Temi de “Il senso Religioso”

ABCDEFGILM/NOPRSTUV

Lettera «R»

Libro “Il Senso Religioso” di don Luigi Giussani



Ragione

(17ss) La ragionevolezza coincide con l’attuarsi del valore della ragione nell’agire.

Anche la parola ragione però potrebbe essere messa un questione facilmente.

Per ragione intendo il fattore distintivo di quel livello della natura che chiamiamo uomo, e cioè la capacità di rendersi conto del reale secondo la totalità dei fattori.

La parola ragionevolezza dunque rappresenta un modo di agire che esprima e realizzi la ragione, questa capacità di prendere coscienza della realtà.

18) (Negli esempi della valigia e del megafono) …i differenti gesti appaiono irragionevoli poiché non lasciano intravvedere possibili ragioni.

La ragione per usare il megafono sarebbe stata da me dichiarata – il fatto cioè di essere io senza voce -, ma i miei ascoltatori non la percepirebbero una ragione adeguata: lo strumento sarebbe sproporzionato a un’aula di conferenze.

L’uso invece dello stesso su un transatlantico non desterebbe problema: la ragione sarebbe la stessa, ma sarebbe adeguata alle circostanze.

(19) (Esempio della valigia e del megafono) Lo stesso gesto della valigia, appare  nel primo caso irragionevole, cioè senza ragioni, mentre nel secondo ragionevole, perché si capisce che ha delle ragioni.

Nel secondo caso l’uso del megafono in un’aula è giudicato irragionevole, perché pur essendoci una ragione essa appare inadeguata, mentre nell’ipotesi del transatlantico ci sarebbe l’identica ragione, ma proporzionata, adeguata.

Nell’esperienza il ragionevole perciò a noi appare tale quando l’atteggiamento dell’uomo si palesa con ragioni adeguate.

Nell’esperienza il ragionevole perciò a noi appare tale quando l’atteggiamento dell’uomo si palesa con ragioni adeguate.

Se la ragione è rendersi conto della realtà, tale rapporto conoscitivo con il reale si deve sviluppare in modo ragionevole.

È la natura del soggetto a determinare la modalità con cui questo metodo viene usato.

E la natura del soggetto è quella di avere la ragione!.

(21ss) Mi preme puntare l’attenzione più sul termine «ragionevole» che sul termine ragione.

Infatti anche quest’ultima, questa capacità di rendersi conto della realtà, può essere usata in modo irragionevole, cioè senza motivi adeguati.

Alla radice sta il concetto di ragione.

(22) (Discussione con il filosofo di fronte alla classe).

Io ho un concetto di ragione per cui ammettere che l’America esiste senza averla mai vista può essere ragionevolissimo, al contrario di quel professore il cui concetto di ragione gli fa dire che non è ragionevole.

Per me la ragione è apertura alla realtà, capacità di afferrarla e affermarla nella totalità dei suoi fattori.

Per quel professore la ragione è misura delle cose, fenomeno che si avvera quando c’è diretta dimostrabilità.

(23) La ragione, come capacità di rendersi conto del reale o dei valori, cioè del reale in quanto entra nell’orizzonte umano, per conoscere certi valori o tipi di verità segue un certo metodo, per un altro tipo di verità segue un altro metodo.

(24) Proprio perché la ragione affronta l’oggetto secondo passi o motivi adeguati, sviluppando cammini diversi secondo l’oggetto (il metodo è imposto dall’oggetto).

La ragione non è così anchilosata, non è rattrappita come l’ha immaginata tanta filosofia moderna che l’ha ridotta a una sola mossa, la «logica» o a un tipo di fenomeno solo, una certa capacità di «dimostrazione empirica».

È molto più vasta, la ragione; è vita, è una vita di fronte alla complessità e alla molteplicità della realtà, di fronte alla ricchezza del reale.

La ragione è agile e va da tutte le parti, percorre tante strade.

(26) Nella scoperta di verità e di certezze sul comportamento umano la ragione deve essere usata in maniera diversa, altrimenti non è più ragionevole: ad esempio pretendere di definire l’umano comportamento attraverso un metodo scientifico non sarebbe un processo adeguato.

(31ss) La ragione inscindibile dall’unità dell’io.

Una ragazzina è molto brava in matematica, C’è un compito in classe. Ha un forte mal di stomaco; quella mattina non riesce a svolgere bene il compito in classe: è diventata ignorante all’impprovviso? No, ha solo mal di stomaco.

(32) C’è un unità profonda, c’è una relazione organica fra lo strumento della ragione e il resto della persona.

L’uomo è uno, e la ragione non è una macchina che si può disarcionare dal resto della personalità per farla agire da sola come il meccanismo  a molla di un giocattolo.

La  ragione è immanente a tutta l’unità del nostro io, e organicamente relata, per questo in presenza di un dolore fisico non si utilizza bene la ragione.

Il ragazzino irato perché i genitori non lo capiscono, ragionerà meno bene nel compito in classe.

La ragione non è un meccanismo disarcionabile dal resto di questo cavallo che è l’uomo in corsa per la sua strada; essa è profondamente e organicamente relazionata al resto dell’io.

(32) La ragione legata al sentimento.

(33) L’uomo è quel livello della natura in cui la natura prende coscienza di sé stessa, è quel livello della natura in cui la natura prende coscienza di sé stessa, è quel livello della realtà in cui la realtà comincia a diventare coscienza di sé, comincia cioè a diventare ragione.

(34) Chiameremo valore l’oggetto della conoscenza in quanto interessa la vita della ragione.

La ragione non è un meccanismo disarticolabile dal resto del nostro io; perciò la ragione è legata al sentimento, ne è condizionata.

Quindi: la ragione per conoscere l’oggetto deve fare i conti con il sentimento, con lo stato d’animo.

È filtrata dallo stato d’animo.

È filtrata dallo stato d’animo, è comunque implicata nello stato d’animo.

(Per l’illuminismo) La ragione è pensata come capacità di conoscenza che si sviluppa nei confronti dell’oggetto senza che niente debba interferire (compreso il sentimento).

(35) Quanto più una cosa interessa l’individuo, quanto più, cioè, il valore, e quanto più è vitale, tanto più potente genera uno stato d’animo, una reazione di simpatia o di antipatia, tanto più genera sentimento, e tanto più la ragione è condizionata da questo sentimento per la conoscenza di quel valore.

(36) L’oggetto della conoscenza in quanto interessa (V) suscita uno stato sentimentale (S); e questo condiziona la capacità conoscitiva (R).

La serietà dell’uso della ragione esigerebbe la eliminazione della «S» o una riduzione al minimo di questo fattore.

Ma questa operazione si può fare in ambito matematico o scientifico.

(38) La «S» va immaginata come una lente: l’oggetto da questa lente viene convogliato più vicino all’energia conoscitiva dell’uomo: la ragione lo può conoscere più facilmente e sicuramente.

Allora la «S» è una condizione importante per la conoscenza; il sentimento è un fattore essenziale alla visione.

Non nel senso che sia esso a vedere, ma nel senso che rappresenta la condizione per cui l’occhio, o la ragione, vedano secondo la loro natura.

Il problema, cioè, non è che il sentimento venga eliminato ma che il sentimento sia al posto giusto.

È realmente una mistificazione immaginare che il giudizio con cui la ragione cerca di raggiungere la verità dell’oggetto sia più adeguato, sia dignitosamente più valido, quando lo stato d’animo sia in perfetta atarassia, in completa indifferenza.

(57) L’esigenza di unità è sì una grandiosa esigenza della ragione, esigenza che origina tutto il fervore, tutta la forza della dinamica della intelligenza; ma questa sete di unità non può essere giocata fino a barare; fino cioè a rinnegare o a dimenticare qualcosa per poter spiegare unitariamente tutto.

(61) [… ] Qual’ è il senso ultimo della vita, in fondo in fondo di che cosa è fatta la realtà?

Per cosa vale veramente la pena che io sia, che la realtà sia? Sono domande che esauriscono tutta l’energia di ricerca della ragione.

(65s)    Francesco Severi, amicissimo di Einsstein, dice che quanto più si addentrava nella ricerca scientifica, tanto più gli era evidente che tutto ciò che scopriva era «in funzione di un assoluto che si oppone come barriera elastica […] al suo superamento con i mezzi conoscitivi»

Quando la ricerca giungeva a un certo termine, l’oggettto dell’azione, la X, si spostava.

Si potrebbe segnare così questo processo:

(66) La «R» è l’energia indagatrice dell’umana ragione e libertà; e la«X» il traguardo sempre provvisorio sempre teso ad una ulteriore incognita.

Senza ammettere questa «X» incommensurabile, senza ammettere la sproporzione incolmabile tra l’orizzonte ultimo e la capacità degli umani passi, l’uomo elimina la categoria della possibilità, suprema dimensione della ragione.

(74) Il senso religioso è la capacità che la ragione ha di esprimere la propria natura profonda nell’interrogativo ultimo, è il locus della coscienza che l’uomo ha dell’esistenza.

(76) […] Ciò che il senso religioso sia per noi, come emerge alla nostra coscienza: domanda di totalità costitutiva della nostra ragione, cioè della capacità che l’uomo ha di conoscenza, della sua apertura a inoltrarsi e ad abbracciare sempre più la realtà.

Per ciò stesso che un uomo vive pone questa domanda, perché è la radice della coscienza del reale.

E non solo pone la domanda, ma vi risponde, affermando un «ultimo»: perché per ciò stesso che uno vive cinque minuti, afferma l’esistenza di un quid per cui valga la pena vivere in fondo in fondo quei cinque minuti.

È il meccanismo strutturale della ragione, è una implicazione inevitabile.

(98) L’autentica religiosità è la difesa ad oltranza del valore della ragione, della umana coscienza.

(103) Quelle domande costituiscono la mia persona, si identificano con la mia ragione e coscienza, sono il contenuto della mia autocoscienza.

(133ss) L’esperienza stessa nella sua totalità guida alla comprensione autentica del termine ragione o razionalità.

La ragione infatti è quell’avvenimento singolare della natura in cui questa si rivela come esigenza operativa a spiegare la realtà in tutti i suoi fattori, così che l’uomo sia introdotto alla verità delle cose.

(134) Ricoeur, ha indicato l’essenza di inesausta  apertura della ragione di fronte all’inesausto richiamo del reale con una frase perfetta: «Quello che io sono è incommensurabile con quello che io so» (Gabriel Marcel et Karl Jaspers).

(135) L’uomo è quella minuscola particella che esige un significato, una ragione, la ragione!

È proprio perché accettiamo quello che siamo, non possiamo censurare il desiderio che ci urge come uno sprone.

(162s) Scoperta della ragione.

La ragione è esigenza di comprendere l’esistenza; vale a dire la ragione è esigenza di spiegazione adeguata, totale dell’esistenza.

Se si vuole salvare la ragione, cioè se vogliamo essere coerenti con questa energia che ci definisce, se vogliamo non rinnegarla, il suo stesso dinamismo ci costringe ad affermare quella risposta esauriente al di là dell’orizzonte della nostra vita.

È come se la ragione fosse un grande alpinista che, scalasse la più alta vetta del mondo, e quando fosse in cima si accorgesse che quello è infinitesimale contrafforte di una parete di cui non si vede né il principio, né la fine.

Il vertice della conquista della ragione è la percezione di un esistente ignoto, irraggiungibile, cui tutto il movimento dell’uomo è destinato, perché anche ne dipende.

(163) Il mistero non è un limite alla ragione, ma è la scoperta più grande cui può arrivare la ragione: l’esistenza di un qualcosa incommensurabile con essa.

La ragione è esigenza di comprendere l’esistente; nella vita questo non è possibile; dunque fedeltà alla ragione costringe ad ammettere l’esistenza di un incomprensibile.

Questa affermazione costituisce il segno della piccolezza della nostra esistenza, e nello stesso tempo il segno del destino incommensurabile, in-finito, della nostra esistenza, della nostra ragione del nostro essere.

Il mistero è intuito come realtà implicata dal meccanismo stesso del nostro io; non blocco della ragione, ma segno della sua apertura senza fine.

La ragione dell’uomo vive a questo livello vertiginoso: la spiegazione c’è, ma non è afferrabile dall’uomo; c’è ma non sappiamo come è.

Senza questa prospettiva noi rinnegheremmo la ragione nella sua essenza, come esigenza di conoscenza della totalità, e ultimamente come possibilità stessa di conoscenza vera.

(167) La natura della ragione (che è comprendere l’esistenza) per coerenza costringe la ragione stessa ad ammettere l’esistenza di un incomprensibile, l’esistenza cioè di un Qualcosa costituzionalmente oltre la possibilità di comprensione e di misura.

L’avventura della ragione ha un vertice ultimo in cui intuisce l’esistenza di un spiegazione esauriente come qualcosa di inattaccabile da sé: Mistero.

Non sarebbe ragione se non implicasse l’esistenza di questo quid ultimo.

Come gli occhi aprendosi non possono non registrare colori e forme, così l’uomo, come ragione, per ciò stesso che si mette in moto sollecitato dall’impatto con le cose, afferma l’esistenza di un perché ultimo, totalizzante; è un quid ignoto.

(181) (L’esperienza del rischio) È uno iato, un abisso, un vuoto tra l’intuizione del vero, dell’essere, data dalla ragione, e la volontà: una dissociazione tra la ragione, percezione dell’essere, e la volontà che è affettività, cioè energia di adesione.

Per cui uno vede le ragione ma non si muove.

La coerenza resta così l’energia con cui l’uomo prende sé stesso e aderisce «si incolla» a ciò che la ragione gli fa vedere.

Invece avviene una spaccatura tra la ragione e l’affettività, tra la ragione e la volontà: questa è l’esperienza del rischio.

(185ss) L’energia della ragione tende ad entrare nell’ignoto.

Abbiamo parlato fondamentalmente della natura della ragione come rapporto con l’infinito, che si rivela come esigenza di spiegazione totale.

Il vertice della ragione è l’intuizione  dell’esistenza di una spiegazione che supera la sua misura.

Per usare il gioco di parole che già abbiamo espresso, la ragione proprio come esigenza di comprendere l’esistenza è costretta dalla sua  natura ad ammettere l’esistenza di un incomprensibile.

Ora quando la ragione prende coscienza di sé fino in fondo e scopre che la sua natura si realizza ultimamente intuendo l’inarrivabile, il mistero, essa non smette di essere esigenza di conoscere.

Perciò una volta scoperto questo, lo struggimento, per così dire, della ragione è quello di poter conoscere quell’incognita.

Anzi è proprio la tensione ad entrare in questo ignoto che definisce l’energia della ragione.

(186) Scoprire il mistero, entrare nel mistero che sottende l’apparenza, sottende ciò che noi vediamo e tocchiamo, è il motivo della ragione, la sua forza motrice.

È solo il rapporto con l’aldilà che rende realizzabile l’avventura della vita.

La forza umana nell’afferrare le cose dell’al di qua è data dalla volontà di penetrazione nell’al di là.

(187) Al di là del mare nostrum che possiamo possedere, governare e misurare che cosa c’è?

L’oceano del significato.

Ed è nel superamento di queste colonne d’Ercole che uno comincia a sentirsi uomo: quando supera questo limite estremo posto dalla falsa saggezza, da quella sicurezza oppressiva, e si inoltra nell’enigma del significato.

(189ss) La Bibbia rivela che un eccessivo attaccamento a sé (amor proprio) spinge la ragione dell’uomo, nel suo desiderio appassionato, nella sua pretesa di capire questo supremo significato da cui tutti i suoi atti dipendono, a dire, a un certo punto: «Ecco ho capito, il mistero è questo».

Esistenzialmente cioè questa natura della ragione come esigenza di conoscere, di comprendere, penetra tutto, e perciò pretende penetrare anche l’ignoto da cui ogni cosa dipende, da cui il suo fiato e il suo respiro, istante dopo istante, dipendono.

La ragione non tollera, impaziente, di aderire all’unico segno attraverso cui seguire l’Ignoto, segno così ottuso, così cupo, così non trasparente, così apparentemente casuale come è il susseguirsi delle circostanze: è come sentirsi in balia di un fiume che ti trascina qua e là.

Nella sua situazione esistenziale la natura della ragione soffre una vertigine cui dapprima può resistere, ma poi vi cade.

E la vertigine sta in questa prematurità o impazienza con cui dice: «Ho capito, il significato della vita è questo».

(190) Ma quando la ragione dell’uomo dice: «Il significato della mia vita è ….» […] identifica immediatamente e inevitabilmente questo «è»: il sangue della razza ariana.

La lotta del proletariato, la competizione per la supremazia economica ecc…

Ogni volta che questo «è» identificherà un contenuto di definizione, inevitabilmente partirà da un certo punto di vista.

Non potrà che pretendere la totalità per un particolare, un particolare del tutto viene pompato a definire la realtà.

Allora questo punto di vista cercherà di far stare dentro la sua prospettiva ogni aspetto della realtà.

Il senso religioso, o ragione, come affermazione di ultimo significato, viene corrotto, viene degradato a identificare il suo oggetto con qualcosa che l’uomo sceglie: e lo sceglierà necessariamente dentro l’ambito della sua esperienza (con qualcosa di comprensibile a sé).

(191)Dove sta il pathos di questo atteggiamento? Sta nel fatto che il senso religioso, cioè la natura dell’uomo nella sua statura ultima, identificherà il significato totale della sua vita con qualcosa di comprensibile a sé.

Proprio perché la natura della ragione è esigenza di comprendere, di fronte all’intuizione dell’ignoto, del mistero, le viene il capogiro, e senza quasi accorgersene essa scivola, degrada il suo sguardo e fissandolo su un aspetto, fra i vari della sua esistenza, su un fattore nella complessità dei fattori della sua esperienza, dice: «questo è il significato».

La natura della ragione è tale che per ciò stesso che si mette in moto intuisce il mistero, l’incommensurabilità del significato totale con la possibilità di conoscenza, ma esistenzialmente non tiene sé stessa, non regge al suo slancio originale, opera subito una parabola riduttiva.

[…] Il suo problema che sta a monte di tutto questo nostro discorrere, è che cosa sia la ragione: se la ragione è l’ambito del reale o se la ragione è un varco sul reale.

Ma all’evidenza della nostra esperienza la ragione si rivela come un occhio spalancato sulla realtà, un varco sull’essere, nel quale non si è mai finito di entrare, il quale per natura sua deborde da tutte le parti e perciò il significato globale è il mistero.

La decadenza, la degradazione, la parabola che, secondo una forza di gravità, opera dentro la ragione, sta nella pretesa che la ragione sia la misura del reale, vale a dire che la ragione possa identificare, e quindi definire quale sia il significato del tutto.

Pretendere di definire il significato di tutto, in fondo che cosa vuol dire? Pretendere di essere la misura di tutto, vale a dire pretendere di essere Dio.

(195ss) Il mondo è segno.

La realtà richiama a un’Altra.

La ragione, per essere fedele alla natura sua e di tale richiamo, è costretta ad ammettere l’esistenza di qualcosa d’altro che sottende tutto, e che lo spiega.

(196) La realtà è segno e desta il senso religioso.

Ma è un suggerimento male interpretato; esistenzialmente l’uomo è spinto ad interpretarlo male: male, cioè prematuramente, impazientemente.

L’intuizione del rapporto con il mistero si corrompe in presunzione.

Per questo S. Tommaso d’Aquino all’inizio della sua Summa Theologiae dice:

«La verità che la ragione potrebbe raggiungere su Dio sarebbe di fatto per un piccolo numero soltanto, e dopo molto tempo e non senza mescolanza di errori. D’altra parte, dalla verità di questa verità dipende tutta la salvezza dell’essere umano, poiché questa salvezza è in Dio».

(199) Perché è in forza della sua natura, per non sopprimersi come natura, che a questo punto  la ragione, la nostra umanità, intuisce la risposta implicata nel proprio dinamismo: risposta che esiste perciò stesso che questa esigenza esiste.

Occorrerebbe decidersi ad una irrazionalità totale, a una innaturalità totale per sopprimere lo slancio con cui la nostra natura intuisce che questo significato ultimo, che questa dipendenza totale ha un termine di riferimento – anche se esso è, usiamo pure la parola drammatica, «disperatamente assoluto», cioè non legato al tempo e allo spazio, né ad alcuna delle misure di ragione, fantasia o immaginazione che noi potremmo usare.

L’esistenza di questa incognita suprema da cui tutto dipende nella storia e  nel mondo è il vertice e la vertigine della ragione.

(201) All’estremo della esperienza della vita, all’estremo della coscienza sofferta e appassionata dell’esistenza si sprigiona, malgrado l’uomo stesso, questo grido della umanità più vera, come una implorazione, una mendicanza; si sprigiona la grande ipotesi che non si possa «fare passaggio con qualche più solido trasporto, con l’aiuto cioè della rivelata parola di un dio» (Fedone, Platone).

(202/203) Negare la possibilità di questa ipotesi (della Rivelazione) è l’ultima estrema forma di idolatria, l’estremo tentativo che la ragione compie per imporre a Dio una propria immagine di Lui.

(205) L’impossibilità di una rivelazione è il dogma fondamentale del pensiero illuministico, il tabù predicato da tutta la filosofia liberale e dai suoi eredi materialisti.

L’affermazione di questa impossibilità è l’estremo tentativo che la ragione fa per dettare essa stessa la misura del reale e quindi la misura del possibile e dell’impossibile realtà.

Ma l’ipotesi della rivelazione non può essere distrutta da alcun preconcetto o da alcuna opzione.

Essa pone una questione di fatto, cui la natura del cuore è originalmente aperta.

Occorre per la riuscita della vita che questa apertura rimanga determinante.

Il destino del «senso religioso» è totalmente legato a essa.

Questo è il confine dell’umana dignità:

Kafka:


Ragionevolezza.

(10) (esempio dell’approccio di tre casi diversi a un oggetto).

Il terzo rivela una posizione più ragionevole, perché tiene conto di tutti gli elementi in gioco; ogni altra metodologia cade in un criterio riduttivo.

(17ss) Per ragionevolezza intendo ciò che tale parola dice a quella esperienza comune che anche i filosofi devono usare nei loro rapporti quotidiani, se vogliono vivere.

Anche la parola ragione però potrebbe essere messa in questione facilmente.

Per ragione intendo il fattore distintivo di quel livello della natura che chiamiamo uomo, e cioè la capacità di rendersi conto del reale secondo la totalità dei suoi fattori.

La parola ragionevolezza dunque rappresenta un modo di agire che esprima e realizza la ragione – questa capacità di prendere coscienza della realtà.

Ragionevolezza: esigenza strutturale dell’uomo.

(19) Nell’esperienza il «ragionevole»” appare tale quando l’atteggiamento dell’uomo si palesa con delle ragioni adeguate.

Se la ragione è renderei conto della realtà, tale rapporto conoscitivo si deve sviluppare in modo ragionevole.

Ed è ragionevole quando i propri passi per quel rapporto di conoscenza sono determinati da motivi adeguati.

È importante non ridurre l’ambito della ragionevolezza.

La capacità di dimostrare è un aspetto della ragionevolezza, ma il ragionevole non è la capacità di dimostrare.

Il ragionevole neppure si identifica con il logico.

La capacità di logica, di coerenza, di dimostrazione, non sono altro che strumenti della ragionevolezza, strumenti al servizio di una mano più grande, dell’ampiezza di un cuore che li utilizza.

(101) Corrisponde all’esperienza l’ipotesi che la realtà è fatta da un Altro: perché, anche se è effimera, è inconsistente, però c’è.

Montale da questa percezione vertiginosa (da ubriaco) della inconsistenza, dell’apparenza effimera delle cose, invece di approdare a quel riconoscimento ragionevole, dove inizia ogni esperienza religiosa vera e ogni preghiera autentica, si stacca dall’impeto che gli mostra le cose esistenti, rinnega un dato evidente, e s’abbandona alla negazione disperata.

(104) (Su un brano dei “Fratelli Karamazov)…. Questo è ragionevole, cioè tiene presenti tutti i fattori della situazione, anche se la modalità della soluzione è al di là della comprensione e di adeguata immagine, perché si tratta di avvenimento che supera i limiti della mia esperienza esistenziale, di ora.


Ragioni adeguate

(19) Nell’esperienza il «ragionevole» perciò a noi appare tale quando l’atteggiamento dell’uomo si palesa con delle ragione adeguate.

Se la ragione è rendersi conto della realtà, tale rapporto conoscitivo con il reale si deve sviluppare in modo ragionevole.

Ed è ragionevole quando i passi per quel rapporto di conoscenza sono determinati da motivi adeguati.

(180) Inevitabile conseguenza del rapporto con Dio, mediato dal fenomeno del segno, è una esperienza che io chiamo esperienza del rischio.

Il rischio non è un gesto o una azione che non abbia ragioni adeguate, perché allora non è rischio, è irrazionalità. La rischiosità sta altrove:

(181) È uno iato, un abisso, un vuoto tra l’iintuizione del vero, dell’essere, data dalla ragione, e la volontà.

Per cui uno vede le ragioni, ma non si muove.


Rapporti

(26s) Uno potrebbe vivere benissimo senza la filosofia, senza sapere che la terra gira intorno al sole: l’uomo non può vivere invece senza le certezze morali.

(27) Senza poter dare giudizi di certezza sul comportamento che l’altro ha verso di lui, l’uomo non può vivere.

Tanto è vero che l’incertezza dei rapporti è uno dei malanni più terribili della nostra generazione: è difficile la certezza dei rapporti, incominciando dalla famiglia.

Si costruiranno grattacieli, bombe atomiche, sistemi di filosofia sottilissimi, ma non l’umano, perché esso è nei rapporti.

Per farci cogliere le certezze nei rapporti ci è stato dato un metodo velocissimo, quasi più una intuizione che un processo.

È molto più vicino questo quarto metodo al gesto dell’artista, perché l’uomo ne ha bisogno per  vivere sull’istante.

Il metodo con cui capisco che mia madre mi vuole bene, attraverso cui sono certo che molti mi sono amici, non è fissato meccanicamente, ma è intuito dalla intelligenza come unico senso ragionevole, unico motivo adeguato, per spiegare la convergenza di determinati «segni».

Moltiplicate indefinitamente questi segni, a centinaia, a migliaia: il punto del loro senso adeguato è che mia madre mi vuole bene.

(28) La dimostrazione per una certezza morale è un complesso di indizi il cui unico senso adeguato, il cui unico motivo adeguato, la cui unica lettura ragionevole è quella certezza.

Si chiama non solo certezza morale, ma anche certezza esistenziale perché è legata al momento in cui tu leggi il fenomeno, cioè intuisci l’insieme dei segni.

(30) Raggiungere la certezza sull’umano comportamento può benissimo avere motivi adeguati e perciò avvenire con estrema ragionevolezza.

La nostra vita è fatta di questo tipo di ragionevolezza.

Parlo della nostra vita più interessante, quella dei rapporti, ma anche alla fin fine quella dei rapporti che stabiliscono la storia e attraverso i quali si tramandano i reperti anche delle scoperte fatte con altri metodi.

(87) Dov’è l’errore della cultura moderna oggi?

Essa scorda le premesse. Esse sono nella coscienza dell’uomo, nell’uomo che grida quelle ultime domande.

E quelle domande penetrano i rapporti che si hanno con i figli, con gli amici e con gli estranei; penetrano il lavoro e il sostentamento [….] penetrano il modo con cui affrontiamo il problema sociale.

(155) Il segno è una realtà il cui senso è un’altra realtà.

Esso è anche il modo normale dei rapporti tra noi uomini, perché le maniere con cui cerco di dirti la mia verità e il mio amore sono dei segni.

(161) E’ importante sottolineare l’analogia con l’espressione normale dei rapporti umani.

L’uomo non percepisce mai una esperienza di completezza come nella compagnia, nell’amicizia, particolarmente tra uomo e donna.

La donna per l’uomo, e viceversa, , o l’altro per la persona costituiscono veramente altro; tutto il resto è assimilabile e dominabile dall’uomo, ma il tu mai.

Il tu non è esauribile; è evidente e non «dimostrabile», l’uomo non può rifare tutto il processo che lo costituisce, eppure mai l’uomo percepisce e vive un’esperienza di pienezza come di fronte al «tu».

Qualcosa di diverso, per sua natura diverso da me, qualcosa di altro mi compie più di qualsiasi esperienza di possesso, di dominio, di assimilazione.

(201) È inevitabile, storicamente, che l’uomo a un certo punto identifichi con una propria immagine l’assoluto.

Così la storia del pensiero umano è come una grande documentazione di questa caduta realizzata, in modo esplicito o implicito, teorizzato o praticato, stabilito in una teoria o vissuto in un momento, in un’ora particolare.

Sulle orme della Bibbia abbiamo anche segnalato tutte le conseguenze: la vita come violenza e corruzione.

Infatti i rapporti attraverso i quali l’uomo tenta di assumere questo suo corpo immenso che è l’universo, i rapporti con cui l’uomo si butta alla ricerca e al possesso del «tu», vale a dire degli altri, delle altre persone, tutto questo è affrontato da un proprio punto di vista, e non secondo la misura che deriva dal nesso con l’assoluto.


Razionalismo

(98) L’autentica religiosità è la difesa a oltranza del valore della ragione, della umana coscienza.

Il razionalismo spesso distrugge la possibilità della ragione, o la ragione come categoria della possibilità.


Realismo

(4ss) Per una indagine seria su qualsiasi avvenimento o cosa, occorre realismo.

(5) Il realismo esige che, per osservare un oggetto in modo tale da conoscerlo, il metodo non sia immaginato, pensato, organizzato o creato dal soggetto, ma imposto dall’oggetto.

(17) La prima premessa – necessità di realismo – ha visto prevalere l’oggetto: il metodo infatti con cui si affronta qualcosa è determinato dall’oggetto e non immaginato a capriccio del soggetto.

(29s) L’oggetto di studio esige realismo, il metodo è imposto dall’oggetto, ma concomitante, complementare a questo occorre che il lavoro verso l’oggetto rispetti l’esigenza della natura dell’uomo che è la ragionevolezza: avere motivi adeguati nel fare i passi verso l’oggetto del conoscere.

La diversità dei metodi stabilisce l’ordine di questi motivi adeguati.

Unmetodo è luogo di motivi adeguati.


Realtà

(4) Invece che imparare dalla realtà in tutti i suoi dati, costruendo su di essa, si cerca di manipolare la realtà secondo le coerenze di uno schema fabbricato dall’intelletto: «così il trionfo delle ideologie consacra la rovina della civiltà» (A. Carrel Riflessioni sulla condotta della vita).

(12) Realmente l’anarchia costituisce la tentazione più affascinante, ma è tanto affascinante quanto menzognera.

E la forza di tale menzogna sta appunto nel suo fascino, che induce a dimenticare che l’uomo prima non c’era e poi muore.

È per tanto pura violenza ciò che può fargli dire: «Io mi affermo contro tutto e contro tutti».

È molto più grande e vero amare l’infinito, cioè abbracciare la realtà e l’essere, piuttosto che affermare sé stessi di fronte a qualsiasi realtà.

Perché in verità l’uomo afferma veramente sé stesso solo accettando il reale, tanto è vero che l’uomo comincia ad affermare sé stesso accettando di esistere: accettando cioè una realtà che non si è data da sé.

(26) Un ambito di realtà di cui la nostra coscienza può rendersi conto è dunque il campo delle realtà o verità «morali»; morali nel senso etimologico, in quanto cioè definiscono l’umano comportamento che in latino si dice mores.

(33s) L’uomo è quel livello della natura in cui la natura prende coscienza di sé stessa, è quel livello della realtà in cui la realtà comincia a diventare coscienza di sé, comincia cioè a diventare ragione.

(34) Chiameremo «valore» l’oggetto della conoscenza in quanto interessa la vita della ragione.

Il valore è la realtà conosciuta proprio in quanto interessa, in quanto vale la pena.

(53ss) Duplice realtà.

Ad un attenta riflessione sulla propria esperienza l’uomo scopre nel suo presente due tipi di realtà.

  1. Un tipo di realtà, che egli ritrova in sé stesso, è lungo, largo, pesante, leggero, quantitativamente descrivibile. Diciamo una parola: misurabile. Altra caratteristica, quindi, fondamentale per una categoria misurabile è quella più profonda della divisibilità. (È anche una realtà  mutevole). Il tipo di realtà che presenta le caratteristiche appena indicate potrebbe essere definito con un termine generico: materiale. È la materialità
  2. (idea, giudizio, decisione) sono fenomeni il cui contenuto di realtà non è misurabile, divisibile (e immutabile).

È qui dove il metodo di approccio alla propria umana realtà mostra la sua imponenza, è qui dove si evidenzia veramente come l’esperienza è sorgente di conoscenza.

L’osservazione che il soggetto fa di sé stesso in azione gli rivela dunque che il suo io è fatto di due realtà diverse.

(55) Queste due realtà con caratteristiche irriducibili potevano essere chiamate in molti modi: le hanno chiamate materia e spirito, corpo e anima.

Se in me c’è una realtà che non è divisibile, misurabile, o essenzialmente mutabile, a essa l’idea di morte, così come l’esperienza me la mostra, non è applicabile.

La realtà intera dell’io come appare dall’esperienza non è riconducibile interamente al fenomeno della corruzione; l’io non esaurisce la sua consistenza in ciò che di lui si vede e constata di morire.

(59) «Qual’è il significato ultimo dell’esistenza?».

«Perché c’è il dolore? La morte, perché in fondo vale la pena vivere?».

O da un altro punto di vista: «Di che cosa è fatta la realtà?».

Ecco, il senso religioso si pone dentro la realtà del nostro io a livello di queste domande: coincide con quel radicale impegno del nostro io con la vita, che si documenta in queste domande.

(61) Qual è il senso ultimo della vita, in fondo in fondo di che cosa è fatta la realtà?

Per che cosa vale veramente la pena che io sia, che la realtà sia?

Sono domande che esauriscono l’energia, tutta l’energia di ricerca della ragione.

Sono domande che esigono una risposta totale che copra l’intero orizzonte della ragione, esaurendo tutta la «categoria della possibilità»

(62) Se solo rispondendo a mille domande fosse esaurito il senso della realtà, e l’uomo trovasse le 999 di esse, sarebbe irrequieto e insoddisfatto come fosse da capo.

Leopardi in “Pensiero dominante”

«Dolcissimo possente 
Dominator di mia profonda mente
Terribile ma caro
Dono del ciel; consorte
Ai lugubri miei giorni
Pensier che innanzi a mi sì spesso torni \.

Di tua natura arcana
Chi non favella il suo poter fra noi
Chi non sentì? [...]

Come solinga è fatta
La mente mia d’allora
Che tu quivi prendesti a far dimora !
Ratto d’intorno al par del lampo
Gli altri pensier miei
Si dileguar. Siccome torre
in solitario campo
Tu stai solo, gigante, in mezzo a le
i».

(67) Shakespeare in Amleto:

«Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, che non nella tua filosofia».

Sempre ci saranno più cose in cielo e in terra – cioè nella realtà – che non nella nostra percezione e concezione della realtà – cioè della filosofia.

(75s) Solo l’ipotesi di Dio, solo l’affermazione del mistero come realtà esistente oltre la nostra capacità di ricognizione corrisponde alla struttura originale dell’uomo.

Solo l’esistenza del mistero è adeguata alla struttura di mendicanza che che l’uomo è.

(76) Sottolineo ciò che il senso religioso sia in noi, come emerga alla nostra coscienza: domanda di totalità costitutiva della nostra ragione, cioè della capacità che l’uomo ha di conoscenza, della sua apertura a inoltrarsi e ad abbracciare sempre  più la realtà.

Per ciò stesso che un uomo vive pone questa domanda, perché è la radice della sua coscienza del reale.

Come l’occhio spalancandosi scopre forme e colori, così la ragione per ciò stesso che si mette in moto afferma un «ultimo» una realtà ultima di cui tutto consiste; un destino ultimo, senso di tutto.

(100ss) La realtà come illusione

Montale (da Ossi di seppia)

«Forse un mattino andando in un’aria di vetro, 
arida, rivolgendomi all’indietro, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore ubriaco.

Poi come su uno schermo, s’accamperanno di gitto
alberi e case colli con l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me ne andrò zitto
Tra gli uomini che non si voltano, con il mio segreto.

(101) Io non ho mai trovata descritta così bene la percezione della contingenza della realtà, del fatto cioè che la realtà non si fa da sé.

Di fronte alla percezione del «nulla dietro di me» due sono le ipotesi: o le cose non si costituiscono da sé, ma sono fatte da un Altro, o sono illusioni o nulla.

Quale delle due ipotesi è più corrispondenti alla realtà come appare alla nostra esperienza?

Indubbiamente corrisponde alla esperienza l’ipotesi che la realtà è fatta da un Altro: perché anche se effimera e inconsistente, però c’è.

(102) La poesia di Montale sorprende l’uomo nel momento vertiginoso in cui sceglie per l’abisso, questa di Pavese (Poesie del disamore) è la descrizione della realtà dell’abisso:

«Tu sei come terra 
che nessuno ha mai detto.
Tu non attendi nulla
se non la parola che sgorgherà dal fondo
come frutto tra i rami.
C'è un vento che ti giunge.
Cose secche e rimorte
t'ingombrano e vanno nel vento.
Membra e parole antiche.
Tu tremi d'estate
».

Subito, ecco l’opzione negativa: «Tu sei come terra che nessuno ha mai detto».

ci sei, dunque dipendi da qualcosa di Ultimo; per negarlo, devi rinnegare questo «Tu» che è la parola più secondo natura emergente dalla profondità delle tue origini.

Ed è rinnegare la natura dire: «Tu non attendi nulla».

(121) Rappresentiamo tutta la realtà sperimentabile con questa figura

(122) Questo puntino sei tu, sono io. Prima non c’eri adesso ci sei.  

Questo mondo, questa realtà a livello umano si chiama umanità.

L’umanità è un concetto ancora astratto, perché l’umanità in concreto si chiama società.

Ma la società è un certo determinato ordine organico.

Ed è per il potere che questo ordine è mantenuto

Allora quel punto (cioè io, tu!) non ha nessun diritto di fronte al potere, nessuno, perché il potere è l’espressione prevalente di un determinato istante del flusso storico.

(123) Tutta la realtà della nostra epoca ha codificato questo: lo stato sorgente di ogni diritto, stato liberale o marxista che sia.

(133) La ragione è quell’avvenimento singolare della natura in cui questa si rivela come esigenza operativa a spiegare la realtà in tutti i suoi fattori, così che l’uomo sia introdotto alla verità delle cose.

(136) Solo in una dimensione religiosa è possibile intuire tutta la dinamica strutturale della coscienza:

  • Perché pone l’esigenza del significato che è come la somma ultima o l’intensità ultima di tutti i fattori della realtà.
  • Perché apre e pone sulla soglia di ciò che è diverso, è altro, è infinito.

(140) Lo stupore, e la meraviglia di questa realtà che mi si impone, di questa presenza che mi investe, è all’origine del risveglio dell’umana coscienza.

Heschel:

«L’assoluto stupore è per l’intelligenza della realtà di Dio ciò che la chiarezza e la distinzione sono per la comprensione delle idee matematiche»

Perciò il primissimo sentimento dell’uomo è quello di essere di fronte a una realtà che non è sua, che c’è indipendentemente da lui e da cui dipende.

La parola che traduce in termini totalmente umani il vocabolo «dato» e quindi il primo contenuto dell’impatto con la realtà è la parola dono.

(150s) La formula dell’itinerario al significato ultimo della realtà qual è? Vivere il reale.

La formula dell’itinerario al significato della realtà è quella di vivere il reale senza preclusioni, cioè senza rinnegare o dimenticare nulla.

(151) Quanto più uno vive il livello di coscienza, che abbiamo descritto, nel suo rapporto con le cose, tanto più vive intensamente il suo impatto con la realtà e tanto più incomincia a conoscere qualcosa del mistero.

È segno degli spiriti grandi e degli uomini vivi l’ansia della ricerca attraverso l’impegno con la realtà della loro esistenza.

Il mondo, questa realtà in cui ci impattiamo, è come se nell’impatto sprigionasse una parola, un invito, facesse sentire un significato. [….] La struttura di impatto con la realtà desta nell’uomo una voce che lo attira a un significato che è più in là, più in su, anà, analogia.

Questa struttura sintetizza la struttura dinamica dell’impatto che l’uomo ha con la realtà.

(155) Il segno è una realtà il cui senso è un’altra realtà, una realtà sperimentabile che acquista il suo significato conducendo ad un’altra realtà.

Se un marziano in visita alla terra vedesse una madre dare un bacio a suo figlio, chiederebbe: «Come mai questo gesto?», trovandosi sollecitato dalla realtà di quel gesto a quello che esso potrebbe voler dire.

La realtà lo provocherebbe ad altro.

È il fenomeno del segno.

(163) Il mistero è intuito come realtà implicata dal meccanismo stesso del nostro io; non blocco della ragione, ma segno dell’apertura senza fine.

La ragione dell’uomo vive a questo livello vertiginoso: la spiegazione c’è, ma non è afferrabile dall’uomo.

Nel suo Germania Tacito descrive così l’idea di divinità come quelle tribù se lo immaginavano: «quella realtà nascosta, inafferrabile, che percepiscono solo come qualcosa da cui la loro vita dipende, questa realtà chiamano Dio».

(170) Ed ecco l’alternativa in cui l’uomo quasi insensibilmente si gioca: o tu vai di fronte alla realtà spalancato , con gli occhi sgranati di un  bambino, lealmente, dicendo pane al pane e vino al vino, e allora abbraccia tutta la sua presenza abbracciandone anche il significato; o ti metti di fronte alla realtà difendendoti, quasi con il gomito davanti al viso per evitare colpi sgraditi e inattesi, chiamando la realtà al tribunale del tuo parere e allora nella realtà cerchi e ammetti solo ciò che ti è consono, sei potenzialmente pieno di obiezioni ad essa, troppo scaltrito per accettarne le evidenze e i suggerimenti più gratuiti e sorprendenti.

(173) Einstein era ben lontano da questa miopia, quando affermava l’implicazione enigmatica, ultima della realtà e quindi il valore del segno che inestirpabilmente fa vibrare il mondo:

«La più bella e profonda emozione che possiamo provare è il senso del mistero; sta qui il seme di ogni arte, di ogni vera scienza»

Per questo poteva accusare la sconsolatezza soffocante che da quella miopia deriva:

«Chiunque crede che la sua vita e quella dei suoi simili sia priva di significato, è non soltanto infelice, ma appena appena capace di vivere».

(175) Il problema fondamentale di questa grande avventura del «segno» che è il mondo, perché in essa si palesi il destino, è l’educazione alla libertà.

Se la realtà chiama l’uomo a qualcosa d’altro, educazione alla libertà è uguale a educazione alla responsabilità.

(177) Qual è l’atteggiamento giusto di fronte alla realtà? È la permanenza della posizione originale in cui la natura formula l’uomo.

E tale atteggiamento originale, sigillo nativo impresso all’uomo dalla natura, è l’atteggiamento dell’attesa come domanda.

Questa curiosità non è che una originale simpatia con l’essere, con la realtà, quasi un’ipotesi generale di lavoro con cui la natura sospinge l’uomo all’universale paragone.

Questa simpatica con la realtà è l’ipotesi generale di lavoro come premessa a qualsiasi azione, a qualsiasi attività.

(179) Tutti i «ma», «se», «però», «forse» con cui si cerca di intaccare la positività del processo di rapporto io-realtà, sono fuoco di sbarramento, cortina fumogena per proteggere la ritirata dell’uomo dall‘impegno con la realtà stessa.

(190) L’uomo non potrà che pretendere la totalità per un particolare, un particolare del tutto viene pompato a definire la totalità.

Allora questo punto di vita cercherà di far stare dentro la sua prospettiva ogni aspetto della realtà.

E siccome è un particolare della realtà, questo far rientrare tutto dentro di esso non potrà che far rinnegare o dimenticare qualche cosa; non potrà che ridurre, negare o rinnegare il volto completo e complesso della realtà.

(195s) Il mondo è segno. La realtà richiama ad un’Altra.

La ragione, per essere fedele alla natura sua e di tale richiamo, è costretta ad ammettere l’esistenza di qualcosa d’altro che sottende tutto, e che lo spiega.

(196) La realtà  è segno e desta il senso religioso.

Ma è un suggerimento male interpretato, esistenzialmente l’uomo è spinto a interpretarlo  male: male cioè prematuramente, impazientemente.

L’intuizione del rapporto col mistero si corrompe in presunzione.

(201) Insomma, è inevitabile storicamente che l’uomo a un certo punto identifichi con una propria immagine l’assoluto.

La realtà è un segno interpretando il quale la coscienza dell’uomo capisce l’essenza del mistero.

In tal senso il mondo è strutturalmente la rivelazione di Dio.


Reazione

(33) Qualcosa accade, penetra e produce inevitabilmente, meccanicamente una certa reazione, vale a dire uno stato d’animo, un dolore fisico, una contentezza, una curiosità […]

Qualunque cosa intervenga nell’orizzonte di conoscenza della persona produce una inevitabile, irresistibile reazione proprio nella misura della vivacità umana di quella persona.

La parola che indica questo stato d’animo, questa reazione, questa emozione, questo essere toccati dalla cosa che accade si chiama sentimento.

(35) Quanto più una cosa interessa l’individuo, quanto più cioè è valore, e quanto più è vitale, tanto più potentemente genera uno stato d’animo, una reazione di simpatia o antipatia, tanto più genera sentimento, e tanto più la ragione è condizionata da questo sentimento per la conoscenza di quel valore.

(48) La vita è dunque una trama di problemi, un tessuto di eventi reattivi agli incontri provocanti, poco o tanto che lo siano.

(110) L’uomo, laddove il significato del suo vivere, la risposta a quelle domande, fosse smarrito, non si può dire che giocherella con il mondo, perché è troppo drammatica e ultimamente tragica la vita: ma possiamo usare già la parola citata: «reagisce»; l’uomo reagisce.

Il criterio del suo nesso con la realtà è la reattività, la reazione.

La reattività come criterio di rapporto taglia i ponti con la ricchezza della storia e della tradizione, cioè taglia i ponti con il passato.

(111) […] la reattività che prenda il sopravvento produce come prima cosa un taglio con il passato.

La reattività blocca il nesso con la storia, tagli i ponti con tutto ciò che è stato convogliato fino a quel momento.

(129) Di fronte a una proposta di qualsiasi natura sia, l’uomo reagisce, e reagisce in base a quello che sa e che è.

Il senso cattivo del termine preconcetto è la dove l’uomo si metta di fronte alla realtà proposta, avendo quella reazione come criterio di giudizio, e non soltanto come condizionamento da superare in una apertura di domanda.

(139) Se quelle domande ultime sono il costitutivo, la stoffa dell’umana coscienza, dell’umana ragione, come fanno a destarsi?

La risposta a tale domanda costringe ad individuare la struttura della reazione che l’uomo ha di fronte alla realtà.

Se l’uomo si accorge di fattori che lo costituiscono osservando se stesso in azione, per rispondere a quella domanda occorre osservare la dinamica umana nel suo impatto con la realtà, impatto che mette in moto il meccasnismo rivelatore dei fattori.


Regola morale

(42) Nell’applicazione al campo della conoscenza questa è la regola morale: l’amore alla verità dell’oggetto più di quanto si sia attaccati alle opinioni che già ci siamo fatti su di lui:


Religiosità

(5) Non esiste attività umana che sia più vasta di quella individuabile sotto il titolo «esperienza o sentimento religioso».

Essa propone all’uomo un interrogativo su tutto ciò che egli compie, e viene perciò a essere un punto di vista più ampio di qualunque altro.

(47ss) Se un uomo adulto di fronte al fatto religioso assume una posizione che lo porta a dire: «non sento Dio, non ho l’esigenza di affrontare questo problema» egli si pone in quell’atteggiamento spinto da una serie di condizionamenti centrifuganti, distraenti, e non condottovi dalla ragione, la quale correttamente impegnata non potrebbe eliminare tale problema.

(48) Una persona, dunque, che mai avesse voluto impegnarsi col fatto religioso nella sua vita, avrebbe ragione di dire che tutto ciò che attiene a tale fatto non la tocca, perché, non essendovisi mai coinvolta, a un certo punto quel fatto per essa è come se non esistesse.

(49) La condizione per poter sorprendere in noi l’esistenza e la natura di un fattore portante, decisivo come il senso religioso, è l’impegno con la vita intera, nella quale tutto va compreso.

(59) Osserviamo il fattore religioso come l’aspetto fondamentale del fattore spirituale.

 Il fattore religioso rappresenta la natura del nostro io in quanto si esprime in certe domande: «Qual è il significato ultimo dell’esistenza?», «Perché c’è il dolore, la morte, perché in fondo in fondo vale la pena vivere?».

O da un altro punto di vista: «Di che cosa è fatta la realtà?».

Ecco il senso religioso si pone dentro la realtà del nostro io a livello di queste domande: coincide con quel radicale impegno del nostro io con la vita, che si documenta in queste domande.

(65) In un capitolo del suo libro Dalla scienza alla fede il grande matematico Francesco Severi, amicissimo di Einstein, dice che quanto più si addentrava nella ricerca scientifica, tanto più gli era evidente che tutto ciò che scopriva, man mano che procedeva, era «era in funzione di un assoluto che si oppone come barriera elastica […] al suo superamento con i mezzi conoscitivi».

Quanto più la sua indagine procedeva, tanto più l’orizzonte cui perveniva si palesava come rimando a un altro orizzontte, facendogli percepire la sua conquista come sola funzione che lo sospingeva ulteriormente verso una X, un quid che era al di là delle condizioni in cui agiva.

Quando la ricerca giungeva a un certo termine, l’oggetto dell’azione, la X si spostava.

Si potrebbe segnare così questo processo:

(66) La «R» è l’energia indagatrice dell’umana ragione e libertà; e la «X» il traguardo provvisorio e sempre teso ad una ulteriore ingognita.

È una simile esperienza che ha convertito Francesco Severi alla religione, dopo, è lui stesso a dirlo, 50 anni di alta esperienza scientifica.

In una conversazione che ebbe con Einstein, pochi giorni prima che quest’ultimo morisse e di cui diede resoconto sul “Corriere della sera”, discusse anche con il fisico del tema religioso.

Einstein a un certo punto gli disse:

«Chi non ammette l’insondabile mistero non può essere neanche scienziato».

(98) L’autentica religiosità è la difesa a oltranza del valore della ragione, della umana coscienza.

Il razionalismo spesso distrugge la possibilità stessa della ragione o la ragione come categoria della possibilità.

(107) E’ la rivoluzione per la difesa dell’umano che occorre, ed essa può avere un solo segno, quello religioso, quello religioso autentico, perciò il cristiano autentico in prima linea.

(124s) «Il corpo viene dato dai genitori, ma l’anima viene infusa da Dio» (Pio X Catechismo della dottrina cristiana).

(125) Solo nella ipotesi che in me esista questo rapporto, il mondo può fare di me quello che vuole, ma non mi vince, non mi evince, non mi afferra, io sono più grande, io sono libero.

La libertà si identifica con la dipendenza da Dio a livello umano, cioè riconosciuta e vissuta.

Mentre la schiavitù è negare o censurare questo rapporto.

La coscienza vissuta di questo rapporto si chiama religiosità.

La libertà è nella religiosità.

Per questo l’unica remora, l’unico limite, l’unico confine alla dittatura dell’uomo sull’uomo, si tratti di uomo o donna, si tratti di genitori e figli, si tratti di governo e di cittadini, si tratti di padrone e di operai, si tratti di capi di partito e di strutture in cui la gente serve, l’unica remora e l’unico confine, l’unica obiezione alla schiavitù del potere, l’unica è la religiosità.

Per questo chi ha il potere, chiunque sia, familiare o collettivo è tentato di odiare la religiosità vera, a meno che sia lui stesso profondamente religioso.

(126) Così, ad esempio, non esiste niente, nei rapporti tra uomo e donna, tra ragazzo e ragazza, più temuto e odiato, inconsciamente, che una religiosità autentica nell’altro e nell’altra, perché è limite al possesso, è sfida al possesso.

(131) L’ideologia è costruita su uno spunto che l’esperienza offre, così che l’esperienza stessa è presa come pretesto per una operazione determinata da preoccupazioni estranee e esorbitanti.

I pareri degli intellettuali, che il potere trova convenienti e che assume, diventano mentalità comune attraverso i mass-media, le scuole, la propaganda, così che quello che accusava Rosa Luxemburg con lucidità rivoluzionaria, «lo strisciare del teorico», morde alla radice e corrompe ogni autentico impeto di cambiamento.

Un esempio classico di questa dinamica sociale è proprio documentato dal pregiudizio materialistico contro la religione.

(141s) Non c’è nessun atteggiamento più retrogrado che quello di un preteso atteggiamento scientifico verso la religione e l’umano in genere.

È infatti ben superficiale ripetere che la religione sia nata dalla paura.

La paura non è il primo sentimento dell’uomo.

Esso è una attrattiva.

La paura sorge in un secondo momento come riflesso del pericolo percepito che quella attrattiva non permanga.

La religiosità è innanzitutto l’affermarsi e lo svilupparsi dell’attrattiva.

Un’altra grande parola deve intervenire a chiarire ulteriormente il significato del «dato»: è la parola «altro, alterità».

(142) Per riprendere una immagine già usata, se io nascessi con la coscienza attuale dei miei anni, e spalancassi per il primo istante gli occhi, la presenza della realtà si paleserebbe come «altro» da me.

Caracciolo in La religione come struttura e come modo autonomo della conoscenza:

«Lo stupore religioso è altra cosa dalla meraviglia dalla quale secondo Platone e Aristotele nasce la filosofia … quando l’alterità emerge nel mondo e in lui, l’uomo non è tratto a problematizzare, ma a venerare, a de-precare, a in-vocare, a contemplare. Questo resta fermo, che esso è appunto il diverso [da sé] ed il meta [oltre] naturale».

(146) A questo punto, quando è risvegliato nel suo essere dalla presenza dell’attrattiva e dallo stupore, ed è reso grato, lieto, perché questa presenza può essere benefica e provvidenziale, l’uomo prende coscienza di sé come io e riprende lo stupore originale con una profondità che stabilisce la portata, la statura della sua identità.

In questo momento io se sono attento, cioè se sono maturo, non posso negare che l’evidenza più grande e profonda che percepisco è che io non mi faccio da me, non sto facendomi da me.

(151) Ciò che blocca la dimensione religiosa autentica, il fatto religioso autentico, è una mancanza di serietà con il reale, di cui il preconcetto è l’esempio più acuto.

(183) La comunità è la dimensione e la condizione perché il seme umano dia il suo frutto.

La persecuzione più accanita è l’impedimento che lo stato cerca di realizzare all’esprimersi della dimensione comunitaria del fenomeno religioso.


Responsabilità

(114) Che cosa c’è di più caloroso, come espressione comunicativa della mia personalità, se non ciò che io ricordo del passato?

E’ proprio in quel ricordo che l’impegno mio con il presente e la mia responsabilità come prospettiva per il futuro trova appoggi, illuminazioni, paradigmi, sostegni ed evidenze.

(120)

La libertà è per l’uomo la possibilità, la capacità, la responsabilità di compiersi, cioè di raggiungere il proprio destino.

(169) Il destino è qualcosa di fronte al quale l’uomo  è responsabile; il modo che l’uomo  ha di raggiungere il suo destino è responsabilità sua, è frutto della libertà.

(175s) Responsabilità deriva da «rispondo».

L’educazione alla responsabilità è educazione a rispondere a ciò che chiama.

In che cosa consiste questa educazione alla libertà, cioè alla responsabilità?

Innanzitutto l’educazione alla responsabilità implica una educazione alla attenzione,

(176) Ma oltre l’educazione all’attenzione, una educazione alla responsabilità è anche educazione alla capacità di accettazione.

Anche ospitare una proposta nella sua interezza non è automatico.

Educare alla attenzione e alla accettazione assicura la modalità profonda con cui uno deve atteggiarsi di fronte alla realtà.

(192s) La Bibbia chiama con un determinato nome il particolare con cui la ragione identifica il significato totale del suo vivere e dell’esistere delle cose.

Questo particolare nel quale la ragione identifica la spiegazione di tutto, la Bibbia lo chiama idolo.

Qualcosa che sembra Dio, ha la maschera di Dio, e non lo è.

(193) Gli idoli non mantengono le loro promesse e le loro pretese totalizzanti.

Nella misura in cui gli idoli sono esaltati, l’umano viene meno.

È l’abolizione della persona, della responsabilità, dell’umano.

Tutta la colpa sarebbe della struttura: l’idolo oscura l’orizzonte dello sguardo ed altera la forma delle cose.


Riconoscimento

(101) Indubbiamente corrisponde alla esperienza l’ipotesi che la realtà è fatta da un Altro: perché anche se effimera e inconsistente, però c’è.

Montale da questa percezione vertiginosa («da ubriaco»), della inconsistenza, dell’apparenza effimera delle cose, invece di approdare a quel riconoscimento ragionevole, dove inizia ogni esperienza vera, e ogni preghiera autentica, si stacca dall’impeto che gli mostra le cose esistenti, rinnega un dato evidente, e si abbandona alla negazione disperata.

(121) La fede è gesto di libertà fondamentale e la preghiera è la costante educazione del cuore, dello spirito alla autenticità umana, alla libertà: perché fede e preghiera sono il riconoscimento pieno di quella Presenza che è il mio destino, e la dipendenza dalla quale è la mia libertà.


Riflessione

(6ss) Se non si partisse dall’indagine esistenziale, sarebbe come chiedere la consistenza di un fenomeno, che vivo io, a un altro.

Il che, se non fosse conferma, arricchimento già personalmente intrapresa, renderebbe l’opinione altrui supplenza di un lavoro che mi compete e veicolo di opinione inevitabilmente alienante.

(7) Anche per l’esperienza religiosa occorre domandarsi, dopo aver svolto l’indagine, quale criterio adottare per giudicare quanto si è trovato nel corso di quella riflessione su sé stessi.

(8) Il criterio per giudicare quella riflessione sulla propria umanità deve essere immanente alla struttura originaria della persona.

Tutte le esperienze della mia umanità e della mia persona passano al vaglio di una «esperienza originale», primordiale, che costituisce il volto del mio raffronto con tutto.

(10) (Esempio dei tre professori): ho proposto questo esempio per insistere sulla necessità che la riflessione su di sé sia vagliata, per giungere a un giudizio, attraverso il confronto tra il contenuto della riflessione stessa e il criterio originale di cui siamo tutti dotati.

(53ss) Ad una attenta riflessione sulla propria esperienza l’uomo scopre nel suo presente due tipi di realtà.

  1. Un tipo di realtà, che egli ritrova in se stesso, è lungo o largo, pesante o leggero, quantitativamente descrivibile. Diciamo una parola precisa: misurabile. Altra caratteristica fondamentale di una realtà misurabile è quella più profonda della divisibilità. Infine, quello stesso genere di fenomeno che si è rivelato misurabile e divisibile si mostra ad attenta analisi intrinsecamente, essenzialmente mutevole. È la materialità.
  2. (54) Se l’uomo però è totalmente impegnato in quell’istante di riflessione su di sé, noterà nel suo io un tipo di contenuto che non si identifica con ciò che abbiamo finora descritto.L’idea di bontà, […] il giudizio, [..]la decisione. Non mutevoli si riscontrano idea, giudizio, decisione. Sono fenomeni il cui contenuto di realtà non è misurabile, divisibile.

(55) Queste due realtà con caratteristiche irriducibili potevano essere chiamate in molti modi: le hanno chiamate materia e spirito, corpo e anima.

(91) L’ideale dell’atarassia, l’ideale della imperturbabilità, anche conquistata da un governo accanito di sé oltre che inadeguata è illusoria, perché non sta, è alla mercé del caso.

Tu puoi ridurti imperturbabile e inattaccabile, ma nella misura in cui non sei arido, nella misura in cui sei potente come umanità, presto o tardi la tua costruzione, che ti è costata magari una reale ascesi di anni, una accanita riflessione filosofica e una accanita presunzione, un soffio basta a farla crollare.

(169) Vi sono tanti filosofi che sono arrivati a Dio attraverso la loro riflessione, e tanti filosofi che attraverso la loro riflessione hanno escluso Dio.

Allora vuol dire che riconoscere Dio non è un problema né di scienza, né di sensibilità estetica e neanche di filosofia come tale […] il problema non è di ragione, ma di opzione.

Certo, c’è una opzione che è secondo natura, ed essa evidenzia la ragione, e una opzione che è contro natura, ed essa oscura la ragione.

Però, alla fin fine, l’opzione è decisiva.


Rimando

(65s) Francesco Severi dice che quanto più si addentrava nella ricerca scientifica, tanto più gli era evidente che tutto ciò che scopriva, man mano che procedeva, era « …  in funzione di un assoluto che si oppone come barriera elastica [ … ] al suo superamento con i mezzi conoscitivi».

Quanto più la sua indagine procedeva, tanto più l’orizzonte cui perveniva si palesava come un rimando ad un altro orizzonte facendogli percepire la sua conquista come la sola funzione che lo sospingeva ulteriormente verso una «X», un quid che era al di là delle condizioni in cui agiva.

Quando la ricerca giungeva a un certo termine, l’oggetto dell’azione, la X, si spostava.

Si potrebbe segnare così questo processo:

(66) La R è l’energia indagatrice dell’umana ragione e libertà; e la X il traguardo provvisorio sempre teso a una ulteriore incognita.

(160s) L’attrattiva di una bellezza segue una traiettoria paradossale: quanto più è bella, tanto più rimanda ad un altro.

Uno sguardo all’impatto continuo della coscienza dell’uomo con la realtà che bloccasse la dinamica del segno, che arrestasse il rimando che costituisce il cuore della esperienza umana, compirebbe un assassinio dell’umano, frenerebbe indebitamente l’impeto di un dinamismo vivente.

(161) Perché sa che c’è? (esempio del bambino che cresce solo in un’isola e all’adolescenza ha l’esigenza di qualcosa che non sa). Perché l’esistenza di quella cosa è implicata nel dinamismo della sua persona, è un rimando operato da qualcosa che ha dentro sé stesso, ma non coincide con nulla di quanto ha a disposizione, e non sa immaginarlo.


Rinnegare

(79) Si può dire che un errore si dimostra tale quando si è costretti dalla sua logica a dimenticare o a rinnegare qualcosa.

(99) Quello che Adorno chiama «ossessione» è la struttura dell’uomo, è quello che chiamavamo «cuore» o esperienza elementare: negarla è rinnegare qualcosa, è irragionevole, è disumano.

Più pacatamente Pavese (in Il mestiere di vivere) accennava la stessa tristezza:

«E allora, perché attendiamo?»

Ecco l’ossessione: è la struttura della nostra vita che è promessa, come abbiamo già visto; l’inevitabilità delle domande profonde è l’ìemergere della promessa.

Dimenticare o rinnegare, questo è l’irrazionale.

(102) Pavese in (Mestiere di vivere):

«Tu sei come terra che nessuno ha mai detto».

Ci sei, dunque dipendi da qualcosa di Ultimo; per negarlo, devi rinnegare questo «Tu» che è la parola più secondo natura emergente dalle profondità delle origini.

Ed è rinnegare la natura dire : «Tu non attendi nulla».

(137) Ma che la ragione si senta «forzata» a cercare altri principi, tale costrizione è implicata nell’esperienza, è un fattore dell’esperienza stessa; negare questo passaggio è andare contro l’esperienza stessa; negare questo passaggio è andare contro l’esperienza, è rinnegare qualcosa implicata in essa.

(139s) Se io spalancassi per la prima volta gli occhi in questo istante uscendo dal seno di mia madre, io sarei dominato dalla meraviglia e dallo stupore delle cose come di una «presenza».

(140) L’essere: non come entità astratta, ma come presenza, presenza che non faccio io, che trovo, una presenza che mi si impone.

Chi non crede in Dio è inescusabile, diceva san Paolo nella lettera ai Romani (1, 19-21), perché deve rinnegare questo fenomeno originale, questa originale esperienza dell’«altro».

(190) Quando la ragione dell’uomo dice: «Il significato della mia vita è…», «il significato del mondo è…» identifica inevitabilmente questo è: il sangue della razza tedesca, la lotta del proletariato, la competizione per la supremazia economica, ecc..

Ogni volta che questo è identificherà un contenuto di definizione, inevitabilmente partirà da un certo punto di vista.

Non potrà che pretendere la totalità per un particolare; un particolare del tutto viene pompato a definire la totalità.

Allora questo punto di vista cercherà di far stare dentro la sua prospettiva ogni aspetto della realtà.

E siccome è un particolare della realtà, questo far rientrare tutto dentro di esso non potrà che far rinnegare o dimenticare qualche cosa.

Non potrà che ridurre, negare e rinnegare il volto completo e complesso della realtà.


Rischio

(179ss) L’inevitabile esperienza del rischio.

La facilità suprema a cogliere l’esistenza di Dio viene identificata con l’immediatezza nel percepire l’esistenza di se stessi.

Infatti Dio è l’implicazione più immediata della coscienza di sé.

(180) Inevitabile conseguenza del rapporto con Dio, mediato dal fenomeno del segno, è una esperienza che io chiamo l’esperienza del rischio.

Il rischio non è un gesto o una azione che non abbia ragioni adeguate, perché allora non è un rischio, è irrazionalità.

(Esempio di una scalata di Giussani piccolo che preso dal panico si bloccò). Questo panico eccezionale mi ha fatto capire molti anni dopo che cosa sia l’esperienza del rischio.

Non fu l’assenza di ragioni a bloccarmi; ma le ragioni erano come scritte nell’aria, non mi toccavano.

(181) E’ una iato, un abisso, un vuoto tra l’intuizione del vero, dell’essere, data dalla ragione, percezione dell’essere, e la volontà che è affettività, cioè l’energia di adesione all’essere (Il cristianesimo indicherebbe in questa esperienza una ferita prodotta dal peccato originale).

Per cui uno vede le ragioni ma non si muove.

Non si muove, cioè manca dell’energia di coerenza: di coerenza, ma nel senso teorico di adesione intellettuale al vero fatto intravvedere dalle ragioni.

È questa coerenza che inizia l’unità dell’uomo.

La coerenza resta così l’energia con cui l’uomo prende sé stesso e aderisce «si incolla» a ciò che la ragione gli fa vedere.

Invece avviene una spaccatura tra la ragione e l’affettività, tra la ragione e la volontà: questa è l’esperienza del rischio.

Ho fatto il paragone dell’uomo che si deve sposare, ma evidentemente incide molto di più il problema del significato totale del vivere, l’esistenza di Dio.

Qui è grave una divisione fra l’energia di adesione all’essere e la ragione come scoperta dell’essere: qui il fuoco di fila dei «ma», «se», però, «forse» fa da linea di fuoco che fronteggia la ritirata del proprio impegno con il mistero.

È l’immoralità suprema di fronte al destino.

(182) Ecco la vera definizione dell’esperienza del rischio: una paura di affermare l’essere, strana, perché estranea alla natura, è contraddittoria con la nostra natura.

C’è in natura un metodo che riesce a darci questa energia di libertà che ci fa superare, attraversare la paura del rischio.

Per superare il baratro dei «ma», «se», «però» il metodo usato dalla natura è il fenomeno comunitario.

(183)  La  comunità è la dimensione e la condizione perché il seme umano dia il suo frutto.

Il vero dramma sta nella volontà che deve aderire a questa immensa evidenza.

La drammaticità è definita da quello che io chiamo rischio.

L’uomo subisce l’esperienza del rischio: pur essendo di fronte alle ragioni, è come bloccato, gli occorrerebbe un supplemento di energia e di volontà, di energia di libertà, perché la libertà è la capacità di adesione all’essere.

(184) Questa energia di libertà più adeguata emerge laddove l’individuo vive la sua dimensione comunitaria.

In tal senso mira il paradosso di Chesterton: «Non è vero che uno più uno fa due; ma uno più uno fa duemila volte uno».

Anche questo rivela il genio di Cristo che ha identificato la Sua esperienza religiosa con la Chiesa: «Là dove saranno due o tre riuniti nel mio nome, io sarò con loro».


Risposta

(61ss) S. Paolo nel discorso davanti all’Aeropago, quando discorre con gli ateniesi della ricerca di una risposta alle domande ultime che fanno parlare il fondo del nostro essere, le identifica con quella energia che signoreggia, provocandola, sostenendola, ridefinendola continuamente, tutta la mobilità umana, compresa la mobilità stessa dei popoli, questo loro girovagare per il mondo «alla ricerca di dio» di lui «che dà a ognuno la vita, il respiro, tutto».

L’esigenza di una risposta totale.

In quelle domande l’aspetto decisivo è offerto dagli aggettivi e dagli avverbi: qual è il senso ultimo della vita, in fondo in fondo di che cosa è fatta la realtà? Per che cosa vale veramente la pena che io sia, che la realtà sia?» Sono domande che esauriscono l’energia, tutta l’energia di ricerca della ragione.

Sono domande che esigono una risposta totale che copra l’intero orizzonte della ragione, esaurendo tutta la «categoria della possibilità».

(62) Se solo rispondendo a mille domande fosse esaurito il senso della realtà, e l’uomo trovasse la risposta a novecentonovantanove di esse, sarebbe più irrequieto e insoddisfatto come fosse da capo.

(63) Quanto più l’uomo si addentra nel tentativo di rispondere a quelle domande, tanto più ne percepisce la potenza e tanto più scopre la propria sproporzione alla risposta totale.

L’inesauribilità delle domande esalta la contraddizione fra l’impeto della esigenza e la limitatezza della misura umana nella ricerca.

(64) L’inesauribilità della risposta alle esigenze costitutive del nostro io è strutturale, cioè inerente alla nostra natura che ne rappresenta la caratteristica d’essere.

(65) Fra un milione di anni la questione posta da quella domanda sarà caso mai esasperata, non risposta.

In un capitolo del suo libro Dalla scienza alla fede iil grande matematico Francesco Severi, amicissimo di Einstein dice che […] quanto più la sua indagine procedeva, tanto più l’orizzonte cui perveniva si palesava come rimando a un altro orizzonte, facendogli percepire la sua conquista come sola funzione che lo sospingeva ulteriormente verso una X, un quid che era al di là delle condizioni in cui agiva.

Quando la ricerca giungeva a un certo termine, l’oggetto dell’azione, la X si spostava.

Si potrebbe segnare così questo processo

(66) La R è l’energia indagatrice dell’umana ragione e libertà; e la X il traguardo provvisorio sempre teso ad una ulteriore incognita.

(75s) Se la natura dell’uomo è indomabilmente alla ricerca di una risposta; se la struttura dell’uomo dunque è questa domanda irresistibile ed inesauribile, si sopprime la domanda se non si ammette l’esistenza di una risposta.

E questa risposta non può che essere insondabile.

Solo l’esistenza del mistero è adeguata alla struttura di mendicanza che l’uomo è.

Egli è insaziabile mendicanza e ciò che gli corrisponde è qualcosa che non è se stesso, che non si può dare , che non può misurare, che l’uomo non sa possedere.

(76) Il senso religioso, come emerge alla nostra coscienza è domanda di totalità costitutiva della nostra ragione, cioè della capacità che l’uomo ha di conoscenza, della sua apertura a inoltrarsi e ad abbracciare sempre più la realtà.

Per ciò stesso che un uomo vive pone questa domanda, perché è la radice della sua coscienza del reale.

E non solo pone la domanda, ma vi risponde, affermando un «ultimo»: perché per ciò stesso che uno vive cinque minuti afferma l’esistenza di un quid per cui valga la pena in fondo in fondo vivere quei cinque minuti.

È il meccanismo strutturale della ragione, è una implicazione inevitabile.

Perciò a quelle domande costitutive noi diamo risposta: coscientemente od esplicitamente; o praticamente e inconsciamente.

L’affermazione dell’esistenza di una risposta, come implicata nel fatto stesso della domanda può essere simboleggiata nella lettura della formula:

(81) Se la natura mi mette dentro una spinta assai più potente che non quella di un missile, una spinta così radicale che mi costringe, perché la risposta a essa deve rappresentare una meta impossibile così che sia inutile parlarne?

(103) (A proposito dell’ideale di «progresso») E’ impossibile far consistere la risposta a quelle domande in una realizzazione che tocchi una collettività in un ipotetico futuro, senza dissolvere l’identità dell’uomo, senza alienarlo in una immagine, dove la trama profonda di urgenze ed esigenze del suo io resta inevasa, frustrata.

Le domande sono il mio io; e nella soluzione progressista l’io non ha risposta, è alienato.

(162) Se si vuole salvare la ragione, cioè se vogliamo essere coerenti con questa energia che ci definisce, se vogliamo non rinnegarla, il suo stesso dinamismo ci costringe ad affermare quella risposta esauriente al di là dell’orizzonte della nostra vita.

(177) Nel bambino tutto è curiosità: attesa e domanda.

Nell’uomo è attesa e ricerca. Deve trattarsi di una reale ricerca: la falsa ricerca butta sulla realtà interrogativi da cui non aspetta risposta.

La ricerca per la ricerca è per una voluta falsa risposta.

(199) Perché è in forza della sua natura, per non sopprimersi come natura, che a questo punto la nostra ragione, la nostra umanità intuisce la risposta implicata nel proprio dinamismo; risposta che esiste per ciò stesso che questa esigenza esiste.

(203) In secondo luogo questa ipotesi (la Rivelazione) è estremamente conveniente.

Conveniente è una ipotesi di che incontri il desiderio dell’uomo, adatta al cuore e alla natura dell’uomo.

Sommamente con-veniente è una risposta alla attesa normalmente inconscia.


Rivelazione

(188)  Genesi 32, 25-33 (La lotta di Giacobbe al guado): «Sei grande Giacobbe! Non ti chiamerai più Giacobbe, ma ti chiamerai Israele, che significa: “Hai lottato con Dio”».

Questa è la statura dell’uomo nella rivelazione ebraico – cristiana.

La vita, l’uomo è lotta, cioè tensione, rapporto nel “buio” con l’al di là; una lotta senza vedere il volto dell’altro.

Chi giunge a percepire questo di sé è un uomo che se ne va tra gli altri zoppo, vale a dire segnato: non è più come gli altri uomini, è segnato.

(196) Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae, I, q. 1, art.1):

«Per rendere questa salvezza universale e più certa, sarebbe dunque stato necessario insegnare agli uomini la verità divina con una divina rivelazione».

(201 ss) All’estremo della esperienza della vita, all’estremo della coscienza sofferta e appassionata dell’esistenza si sprigiona, malgrado l’uomo stesso, questo grido della umanità più vera, come un implorazione, una mendicanza; si sprigiona la grande ipotesi che si possa

« … fare il passaggio con qualche più solido trasporto, con l’aiuto cioè della rivelata parola di un dio» (Fedone di Platone).

In termini propri si chiama ipotesi della rivelazione.

La parola rivelazione ha un senso lato, più largo e generico: il mondo è questa rivelazione del Dio, del mistero.

La realtà è un segno interpretando il quale la coscienza dell’uomo capisce l’esistenza del mistero.

Il tal senso il mondo è strutturalmente la rivelazione di Dio.

(202) Ma in senso proprio «rivelazione» non è più il termine di una interpretazione che l’uomo fa sulla realtà, sulla natura dell’uomo alla ricerca del suo significato: invece si tratta si un possibile fatto reale, un eventuale avvenimento storico.

Un fatto che l’uomo può riconoscere o meno.

Ma che Dio, in qualche modo, entri nella storia dell’uomo come un fattore interno alla storia, non come ultima sponda al di là delle apparenze che l’uomo deve trapassare, ma una presenza dentro la storia, che parla come parla un amico, un padre, una madre, questa è la rivelazione a cui aspirava il Fedone di Platone.

Questa è l’ipotesi eccezionale, questa è la rivelazione in senso stretto: lo svelarsi del Mistero attraverso un fattore della storia col quale, nel caso del cristianesimo, si identifica.

Un simile ipotesi primo è possibile, secondo è conveniente due condizioni che questa ipotesi deve rispettare.

(203)

  1. Se deve essere veramente rivelazione, come parola in più di quello che il mondo già dice al nostro cuore indegno e alla nostra intelligenza indagatrice, deve essere una parola comprensibile all’uomo. Perciò la rivelazione, in senso stretto, per essere tale, per raggiungere qualche cosa alla rivelazione enigmatica del mondo, deve essere tradotta in termini comprensibili a noi. Altrimenti resterebbe come un ultrasuono: sarebbe come se non ci fosse.
  2. Nonostante che sia tradotta in termini umani, il risultato della rivelazione deve essere l’approfondimento del mistero come mistero. Il suo risultato non deve essere una riduzione del mistero, quasi che l’uomo possa dire: «Ho capito», ma un approfondirsi del mistero.  Per cui lo si conosce o lo si conosce sempre più come mistero. Per esempio: il mondo e la mia vita dipendono da Dio. E questo è vero. Ma se invece della parola enigmatica «mistero», come suggerisce la realtà, tu usi la parola «Padre», come ti suggerisce la Rivelazione, allora abbiamo un termine comprensibilissimo alla nostra esperienza. …..

Dio è Padre come nessun altro è padre.

Il termine rivelato porta il mistero più dentro di te, più vicino alla tua carne e alle tue ossa, e lo senti veramente familiare come per un figlio.

(205) L’impossibilità di una Rivelazione è il dogma fondamentale del pensiero illuministico, il tabù predicato da tutta la filosofia liberale e dai suoi eredi materialisti.

L’affermazione di questa impossibilità è l’estremo tentativo che la ragione fa per dettare essa stessa la misura del reale e quindi la misura del possibile e dell’impossibile nella realtà.

Ma l’ipotesi della Rivelazione non può essere distrutta da alcun preconcetto o da alcuna opzione.

Essa pone una questione di fatto, cui la natura del cuore è originalmente aperta.

Occorre per la riuscita della vita che questa apertura rimanga determinante.

Il destino del “senso religioso” è totalmente legato ad essa.

Questo è il confine dell’umana dignità:

«Anche se la salvezza non viene, voglio però esserne degno a ogni momento» (Kafka).

ABCDEFGILM/NOPRSTUV





Temi degli ESERCIZI – Collana “Cristianesimo alla prova”


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