Temi de “Il senso Religioso”

ABCDEFGILM/NOPRSTUV

Lettera «M – N»

Libro “Il Senso Religioso” di don Luigi Giussani



Male

(3) Alexis Carrel in Riflessioni sulla condotta della vita:

(85) Russel in Misticismo e logica e altri saggi:

(145) Gen. 8, 21-22:

(149s) La sorgente del nostro essere ci mette dentro la vibrazione del bene e l’indicazione e il rimorso del male.

 L’esperienza dell’io reca con sé  la coscienza del bene e del male, la coscienza di qualcosa cui non si può rifiutare l’omaggio della propria approvazione o l’accusa.

Comunque venga applicata questa categoria del bene perché è bene e del male perché è male, è inestirpabile.

Perché risponde ad una destinazione ultima, risponde al nesso con il destino.

È qualcosa che mi si impone, mi obbliga a giudicarlo e a riconoscerlo come bene e come male.

Il binario di un bene, di un giusto cui è legato il senso stesso della vita, della esistenza propria, del reale.

(150) Diceva san Paolo nella lettera ai Romani:


Materia

(54ss) L’osservazione che il soggetto fa di sé stesso in azione gli rivela che il suo io è fatto di due realtà diverse, tentare di ridurre l’una all’altra sarebbe negare l’evidenza dell’esperienza che diverse le presenta.

(55) Queste due realtà con caratteristiche irriducibili, potevano essere chiamate in molti modi: le hanno chiamate materia e spirito.

(56) C’è una obiezione diffusa all’esistenza nella persona umana di queste due irriducibili realtà. Si tratta dell’obiezione materialista.

La vita umana, come ogni altra vita animale, nasce da un elemento maschile e un elemento femminile, e appare nei suoi primi sviluppi descrivibile e analizzabile come ogni altra vita animale.

La differenziazione del duplice fattore si evidenza solo dopo .

«Vedete dunque – direbbe il materialista – che quanto appare dopo, cioè spirito, intelligenza, pensiero, amore, è una flessione del dato materiale iniziale. Anche il cosiddetto spirito è frutto della materia, l’uomo è per sua natura materia».

(57) L’esperienza mostra in me due tipi di realtà irriducibili l’uno all’altro, non posso farli coincidere, perché spiegare la differenza sopprimendola significaca forzare, violentare l’esperienza, significa investire l’esperienza di un preconcetto.

Alla radice di questa dimenticanza, cioè di questa falsità, poiché in nome di un «a priori» si va contro l’evidenza dell’esperienza, sta un errore di metodo.

Se in questo presente appaiono due fattori irriducibili e se rivolgendomi al passato devo notare che, rifacendo il cammino all’indietro, i due fattori sembrano meno visibili dino a confondersi, sarà precisamente questo fenomeno cui dovrò trovare una spiegazione, ma a partire dall’affermazione dei due dati che nell’istante presente sorprendo.


Memoria

(114s) Solzenicyn in Il mio grido. Discorso del premio Nobel:

Ora, la memoria di sé ridotta a pezzi vuol dire l’impoverimento, l’intristimento, l’assottigliamento, l’inaridimento dell’io.

La memoria del popolo è ridotta a pezzi, per cui il popolo è un agglomerato di «gente costretta alla incomunicabilità perché impedita di ricordare».

Sono note che vanno come spada alla radice del malanno mortale in cui è l’umanità oggi, l’uomo oggi.

Il dialogo e la comunicazione sorgono dall’esperienza, la cui profondità è nella capacità di memoria: tanto più carico di esperienza sono, tanto più sono capace di parlarti, tanto più sono capace di comunicare con te, tanto più nella tua posizione, arida o meno arida non importa, trovo connessione a quello che ho dentro io.

(115)

La memoria è il custodire l’esperienza; esperienza quindi custodita dalla memoria, perché io non posso dialogare con te, se la mia esperienza non è custodita in me, protetta in me come un bambino nel seno della madre, e così cresca in me man mano che il tempo passa.

L’esperienza deve essere veramente tale, cioè giudicata dalla intelligenza.

Come fa l’intelligenza a giudicare l’esperienza?

Sempre paragonando il contenuto espressivo in base alle esigenze costitutive della nostra umanità, in base alla «esperienza elementare»,


Mendicanza

(75) Solo l’esistenza del mistero è adeguata alla struttura di mendicanza che l’uomo è.

Egli è insaziabile mendicanza e ciò che gli corrisponde è qualcosa che non è sé stesso, che non si può dare, che non può misurare, che l’uomo non sa possedere.

Shakespeare in Macbeth:

(201) All’estremo della esperienza della vita, all’estremo della coscienza sofferta e appassionata dell’esistenza si sprigiona, malgrado l’uomo stesso, questo grido della umanità più vera, come una implorazione, una mendicanza.

Si sprigiona la grande ipotesi che si “possa fare il passaggio con qualche più solido trasporto, con l’aiuto cioè della rivelata parola di dioPlatone nel Fedone.

In termini propri si chiama ipotesi della rivelazione.


Mentalità

(13s) Se si vuole diventare adulti, senza essere ingannati, alienati, schiavi di altri, strumentalizzati, ci si abitui a paragonare tutto con l’esperienza elementare.

In realtà così propongo un compito non facile impopolare.

Di norma infatti, tutto viene affrontato secondo una mentalità comune, sostenuta e propagandata da che nella società detiene il potere.

Cosicché la tradizione fmiliare, o la tradizione del più vasto contesto un cui si è cresciuti, sedimentano sopra le nostre esigenze originali e costituiscono come una grande incrostazione che altera l’evidenza di quei significati primi, di quei criteri e se uno vuole contraddire tale sedimentazione indotta dalla convivenza sociale e dalla mentalità ivi creatasi, deve sfidare l’opinione comune.

(14) La sfida più audace a quella mentalità che ci domina e che incide in noi per ogni cosa – dalla vita spirituale al vestito – è proprio quello di rendere abituale in noi il giudizio su tutto alla luce delle nostre evidenze prime, e non alla mercé di occasionali reazioni.

(24) La Bibbia non voleva per nulla definire la struttura del cosmo, e parlava secondo la mentalità della gente del suo tempo; ciò che ad essa premeva era affermare valori religiosi ed etici.

(46) Se l’esperienza religiosa è una esperienza, non possiamo che partire da noi stessi per guardarla in faccia e coglierne gli aspetti costitutivi.

Si badi che tali affermazioni sembrano lapalissiane, ma io spero affiori poi discretamente alla prova dei fatti come non lo siano. Anzi proprio queste affermazioni vengono totalmente obliterate dalla mentalità odierna.

Quando si parte veramente da se stessi? Partire da sé è realistico quando la propria persona è guardata in azione, è osservata nell’esperienza quotidiana.

(51) Insisto: usare criticamente questo fattore della vita (la tradizione) non significa collocare dubbi sui suoi valori – anche se così viene suggerito dalla mentalità corrente – ma significa utilizzare questa ricchissima ipotesi di lavoro attraverso il vaglio di un principio critico che sta dentro di noi, nativo, perché dato originalmente, l’esperienza elementare.

(81) Garin, Cronache di filosofia italiana, raccomanda che il pensiero sia : «senza voli iperurani […] che l’uomo è il centro e il signore del mondo, ma a condizione […] di dar corpo e consistenza a quel libero signoreggiare»

Che “libero signoreggiare” è mai quello per cui puoi pensare secondo la mentalità al potere, altrimenti di emarginano dalla società e, se possono, ti mandano in manicomio come in Russia.

(119) Voglio richiamare una questione di metodo, perché se io chiedessi che cosa è la libertà la grande maggioranza risponderebbe secondo immagini, definizioni o sensazioni determinate dalla mentalità comune.

La definizione delle parole più importanti della vita (amore tra uomo e donna, paternità, maternità, obbedienza, compagnia, la solidarietà, l’amicizia, la libertà…), se viene determinata dalla mentalità comune assicura la schiavitù totale, l’alienazione totale.

Tutto ciò genera nella maggioranza della gente una immagine o una opinione o una definizione mutuate letteralmente dalla mentalità comune, vale a dire del potere.

(130s) Gorgia di platone

CALLICLE: «Non so come, ma talvolta mi sembra che tu ragioni bene, Socrate, pur accadendomi quello che ad altri succede, di non rimanere pienamente persuaso».

SOCRATE: «E’ l’attaccamento alla mentalità comune del popolo, radicato nell’anima tua, che mi è di ostacolo».

(131) I pareri degli intellettuali, che il potere trova convenienti e che assume, diventano mentalità comune attraverso i mass-media, le scuole, la propaganda, così che quello che accusava Rosa Luxemburg con lucidità straordinaria, «lo strisciare teorico» morde alla radice e corrompe ogni autentico impeto di cambiamento.

(151) Il positivismo che domina la mentalità dell’uomo moderno esclude la sollecitazione alla ricerca del significato che ci viene dal rapporto originario delle cose.

(186s) Il mito antico più vicino alla mentalità di oggi ha trovato la sua espressione più potente sul suolo cristiano: è il mito di Ulisse.

(187) Ulisse, proprio per la stessa «statura» con cui aveva percorso il mare nostrum.arivato alle colonne d’Ercole, sentiva non solo che quella non era la fine, ma che era anzi come se la sua vera natura si sprigionasse da quel momento.

E allora infranse la saggezza e andò.

Non sbagliò perché andò oltre: andar oltre era nella sua natura di uomo, decidendolo si sentì veramente uomo.

Questa è  la lotta tra l’umano, cioè il senso religioso, e il disumano, cioè la posizione positivista di tutta  la mentalità moderna.

Essa direbbe: «Ragazzo mio, l’unica cosa sicura è quella che misuri e constati scientificamente, sperimentalmente; al di là di questo c’è inutile fantasia, pazzia, affermazione immaginativa».


Menzogna

(12) Realmente l’anarchia costituisce la tentazione più affascinante, ma è tanto affascinante quanto menzognera.

E la forza di tale menzogna sta appunto nel suo fascino che induce a dimenticare che l’uomo prima non c’era e poi muore.

È pertanto pura violenza ciò che può fargli dire: «Io mi affermo contro tutti  e contro tutto».

(192) La Bibbia chiama con un determinato nome il particolare con cui la ragione identifica il significato totale del suo vivere e dell’esistere delle cose.

Questo particolare, nel quale la ragione identifica la spiegazione di tutto, la Bibbia lo chiama idolo.

Qualcosa che sembra Dio, ha la maschera di Dio, e non lo è: la menzogna dell’idolo.


Meraviglia

(140s) Lo stupore, la meraviglia di questa realtà che mi si impone, di questa presenza che mi investe, è all’origine del risveglio dell’umana coscienza.

Heschel in Dio alla ricerca dell’uomo:

Perciò il primissimo sentimento dell’uomo è quello di essere di fronte a una realtà che non è sua, e che c’è indipendentemente da lui e da cui lui dipende.

(141) L’accorgersi di una inesorabile presenza (la realtà)!

Io apro gli occhi a questa realtà che mi si impone, che non dipende da me, ma da cui io dipendo: il grande condizionamento della mia esistenza, se volete, il dato.

È questo stupore che desta la domanda ultima dentro di noi: non una registrazione a freddo, ma una meraviglia gravida di attrattiva, come una positività in cui nello stesso istante viene concepita l’attrattiva.

La religiosità è innanzitutto  l’affermarsi e lo svilupparsi dell’attrattiva.

C’è una evidenza prima e uno stupore del quale è carico l’atteggiamento del vero ricercatore: la meraviglia della presenza mi attira, ecco come scatta in me la ricerca.


Merito

(105) Che ci sia un nesso originale, profondo fra l’affermarsi della mia persona, il cammino della mia persona e il destino del mondo, l’incremento del cosmo, il cammino del popolo umano verso il suo ultimo disegno – questa è una verità grande , affermata sopratutto nella idea cristiana di merito.

Nel concetto cristiano di merito, l’uomo si adegua al suo destino, cresce verso il suo destino, nella misura in cui la sua azione «muove il mondo», è per il mondo, lo edifica, edifica l’umanità.

Essa «muove il mondo», edifica l’umanità se è «offerta» a Dio, cioè se è compiuta in funzione totale del disegno di Dio sul mondo.

Claudel in Annuncio a Maria:

«Forse che scopo della vita è vivere? Non vivere, ma morire […] e dare in letizia ciò che abbiamo. Qui sta la gioia, la libertà, la grazia, la giovinezza eterna». «Che vale il mondo rispetto alla vita? E che vale la vita se non per essere data?».


Metodo

(4ss) Il metodo di ricerca è imposto dall’oggetto: una riflessione sulla propria esperienza.

(5) Se dunque noi vogliamo sapere come sia questo fatto, in che cosa consista questo senso religioso, il problema di metodo ci impegna subito in modo acuto.

Come affronteremo tale fenomeno per essere sicuri di riuscire a conoscerlo bene?

Studieremo dunque quel che dicono Aristotele, Platone, Kant, Marx o Engels?

Potremmo anche fare così, ma usare innanzitutto questo metodo è scorretto.

Il motivo è che non si può su questa espressione fondamentale dell’esistenza dell’uomo abbandonarsi al parere di altri, per esempio assorbendo l’opinione più in voga o le sensazioni determinanti l’aria che respiriamo.

Il realismo esige che, per osservare un oggetto in modo tale da conoscerlo, il metodo non sia immaginato,pensato, organizzato o creato dal soggetto, ma imposto dall’oggetto.

(6) Il metodo per sapere di cosa veramente si tratti mi è imposto dalla cosa stessa.

(Se di fronte) all’esperienza religiosa come fenomeno, anche in questo caso si dovrebbe dire che il metodo per conoscerla  deve venire da essa suggerito.

Poiché si tratta di un fenomeno che avviene a me, che interessa la mia coscienza, il mio io come persona, è su me stesso che devo riflettere.

Mi occorre una indagine su me stesso, una indagine esistenziale.

(8) L’uomo prima di esserci non c’era, non è possibile che possa darsi da sé un giudizio.

Questo viene comunque «dato»: ci viene dalla natura.

Solo questa può essere considerata una alternativa di metodo ragionevole, non alienante.

(10) (Tre metodi di tre insegnanti di stare di fronte all’oggetto «foglio di carta»”)

  1. Idealista: «Supponete che io non conosca quest’oggetto: sarebbe come se non esistesse. Vedete quindi che ciò che crea l’oggetto è la nostra conoscenza, è lo spirito e l’energia dell’uomo».
  2. Scettico, problematico, sofista: «Tutti noi sappiamo che la prima evidenza è che questo oggetto è fuori di noi, e se non lo fosse? Dimostratemi che c’è come un oggetto fuori di noi, in modo incontrovertibile».
  3. Realista: «Tutti abbiamo l’impressione che questo sia un oggetto fuori di noi: è una evidenza prima, originale. Ma se io non lo conosco? È come se non esistesse. Vedete dunque che la conoscenza è un incontro tra una energia umana e una presenza. È un avvenimento in cui si assimila l’energia dell’umana coscienza con l’oggetto. Vedete dunque che occorrono per la conoscenza due cose: l’energia della nostra coscienza e l’oggetto. Come si produce tale unità? È domanda affascinante di fronte alla quale abbiamo potere fino a un certo punto. È certo però che la conoscenza è composta di due fattori».

Dei tre professori chi utilizza un metodo più corrispondente all’esperienza originale?

Il terzo rivela una posizione più ragionevole, perché tiene conto di tutti gli elementi in gioco.

(17) Il metodo con cui si affronta qualcosa è determinato dall’oggetto e non immaginato a capriccio del soggetto.

(19) Se la ragione è rendersi conto della realtà, tale rapporto conoscitivo con il reale si deve sviluppare in modo ragionevole.

Ed è ragionevole quando i passi per quel rapporto di conoscenza sono determinati da motivi adeguati.

E’ questo il corrispettivo dal punto di vista del soggetto di quanto abbiamo detto prima a proposito dell’oggetto, è cioè che quest’ultimo determina il metodo.

Qui possiamo dire che è la natura del soggetto a determinare la modalità con cui questo metodo viene usato.

E la natura del soggetto è quella di avere la ragione.

(23ss) In greco strada si chiama odòn e «lungo il cammino», «attraverso il cammino» si dice metà-odòn, da cui deriva l’italiano metodo.

Metodo è una parola derivata dal greco; dal latino si direbbe procedimento.

È attraverso un procedimento che arrivo a conoscere l’oggetto.

Allora la ragione, come capacità di rendersi conto del reale o dei valori, cioè del reale in quanto entra nell’orizzonte umano, per conoscere certi valori o tipi di verità segue un certo metodo, per un altro tipo di verità segue un altro metodo ancora: sono tre metodi diversi.

(24) Proprio perché la ragione affronta l’oggetto secondo passi o motivi adeguati, sviluppando cammini diversi secondo l’oggetto (il metodo è imposto dall’oggetto).

Così l’uso della ragione è una flessione della capacità che l’uomo ha di conoscere, la quale implica diversi metodi, o procedimenti, o processi, secondo il tipo degli oggetti: non ha un metodo unico, è polivalente, ricca, agile e mobile.

(25) Ricordiamo che il metodo non è altro che la descrizione della ragionevolezza nel rapporto con l’oggetto.

Il metodo stabilisce i motivi adeguati con cui fare i passi nella conoscenza dell’oggetto.

Vi sono delle realtà, dei valori, la cui conoscenza non rientra nei tre metodi che abbiamo menzionato (chimico, logico, matematico).

(26) Nella scoperta di verità e di certezza sul comportamento umano la ragione deve essere usata in un modo diverso, altrimenti non è più ragionevole: ad esempio pretendere di definire l’umano comportamento attraverso un metodo scientifico, non sarebbe un processo adeguato.

(27) Ecco perché la natura in certi campi ha creato un metodo, un cammino, un tipo di svolgimento lento: bisogna fare tutti i passaggi in un certo modo, oppure non si è sicuri di poter procedere; così che a certe cose si arriva dopo secoli, dopo millenni.

Invece per farci cogliere certezze nei rapporti ci è stato dato un metodo velocissimo, quasi più un intuizione che un processo.

È molto più vicino questo quarto metodo al gesto dell’artista, che neanche a quello del tecnico o del dimostratore, perché l’uomo ne ha bisogno per vivere sull’istante.

Un metodo porta certezze matematiche, un metodo porta certezza scientifica, un metodo certezze filosofiche; il quarto metodo porta a certezze sull’umano comportamento, certezze morali.

Ho detto che come metodo quest’ultimo è più paragonabile al metodo del genio e dell’artista: essi da segni arrivano alla percezione del vero.

Il metodo con cui capisco che mia madre mi vuole bene non è fissato meccanicamente, ma è intuito dall’intelligenza come unico senso ragionevole, unico motivo adeguato per spiegare la convergenza di determinati segni.

(29s) Una applicazione della certezza morale. Senza il metodo di conoscenza della fede non ci sarebbe sviluppo umano.

(30) L’oggetto di uno studio esige realismo, il metodo è imposto dall’oggetto; ma concomitante, complementare a questo, occorre che il lavoro verso l’oggetto rispetti l’esigenza della natura dell’uomo che è la ragionevolezza: avere motivi adeguati nel fare i passi verso l’oggetto da conoscere.

La diversità dei metodi stabilisce l’ordine di questi motivi adeguati.

Notiamo anche da ultimo che l’uomo può sbagliare nell’usare il metodo scientifico, o il metodo filosofico, o il metodo matematico.

Così si può sbagliare nello stabilire un giudizio di certezza sul comportamento umano.

Ciò non toglie il fatto che col metodo scientifico si possano raggiungere certezze; e così con il metodo della conoscenza morale.

(37) È un errore formulare un principio esplicativo che per risolvere la questione debba avere la necessità di eliminare un fattore in gioco.

Non è ragionevole un simile gesto.

(45) Come affrontare l’esperienza religiosa per coglierne i fattori costitutivi?

Definiamo ora il metodo che vogliamo usare.

46) Può sembrare ancora un preliminare, però esso individua già l’obiettivo.

  • Se l’esperienza religiosa è una esperienza non possiamo che partire da noi stessi per guardarla in faccia e coglierne gli aspetti costitutivi. Il punto di partenza è se stessi.
  • Quando si parte veramente da se stessi? Partire da sè è realistico quando la propria persona è guardata in azione: è osservata cioè nell’esperienza quotidiana.

(119) Voglio richiamare una questione di metodo, perché se io chiedessi che cosa è la libertà la grande maggioranza risponderebbe secondo immagini, definizioni o sensazioni determinate dalla mentalità comune.

La definizione delle parole più importanti della vita, se viene determinata dalla mentalità comune assicura la schiavitù totale, l’alienazione totale.

È una schiavitù da cui non ci si libera automaticamente, ci si libera con una ascesi.

L’ascesi è una applicazione che l’uomo fa delle sue energie in un lavoro su se stesso, intelligenza e volontà.

(155) Il segno quindi è una esperienza reale che mi rimanda ad altro.

E’ questo il metodo con cui la natura ci richiama ad altro da sé: il metodo del segno.

(175) Il metodo dimostrativo attraverso il segno è il metodo adeguato all’uomo, caratteristico di una vita personale.

La parola, il gesto, che cosa sono? Dei segni.

L’amore dell’uomo e della donna, l’amicizia, la convivenza hanno nel segno il loro strumento di comunicazione.

Abbiamo visto il perché: è in questo metodo di rapporto che si gioca la libertà.

È il metodo dimostrativo in cui la libertà è rispettata.

La libertà si gioca come interpretazione del segno.

(182) C’è in natura un metodo che riesce a darci questa energia di libertà che ci fa superare, attraversare la paura.

Per superare il  baratro dei «ma», dei «se» e dei «però» il metodo usato dalla natura è il fenomeno comunitario.


Mistero

(66) Einstein:

Senza ammettere quella X incommensurabile, senza ammettere la sproporzione incolmabile tra l’orizzonte ultimo e la capacità degli umani passi, l’uomo elimina la categoria della possibilità, suprema dimensione della ragione; poiché soltanto un oggetto incommensurabile può rappresentare un invito indefinito per una apertura strutturale dell’uomo.

Shakespeare in “Amleto”:

(73)Thomas Mann in Giuseppe e i suoi fratelli:

«… è ben comprensibile che il suo mistero formi l’alfa e l’omega di tutti i nostri discorsi e di tutte le nostre domande, dia fuoco e tensione a ogni nostra parola, urgenza a ogni nostro problema».

(75) Pär Lagerkvist «Un sconosciuto è mio amico», in Poesie:

«Uno sconosciuto è il mio amico, uno che io non conosco.

Uno  sconosciuto lontano lontano.
Per lui il mio cuore è colmo di nostalgia.
Perché egli non è presso di me.
Perché egli forse non esiste affatto?

Chi sei tu che colmi il mio cuore delle tua assenza?
Che colmi tutta la terra della tua assenza?».

Solo l’ipotesi di Dio, solo l’affermazione del mistero come realtà esistente oltre le nostre capacità di ricognizione corrisponde alla struttura originale dell’uomo.

Solo l’esistenza del mistero è adeguata alla struttura di mendicanza che l’uomo è.

Egli è insaziabile mendicanza e ciò che gli corrisponde è qualcosa che non è sé stesso, che non si può dare, che non  può misurare, che l’uomo non sa possedere.

(151) Quanto più uno vive il livello di coscienza che abbiamo descritto, nel suo rapporto con le cose, tanto più vive intensamente il suo impatto con la realtà e tanto più incomincia a conoscere qualcosa del mistero.

(162ss) Se si vuole salvare la ragione, cioè se vogliamo non rinnegarla, il suo stesso dinamismo ci costringe ad affermare queslla risposta esauriente al di là dell’orizzonte della nostra vita.

La risposta c’è perché grida attraverso le domande costitutive del nostro essere, ma non è misurabile dall’esperienza. C’è, ma non si sa che cosa è.

Il vertice della conquista della ragione è la percezione di un esistente ignoto, irraggiungibile, cui tutto il movimento dell’uomno è destinato, perché anche ne dipende.

È l’idea di mistero.

(163)Gabriel Marcel ne Il mistero dell’essere:

Il mistero non è un limite alla ragione, ma è la scoperta più grande: l’esistenza di un qualcosa di incommensurabile con sé stessa.

Il mistero è intuito come realtà implicata dal meccanismo stesso del nostro io; non blocco della ragione, ma segno della sua apertura senza fine.

La ragione dell’uomo vive a questo livello vertiginoso: la spiegazione c’è, ma non è afferrabile dall’uomo; c’è ma non sappiamo cosa è.

(164) Se non è possibile un nesso ultimo, una spiegazione ultima, se non è possibile uscire dalla misura dell’istante per rannodarsi al tutto, allora non posso più stabilire nessun nesso, sono bloccato nel mio momento.

Tutto quanto l’umano tende a decadere immediatamente dentro una meschinità di cui il cinismo della cultura materialista oggi per quanto riguarda l’uomo è documentazione impressionante.

(167) Dante in PurgatorioXVII, vv 1227/129 :

L’avventura della ragione ha un vertice ultimo in cui intuisce l’esistenza della spiegazione esauriente come qualcosa di inattaccabile da sé: mistero.

(171) La libertà gioca sé stessa in quell’area di gioco che si chiama segno.

Ricordiamo che il mondo dimostra l’esistenza del mistero attraverso la modalità che si chiama segno.

(185ss) Il vertice della ragione è l’intuizione dell’esistenza di una spiegazione che supera la sua misura.

Quando la ragione prende coscienza di sé fino in fondo e scopre che la sua natura si realizza ultimamente intuendo l’inarrivabile, il mistero, essa non smette di essere esigenza di conoscere.

Perciò una volta scoperto questo, lo struggimento della ragione è quello di poter conoscere quell’incognita.

(186) Scoprire il mistero, entrare nel mistero che sottende l’apparenza, sottende ciò che noi vediamo e tocchiamo, è il motivo della ragione, la sua forza motrice.

Ulisse, l’uomo intelligente che vuole misurare col proprio acume tutte le cose.

Una curiosità irrefrenabile, egli è il dominatore del del Mare Nostrum.

(187) Ma al di là di questo mare nostrum che possiamo possedere, governare e misurare che cosa c’è? L’oceano del significato.

Ed è nel superamento di queste colonne d’Ercole che uno comincia a sentirsi uomo: quando supera questo limite estremo posto dalla falsa saggezza, da quella sicurezza oppressiva e si inoltra nell’enigma del significato.

(188) Questa è la statura dell’uomo della rivelazione ebraico-cristiana.

(188)La vita, l’uomo, è lotta, cioè tensione, rapporto – nel «buio» – con l’al di là; una lotta senza vedere il volto dell’altro.

Chi giunge a percepire questo di sé è un uomo che se ne va, tra gli altri zoppo, vale a dire segnato; non è più come gli altri uomini, è segnato.

(189) E dir «sì»a o gni istante senza vedere niente, semplicemente aderendo alla pressione delle occasioni.

È una posizione vertiginosa.

Esistenzialmente la natura della ragione come esigenza di conoscere, di comprendere, penetra tutto, è perciò pretende penetrare anche l’ignoto da cui ogni cosa dipende, da cui il suo fiato e il suo respiro dipendono.

La ragione non tollera, impaziente, di aderire a quell’unico segno attraverso cui seguire l’Ignoto, segno così ottuso, così cupo, così non trasparente, così apparentemente casuale, come è il susseguirse delle circostanze: è come sentirsi in balia di un fiume che ti trascina di qua e di là.

Nella sua situazione esistenziale la natura della ragione soffre una vertigine cui dapprima può resistere, ma poi cade.

E la vertigine sta in questa prematurità o impazienza con cui dice: «Ho capito, il significato della mia vita è questo».

(190) Ogni volta che questo è identificherà un contenuto di definizione, inevitabilmente partirà da un certo punto di vista.

Non potrà che pretendere la totalità per un particolare, un particolare del tutto viene pompato a definire la totalità.

(191) Dove sta il pathos di questo atteggiamento? Sta nel fatto che il senso religioso, cioè la natura dell’uomo, identificherà il significato totale della sua vita con qualcosa di comprensibile a sé.

Pretendere di definire il significato di tutto, in fondo, che cosa vuol dire?

Pretendere di essere la misura di tutto, vale a dire, pretendere di essere Dio.

(192) Questo particolare nel quale la ragione identifica la spiegazione di tutto, la Bibbia lo chiama idolo.

Qualcosa che sembra Dio, ha la maschera di Dio, e non lo è.

(193) Gli idoli non mantengono le loro promesse e le loro pretese totalizzanti.

Il mistero, invece nella misura in cui è riconosciuto, tende a determinare la vita in modo tale che il terribile elenco paolino (Rom 1, 22-31) ammutolisce, quell’elenco si svuota.

Nella misura in cui gli idoli sono esaltati l’umano viene meno.

(196) La realtà è segno e desta il senso religioso.

Ma è un suggerimento male interpretato; esistenzialmente l’uomo è spinto a interpretarlo male, cioè prematuramente, impazientemente.

L’intuizione del rapporto con il mistero si corrompe in presunzione.

(200ss) L’Ignoto, come palesa all’uomo la sua volontà, come comunica all’uomo il piano intelligente che assicura il significato di tutto?

La comunicazione avvine attraverso la casualità apparente delle circostanze, i condizionamenti banali da cui ogni istante dell’uomo è determinato.

Per seguire l’assoluta luce del significato occorrerebbe una obbedienza istante per istante, come di chi navighi nella nebbia assoluta.

Occorre un grande coraggio.

All’uomo viene la vertigine.

E così la storia è come un grande film di tutto questo decadere umano pur dentro la spinta ideale che lo provoca. […] ed è spinto a identificare l’assoluto, il sicuro con qualcosa di sperimentato nella sua esistenza, a identificare ciò per cui vale l’ultima pena con qualche aspetto, con l’aspetto più rassicurante della sua esperienza. Il dio diventa idolo.

Vorrei aggiungere che a questa caduta soggiace anche colui che fissa il mistero come mistero, ma poi stabilisce la strada a esso: fissare a strada è come identificare il termine ultimo.

(201) Insomma, è inevitabile storicamente che l’uomo a un certo punto identifichi con una propria immagine l’assoluto.

All’estremo della esperienza della vita, all’estremo della coscienza sofferta e appassionata dell’esistenza si sprigiona, malgrado l’uomo stesso, questo grido dell’umanità più vera, come una implorazione, una mendicanza; si sprigiona la grande ipotesi che non si possa «fare il passaggio con qualche più solido trasporto, con l’aiuto cioè della rivelata parola di un dio» (Platone in Fedone).

In termini propri si chiama ipotesi della rivelazione.

La parola «rivelazione» ha un senso lato, più largo e generico: il mondo è questa rivelazione del Dio, del mistero.

La realtà è segno interpretando il quale la coscienza dell’uomo capisce l’esistenza del mistero.

(202) Questa è l’ipotesi eccezionale, questa la rivelazione in senso stretto: lo svelarsi del mistero attraverso un fattore della storia col quale, nel caso del cristianesimo si identifica.

Negare la possibilità di questa ipotesi è  l’ultima estrema forma di idolatria, l’estremo tentativo che la ragione compie per imporre a Dio una propria immagine di Lui.

Perché se Dio è il mistero, come si fa a dettargli quel che può e che non può fare.

Horkheimer in Rivoluzione o libertà?:

«Senza la rivelazione di un Dio l’uomo non riesce più a raccapezzarsi su sé stesso».


Misura-misurabile

(22) Per me la ragione è apertura alla realtà, capacità di afferrarla nella totalità dei suoi fattori.

Per quel professore ragione è una misura delle cose, fenomeno che si avvera quando c’è una diretta dimostrabilità.

(53ss) Un tipo di realtà che egli ritrova in sé stesso, è lungo è largo, pesante o leggero, quantitativamente descrivibile.

Diciamo una parola precisa: misurabile.

Alle elementari mi hanno detto che misurare vuol dire paragonare il tutto con una sua parte, eretta a unità di misura.

Allora se misurare significa paragonare il tutto con una sua parte, vuol dire che il tutto è divisibile, che misurabile è ciò che si può frazionare.

Altra caratteristica quindi, fondamentale di una realtà misurabile è quella più profonda della divisibilità.

Infine quello stesso genere di fenomeno che si è rivelato misurabile e divisibile si mostra ad attenta analisi intrinsecamente, essenzialmente mutevole.

[…] il tipo di realtà che presenta le caratteristiche appena indicate potrebbe essere definito con il termine generico: materiale.

È la materialità.

(54) Se l’uomo però è totalmente impegnato in quell’istante di riflessione su di sé, noterà nel suo «io» un tipo di contenuto che non si identifica con ciò che finora abbiamo descritto.

L’idea di bontà, per esempio, quel criterio che cisi ritrova dentro per cui si può dire di qualcuno: «È buono», questa idea non potrebbe essere misurata, quantificata, e non si modificherebbe nel tempo.

Non mutevoli si riscontrano dunque idea, giudizio, decisione.

Sono fenomeni il cui contenuto di realtà non è misurabile e divisibile.

(55) Nel complesso di una unità individuata dalla radice cum (co-), improvvisamente ogni frammento, ogni parte, “ruit”, corre via, si separa dagli altri, oppure “rumpitur”, si rompe si stacca.

È appunto la corruzione, la de-composizione.

Questa sorta di vertiginoso de-centramento è dunque applicabile a ciò che per natura può essere parcellizzato, misurato, modificato.

Se però c’è in me una realtà che non è divisibile, misurabile, o essenzialmente mutabile, a essa l’idea di  morte, così come l’esperienza me la mostra, non è applicabile.

Occorre avere il coraggio di non temere questa logica.

La realtà intera dell’io come appare dall’esperienza non è riconducibile interamente al fenomeno della corruzione; […]

(63) L’inesauribilità della domanda esalta la contraddizione per l’impeto della esigenza e la limitatezza della misura umana.

(75) L’uomo è insaziabile mendicanza e ciò che gli corrisponde è qualcosa che non è sé stesso, che non si può dare, che non si può misurare, che l’uomo non sa possedere.

(107) […] La formula dell’uomo è rapporto libero con l’infinito, e perciò non sta in nessuna misura e sfonda le pareti  di qualsiasi dimora in cui la si voglia arrestare.

(162) La risposta c’è, perché grida attraverso le domande costitutive del nostro essere, ma non è misurabile dalla nostra esperienza.

C’è, ma non si sa cosa è.

(164ss) Se non è possibile un nesso ultimo , una spiegazione ultima, se non è possibile uscire dalla misura dell’istante per rannodarsi al tutto, allora  non posso più stabilire nessun nesso, sono bloccato nel mio momento.

Tutto quanto l’umano tende a decadere immediatamente dentro una meschinità di cui il cinismo della cultura materialista oggi per quanto riguarda l’uomo è documentazione impressionante.

(165) Non sarà inutile infine risottolineare che la soluzione alla grande domanda sulla vita, che costituisce la ragione, non è una ipotesi astratta, è una implicazione esistenziale, perché l’esigenza è una esperienza vissuta.

(167) La natura della ragione (che è comprendere l’esistenza) di un incomprensibile, l’esistenza di Qualcosa (di un quid) costituzionalmete oltre la possibilità di comprensione e di misura («trascendente»).

(173) La misura positivista sembra guardare il mondo con una miopia grave.

Einstein (in Come io vedo il mondo) era ben lontano da questa miopia, quando affermava l’implicazione enigmatica ultima della realtà, e quindi il valore di segno che inestirpabilmente fa vibrare il mondo:

«La più bella e profonda emozione che possiamo provare è il senso del mistero; sta qui il seme di ogni vera arte, di ogni vera scienza».

(185ss) Il vertice della ragione è l’intuizione dell’esistenza di una spiegazione che supera la sua misura.

La vita della ragione è data dalla volontà di penetrare l’ignoto, di passare oltre le colonne d’Ercole, simbolo del limite continuamente, strutturalmente posto dalla esistenza a questo desiderio.

(186) Ulisse, l’uomo intelligente che vuole misurare con il proprio acume tutte le cose.

Una curiosità irrefrenabile: egli è il dominatore del Mare Nostrum.

(187)Tutto il mare nostrum è misurato e governato, tutto è percorso in lungo e in largo.

L’uomo misura di tutte le cose.

Ma Ulisse, proprio per la stessa «statura» con cui aveva percorso il mare nostrum, arrivato alle colonne d’Ercole, sentiva non solo che quella non era la fine, ma che era anzi come se la sua vera natura si sprigionasse da quel momento.

E allora infranse la saggezza e andò.

Al di là di questo mare nostrum che possiamo possedere, governare e misurare, che cosa c’è?

Ed è nel superamento di queste colonne d’Ercole che uno comincia a sentirsi uomo: quando supera questo limite estremo posto dalla falsa saggezza, da quella sicurezza oppressiva, e si inoltra nell’enigma del significato.

(191ss) La decadenza, la degradazione di cui parlavo, la parabola che immediatamente, secondo una specie di forza di gravità, opera dentro la ragione, sta nella pretesa che la ragione sia la misura del reale, vale a dire che la ragione possa identificare, e quindi definire, quale sia il significato del tutto.

Pretendere di definire il significato di tutto, in fondo in fondo che cosa vuol dire?

Pretendere di essere la misura di tutto , vale a dire di pretendere di essere Dio.

(192) E’ la suggestione del peccato originale.

Non è vero che c’è qualcosa che tu non puoi misurare: ma se tu ti decidi a farlo, se tu parti per questa avventura, «conoscerai il bene e il male, e sarai come Dio»

L’uomo misura di tutte le cose: la prima pagina della Bibbia è realmente la spiegazione più chiara.

Il particolare nel quale la ragione identifica la spiegazione di tutto, la Bibbia lo chiama idolo.

Qualcosa che sembra Dio, ha la maschera di Dio, e non lo è.

(193) Non solo viene descritta da Paolo la genesi dell’idolatria, ma anche la corruzione della verità umana conseguente.

Gli idoli non mantengono le loro promesse e le loro pretese totalizzanti.

Il mistero, invece, nella misura in cui è riconosciuto, tende a determinare la vita in modo tale che il terribile elenco paolino ammutolisce, quell’elenco si svuota (Rm.1,22-31).

Nella misura in cui gli idoli sono esaltati l’umano viene meno.

È l’abolizione della persona, della responsabilità della persona.

Tutta la colpa sarebbe della struttura: l’idolo oscura l’orizzonte dello sguardo e altera la forma delle cose.

(201) I rapporti con cui l’uomo si butta alla ricerca e al possesso del tu, vale a dire degli altri, delle altre persone, tutto questo è affrontato da un proprio punto di vista, secondo una propria misura, e non secondo la misura che deriva dal nesso con l’assoluto.

(205) L’impossibilità di una rivelazione è il dogma fondamentale del pensiero illuministico, il tabù predicato da tutta la filosofia liberale e dai suoi eredi marxisti.

L’affermazione di questa impossibilità è l’estremo tentativo che la ragione fa per dettare essa stessa la misura del reale e quindi la misura del possibile e dell’impossibile della realtà.

Ma l’ipotesi della Rivelazione non può essere distrutta da alcun preconcetto o da alcuna opzione.

Essa pone una questione di fatto, cui la natura del cuore è originalmente aperta.

Occorre per la riuscita della vita che questa apertura rimanga determinante.

Il destino del «senso religioso» è totalmente legato ad essa.


Mondo

(62) Matteo 16,26:

«Che giova all’uomo possedere tutto il mondo, se poi smarrisce il significato di sé, che darà l’uomo in cambio di sé?»

(117) (vivere senza significato) … la vecchiaia a vent’anni e anche prima, la vecchiaia a quindici anni, questa è la caratteristica del mondo di oggi.

(122) Questo mondo, questa realtà a livello umano in concreto si chiama umanità.

L’umanità è un concetto ancora astratto, perché l’umanità in concreto si chiama società.

MA la società ha un certo determinato ordine organico.

Ed è per il potere che questo ordine è mantenuto.

Anche un governo è per il potere è per il potere posseduto che di fatto riesce a dare forma alla società.

Questo puntino sei tu, sono io.

Allora quel punto (cioè io, tu) non ha nessun diritto di fronte al potere

(123) Tutta la realtà della nostra epoca ha codificato questo: lo Stato sorgente di ogni diritto, Stato liberale o marxista che sia.

(124s) In un solo caso questo punto, che è l’uomo singolo, è libero da tutto il mondo, è libero, e tutto il mondo non può costringerlo, e l’universo intero non può costringerlo; in un solo caso questa immagine di uomo libero è spiegabile: se si suppone che quel punto non sia totalmente costituito dalla biologia di suo padre e di sua madre, ma possegga qualcosa che non derivi dalla tradizione biologica dei suoi antecedenti meccanici, ma che sia diretto rapporto con l’infinito, diretto rapporto con l’origine di tutto il flusso del mondo, di tutto il «cerchio» con quella X misteriosa che sta sopra il flusso della realtà, cioè Dio.

(125) C’è un quid in me che non deriva da alcun fattore della fenomenologia sperimentabile, perché non dipende, non deriva dalla biologia di mio padre e di mia madre; esso è diretta dipendenza dall’infinito, da ciò che fa tutto il mondo.

Solo nella ipotesi chein me esista questo rapporto, il mondo può fare di me quello che vuole, ma non mi vince, non mi evince, non mi afferrra, io sono più grande, io sono libero.

Ecco il paradosso: la libertà è dipendenza da Dio.

La coscienza vissuta di questo rapporto si chiama religiosità.

(127) Ma se l’uomo, il singolo, non è rapporto con l’infinito tutto ciò che fa il potere è giusto.

(151) Il mondo, questa realtà in cui  impattiamo, è come se nell’impatto sprigionasse una parola, un invito, facesse sentire un significato.

 Il mondo è come una parola, un logos che rinvia, richiama ad altro da sé, oltre sé, più su.

In greco «su» si dice anà.

Questo è il valore della analogia: la struttura di impatto dell’uomo con la realtà desta nell’uomo una voce che lo attira a un significato che è più in là, più in su, anà.

Analogia. Questa parola sintetizza la struttura dinamica nell’impatto che l’uomo ha con la realtà.

(157) Il mondo, il reale, mi provocano ad altro, altrimenti uno non si domanderebbe il perché, non si chiederebbe come.

(161) Se nell’impatto con l’uomo il mondo funziona come un segno, dobbiamo dire che il «mondo» dimostra qualcosa d’Altro, dimostra «Dio» come un segno, è qualcosa d’altro, è segno di questo altro.

(171ss) Il mondo come parabola.

Ricordiamo che il mondo dimostra l’esistenza di un quid ultimo, l’esistenza del mistero attraverso la modalità che si chiama segno.

Il mondo «insegna» Dio, dimostra Dio, come il segno indica ciò di cui è segno.

(172) Il mondo mentre svela «vela». Il segno svela ma nello stesso tempo vela.

Il mondo, se non riconoscesse la sorgente di senso e di luce che è il mistero di Dio, sarebbe, come abbiamo citato da Shakespare: «Una favola raccontata da un idiota».

(195) Il mondo è un segno.

La realtà chiama ad un’Altra.

La ragione, per essere fedele alla natura sua e di tale richiamo, è costretta ad ammettere l’esistenza di qualcosa d’altro che sottende tutto, che lo spiega.


Morale-moralità

(31) Di fronte ad una domanda: «Come si fa a fidarsi di una persona?», rimane aperto il problema, non per l’aspetto che riguarda la sanità della dinamica della ragione, ma per il fatto di fidarsi di un’altra persona, introduce un fattore d’atteggiamento della persona che noi chiamiamo con un termine usuale «moralità».

La terza premessa vuol parlare dell’incidenza della moralità all’interno della dinamica del conoscere.

(39) Il sentimento va immaginato come una lente: l’oggetto da questa lente viene convogliato più vicino all’energia conoscitiva dell’uomo; la ragone lo può conoscere più facilmente e più sicuramente.

Il problema non è che il sentimento venga eliminato, ma che il sentimento sia al suo posto giusto.

Cosa vuol dire «il sentimento al suo posto?»

Prima di tutto è chiaro che tale problema non è un problema scientifico, ma un problema di atteggiamento, è cioè un problema «morale», un problema che riguarda un modo di porsi, il modo di governarsi, di impostarsi di fronte alla realtà.

Non è un problema di acume, di intelligenza.

(Per i professori della Sorbona) il problema della funzione dei microbi (scoperta di Pasteur), che è un problema obiettivo, scientifico, era per loro un problema vitale (ne andava della loro carriera).

Che cosa avrebbero dovuto fare quei professori per essere abilitati a percepire il valore di quelle esperienze inconfutabili?

Sarebbe occorsa loro una lealtà, una dignità morale, una passione per l’obiettivo vero, che non potevano inventarsi da un giorno all’altro, non fosse stato il termine di una lunga educazione, appunto, morale.

Insomma se una determinata cosa non mi interessa non la guardo: se non la guardo non la posso conoscere.

Per farne conoscenza ho bisogno di porre attenzione ad essa.

(41s) La moralità nel conoscere.

Qui si tratta di un atteggiamento adeguato e giusto nella dinamica della conoscenza di un oggetto.

Vogliamo descrivere in che cosa consista la moralità per quanto riguarda la dinamica del conoscere.

(42) Nella applicazione al campo della conoscenza questa è la regola morale: l’amore alla verità dell’oggetto più di quanto  si sia attaccati alle opinioni che già ci siamo fatti su di esso.

Brachicologicamente si potrebbe dire:

È un problema di moralità.

Quanto più il valore è vitale, quanto più è per sua natura proposta alla vita, tanto più il problema non è di intelligenza ma di moralità, cioè di amore alla verità più che a sé stessi.

(44) Anche qui il processo faticoso si chiama ascesi.

La moralità nasce come spontaneità in noi, come atteggiamento originale, ma subito dopo, se non è continuamente recuperata da un lavoro, si altera, si corrompe.

La parabola che tende inesorabilmente alla corruzione deve essere continuamente arginata.

Ma che cosa può persuadere a questa ascesi, a questo lavoro e allenamento? L’uomo infatti solo da un amore e da una affezione è mosso.

È l’amore a noi stessi come destino, è l’affezione al nostro destino.

È questa commozione ultima, è questa emozione suprema che persuade alla virtù più vera.

(129) Il senso cattivo del termine “preconcetto” è là dove l’uomo si mette di fronte alla realtà proposta, avendo come reazione, come criterio di giudizio, e non soltanto come condizionamento da superare in una apertura di domanda.

È infatti il superamento del preconcetto che rende possibile attingere un significato che ecceda ciò che già sai (o credi di sapere).

(171) Se tu sei «morale» vale a dire, se tu sei nell’atteggiamento aperto al reale, allora capisci, o per lo meno cerchi, cioè domandi.

(189) Per tutta la vita la vera legge morale sarebbe quella di essere sospesi al cenno di questo ignoto «signore», attenti ai segni di una volontà che ci apparirebbe attraverso la pura, immediata circostanza.


Moralismo

(86) Si arriva al progetto sociale.

«Tendete i muscoli, gonfiate le gote, per realizzare il progetto di una diversa società».

Un progetto fatto da chi? «Da me» – direbbe Marx.

«Da noi» direbbero altri.

E’ un’enfasi volontaristica che dimentica il contenuto più acuto e oggettivo, quello personale, da cui solo deriva anche l’interesse sociale.

È una riduzione astraente, una dimenticanza impotente.

Non per nulla la produzione filosofica in URSS è quasi esclusivamente dedicata all’etica: un moralismo tutto invadente.


Morte

(55) Il fenomeno morte – così come emerge dall’esperienza – è spesso associato nella Bibbia a una espressione di grande efficacia: corruzione.

È appunto la decomposizione.

Questa sorta di vertiginoso decentramento è dunque applicabile a ciò che per natura può essere parcellizzato, misurato, modificato.

Se  però c’è in me una realtà che non è divisibile, misurabile o essenzialmente mutabile, a essa l’idea di morte, così come l’esperienza me la mostra, non è applicabile.

L’io non esaurisce la sua consistenza in ciò che in lui si vede e constata morire.

C’è nell’io qualcosa di non mortale, di immortale!

(59) Il fattore religioso rappresenta la natura del nostro io in quanto si esprime in certe domande: «Perché c’è il dolore, la morte, perché in fondo in fondo vale la pena di vivere?»: il senso religioso si pone dentro la realtà del nostro io a livello di queste domande: coincide con quel radicale impegno del nostro io con la vita, che si documenta in quelle domande lì.

(72) «La morte è il fatto che sta all’origine di tutta la filosofia» (detto da un prof. ateo a don Giussani).

L’orizzonte cui l’uomo arriva è come un segno di tomba: la morte è l’origine e lo stimolo a tutta la ricerca, perché l’insondabilità della domanda umana proprio lì trova la contraddizione più potente e sfrontata.

(Racconto della morte di un giovane): certe morti sono così lucide fino all’ultimo.

Quel ragazzo è morto tranquillo.

E ho riflettuto: se uno avesse la consapevolezza piena della morte che sta per giungere, la sua autocoscienza sentirebbe le sue domande esaurite? O le sentirebbe esasperate? Come l’impatto di una corsa contro un muro.

Quando una energia è tesa, se trova un ostacolo si tende ulteriormente, non si smonta.

(90) (Atarassia) in Addio alle armi: l’uomo supera il dolore per la morte della propria donna, andandosene fischiettando: questo è l’uomo razionale, padrone di sé!

(135) Sinjaskij in Pensieri improvvisi:

«Non bisogna credere per tradizione, per paura della morte oppure per mettere le mani avanti, o perché c’è qualcuno che comanda ed incute timore, oppure ancora per ragioni umanistiche, per salvarsi e fare l’originale. Bisogna credere per la semplice ragione che Dio esiste».

(158) Molti anni fa sui giornali inglesi ci fu un grave dibattito per un uomo che, condannato a morte e giustiziato, fu riconosciuto in seguito innocente. …. Chi gli renderà giustizia? Non è una risposta a lui, è una risposta a noi stessi.

Stiamo rendendo giustizia alla sua memoria … se non la si rende a lui giustizia non c’è.

Senza la prospettiva di un oltre la giustizia non è possibile.

(199) La natura nostra […] arrivata ai bordi estremi della propria esperienza di vita, non trova ancora ciò che ha cercato, all’estremo confine del suo territorio vissuto questa nostra urgenza non ha trovato ancora.

È l’apparente muro della morte codifica facilmente la realtà di questa osservazione.


Noia

(186) Scoprire il mistero, entrare nel mistero che sottende l’apparenza, sottende ciò che noi vediamo e tocchiamo, è il motivo della ragione, la sua forza motrice.

Così è il rapporto con quell’aldilà che rende possibile anche l’avventura nell’al di qua, altrimenti la noia, origine della presunzione evasiva, illusiva o della disperazione eliminatrice, domina.

È solo il rapporto con l’al di là che rende realizzabile l’avventura della vita. La forza umana nell’afferrare le cose dell’al di qua è data dalla volontà di penetrazione nell’aldilà.

ABCDEFGILM/NOPRSTUV





Temi degli ESERCIZI – Collana “Cristianesimo alla prova”


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