La morale è il di Pietro, che è una amorosità espressa.

(431) Che si desideri questo. E il di Simone, che è generico, è generale, investe la totalità della sua persona, anche là dove tutte le sue espressioni potevano essere contraddittorie.

San Pietro poteva sbagliare sempre ed essere vero nel dire «Sì ti amo».

È su questo livello che deve attestarsi la nostra vita, su qualcosa di apparentemente generico come, realisticamente, è il rapporto con il Dio fatto uomo.

(432) Succede che non bisogna guardare la coerenza e l’incoerenza, se accade o quante volte accade;

bisogna vedere se amiamo o non amiamo quella Presenza.

Perciò, prima di tutto, la risposta che Dio chiede è che gli si dica: «Sì, Ti riconosco vorrei pensarti tutto il giorno, ma come si fa?».

Quanto più tu cerchi di esercitare quella memoria, quanto più domandi di pensarlo, tanto più è come se il tuo terreno si alzasse, si elevasse, diventasse più ricco.

(433) E man mano che si avanza, quanto più ripeti il gesto, tanto più avanza una cosa stabile in te, un atteggiamento che tende a diventare stabile, e tendendo a diventare stabile, ti rende più facile moltiplicare il ricordo.

E quanto più tu moltiplichi il ricordo, tanto più si fa stabile il desiderio, si fa stabile il sentimento, si fa stabile la necessità di esso, si fa stabile la domanda a Dio.

Finché si arriva a un punto della vita dove 

improvvisamente la vecchiezza cambia di segno, improvvisamente, e diventa più giovanile della gioventù. 

(434) E quanto più tu moltiplichi l’abitudine di questi gesti tanto più essi diventano permanenti, come un substrato permanente, come la freschezza permanente di tutte le tue azioni.

Finché diventa proprio il contenuto preciso, obiettivo del tuo pensiero e del tuo cuore, e non vorresti mai andar via da lì. 

(434) E la vecchiezza, essendo l’ultimo grado di questo sviluppo, facendo diventare abituale la coscienza di questa Presenza, ti stabilisce, ti arrocca, ti fa costruire su una pietra d’angolo disprezzata dagli altri.


Come mi accorgo se il mio sì generico a Cristo non è un sì formale o astratto? (436)

Se qualcosa cambia.

Prima di tutto c’è un sentore del cuore: uno capisce, percepisce che è vero il suo .

Se questo è continuato nel tempo, partecipato nel tempo, questa percezione diventa confermata dall’evidenza del tempo.


[258-259] «…..(per Giovanni e Andrea) dopo una settimana quella Presenza era Presenza ancora; fossero campati tre anni senza rivederlo, tutta la vita sarebbe stata stracciata dal desiderio di rivedere il Suoi capelli agitati dal vento: ma quello era Lui, una sicurezza assoluta. L’ultimo pensiero che sarebbe venuto in mente a quei due, non l’avessero visto per sei mesi, sarebbe stato il dubbio che fosse stata una illusione. Lui ti arriva addosso con le nostre presenze, che siamo come le fragili maschere, la fragile pelle, le fragili maschere di qualcosa di potente che è Lui che sta dentro, che non sono né io né lui né te, eppure passa attraverso di me, passa attraverso te, passa anche attraverso lui e le cose di oggi non te le dice nessuno».

Si può vivere così?

In che senso fragili? (438)

Guardi Gesù che ti raggiunge con le nostre presenze: segni fragilissimi e quasi esotici, quasi bugiardi.

Ma non siamo bugiardi, tu ed io, siamo poveretti: fragili maschere, fragili segni.

(439) Fragili, siamo fragili maschere di qualcosa di potente che è Lui che sta dentro, che è qui tra di noi.

(441) È come se dicesse: «Se vuoi arrivare alla commozione vera di fronte alla meschinità e alla vigliaccheria dei tuoi peccati, e di fronte alla misconoscenza e alla durezza che hai verso Cristo, Dio fatto uomo, devi pensare a Lui, guardandolo in faccia veramente»

Immagina Gesù e la Samaritana:

devi guardare in faccia Gesù veramente, non trascendendo o astraendo. È una Presenza che domina.

Questa è l’origine del dolore, questa è l’origine del cambiamento, questa è l’origine della conversione.

(442) Io vi posso guardare in faccia non tenendo conto di questa Presenza umana, e vi posso guardare in faccia tenendo conto di questa Presenza.

Il cristianesimo non sono delle cose da fare, delle leggi da rispettare; ma una presenza di cui stupirsi, una presenza da pensare, una presenza con cui parlare, una presenza da implorare: una Presenza.

È un Tu che domina, non delle cose.


[259] E solo se tu commetti qualche errore particolare e grave, prima che tu ti senta perdonato, potrai rifugiarti, come sollievo o tentato sollievo, nell’idea che sia stata un’illusione l’incontro fatto. Fin quando potrai mettere a paragone quello che noi ti diciamo con tutto quello che gli altri ti dicono, non potrai mai dire con serietà che questo che diciamo noi è un’illusione, perché è troppo conforme alla tua carne e alle tue ossa.

Si può vivere così?

Volevo chiederti di spiegare questa frase (443)

Se tu riconosci con chiarezza che hai sbagliato e ti accorgi di essere perdonato e accetti questo perdono, il sollievo c’è subito, tanto la vita ci è data e la continuità della vita ci è data e la letizia della vita ci è data.

Quello che c’è ci è dato.

La grandezza della libertà sta nell’umilissimo atto «servile» di accettazione.


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