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Lettera «V»
Libro “Il Senso Religioso” di don Luigi Giussani
Valore
(34) Chiameremo “valore” l’oggetto della conoscenza in quanto interessa la vita della ragione.
Il valore è la realtà conosciuta proprio in quanto interessa, in quanto val la pena.
Se uno ha una mente ristretta, un cuore meschino, l’ambito del valore sarà più ristretto, che neanche per chi abbia un animo grande, per chi sia un uomo vivace.
Il Vangelo ci ricorda che per il Signore anche il più piccolo fiore di prato, che l’uomo calpesta senza accorgersi, è grande valore.
Il valore dell’oggetto conosciuto, dunque, secondo la posizione e il temperamento dell’uomo, lo tocca in modo da provocare quella emozione che noi abbiamo individuato con la parola sentimento.
(35s) Quanto più una cosa interessa l’individuo, quanto più , cioè, è valore, e quanto più è vitale, tanto più potente genera uno stato d’animo, una reazione di simpatia o antipatia, tanto più genera sentimento, e tanto più la ragione è condizionata da questo sentimento per la conoscenza di quel valore.
Allora la cultura razionalistica può dire: è chiaro che con quel tipo di oggetti la certezza obiettiva non si può raggiungere, perché gioca troppo il isentimento.
Se chiamiamo «R» (ragione) l’energia conoscitiva del soggetto umano e se chiamiamo «V» (valore) la realtà da conoscere in quanto di fatto penetra nell’orizzonte dell’umano interesse, la «R» non potrà mai avere una idea chiara e oggettiva della (V) per la presenza intermediaria e alterante della (S) (sentimento)
.
(38) La «S», cioè il sentimento, va immaginata come una lente: l’oggetto da questa lente viene convogliato più vicino all’energia conoscitiva dell’uomo: la ragione lo può conoscere più facilmente e più sicuramente; allora la «S» è una condizione importante per la conoscenza; il sentimento è un fattore essenziale alla visione.
Il problema cioè non è che il sentimento venga eliminato, ma che il sentimento sia al suo posto giusto.
(42) Quanto più il valore è vitale, quanto più è per sua natura proposta alla vita, tanto più il problema non è di intelligenza ma di moralità cioè di amore alla verità più che sé stessi.
Verità
(23ss) Se io dico: (a+b)(a-b)= a2-b2, io affermo un valore algebrico o matematico, un valore cioè che appartiene al campo delle verità matematiche.
L’acqua è H2O. Non instauro un cammino come in matematica: prendo un alambicco e raccolgo l’esito della distillazione!
Io faccio un cammino, arrivo a un certo punto e ho l’evidenza, lo spettacolo della verità, l’evidenza, l’identità.
Allora la ragione, come capacità di rendersi conto del reale o dei valori, cioè del reale in quanto entra nell’orizzonte umano, per conoscere certi lavori o tipi di verità segue un certo metodo, per un altro tipo di verità segue un altro metodo, per un altro tipo di verità segue un altro metodo ancora: sono metodi diversi.
(24) La ragione affronta l’oggetto secondo passi e motivi adeguati, sviluppando cammini diversi secondo l’oggetto (il metodo è imposto dall’oggetto).
La ragione così non è anchilosata, non è rattrappita come l’ha immaginata tanta filosofica moderna che l’ha ridotta a una sola mossa, «la logica», o a un tipo di fenomeno solo, una certa capacità di «dimostrazione empirica».
(25) E’ molto bello che si sia scoperto che la terra gira intorno al sole e non viceversa, perché è un aspetto della verità.
Però per quanto riguarda la vita, cioè il problema del mio rapporto con il destino, non è tutto, anzi con il mio problema totale c’entra poco.
(26) Un ambito di realtà cui la nostra coscienza può rendersi conto è dunque il campo delle realtà o verità «morali»; morali nel senso etimologico, in quanto cioè definiscono l’umano comportamento che in latino si dice mores.
Nella scoperta di verità e di certezze sul comportamento umano la ragione deve essere usata in modo diverso, altrimenti non è più ragionevole: ad esempio, pretendere di definire l’umano comportamento attraverso un metodo scientifico non sarebbe un processo adeguato.
(42ss) Nella applicazione al campo della conoscenza questa è la regola morale:
l’amore alla verità dell’oggetto più di quanto si sia attaccati alle opinioni che già ci siamo fatti su di esso.
Quanto più il valore è vitale, quanto più è per sua natura proposta alla vita, tanto più il problema non è di intelligenza ma di moralità, cioè di amore alla verità più che a sé stessi.
Io aderisco a Cristo perché è la verità.
(43) La povertà di spirito suprema è quella di fronte alla verità, è quella che desidera la verità e basta, al di là di tutto l’attaccamento che vive, prova, sente ed esperimenta alle immagini che già si è fatte sulle cose.
Il Signore ha dato un esempio di amore alla verità: «Se non sarete come bambini non entrerete nel regno dei cieli»(Mt 18,3).
È chiaro che amare la verità più che non l’idea che già ci siamo fatti su di essa, vuol dire essere liberi da preconcetti.
(44) Così dico che per amare la verità più di sé stessi, per amare la verità dell’oggetto più dell’immagine che ci siamo fatti su di esso, per questa povertà di spirito, per questo occhio sgranato di fronte al reale e alla verità come quello del bambino, occorre un processo e un lavoro.
Anche qui il processo faticoso si chiama «ascesi».
Ma che cosa può persuadere a questa ascesi, a questo lavoro e allenamento? L’uomo infatti solo da un amore e da una affezione è mosso.
È l’amore a noi stessi come destino, è affezione al nostro destino
È questa commozione ultima, è questa emozione suprema che persuade alla virtù più vera.
(45) Noi siamo fatti per la verità, intendendo per verità la corrispondenza tra coscienza e realtà, così come abbiamo visto essere la natura del dinamismo razionale.
Non sarà inutile ridire che il vero problema per ciò che concerne la ricerca della verità sui significati ultimi della vita non è quello di una particolare intelligenza che occorra o di uno speciale sforzo o di eccezionali mezzi necessari da usarsi per raggiungerla.
La verità ultima è come trovare una bella cosa sul proprio cammino: la si vede e la si riconosce se si è attenti.
Il problema dunque è tale attenzione.
(120s) La libertà è il paragone con il destino: è questa aspirazione totale al destino.
Così la libertà è l’esperienza della verità di sé stessi.
(121) Per questo il Signore diceva: «La verità vi farà liberi»(Gv 8,32).
Se Dio è la verità, posso dire a Dio: la mia verità sei Tu, il mio io sei tu.
Un Altro è questa verità di me stesso: questa pienezza del mio essere sei Tu. Perciò
la libertà è la capacità di Dio.
La fede è un gesto di libertà fondamentale e la preghiera è la costante educazione del cuore, dello spirito alla autenticità umana, alla libertà.
(157s) La prima categoria è l’esigenza della verità: cioè semplicemente l’esigenza del significato delle cose, dell’esistenza.
Perché la verità della macchina è il suo significato, vale a dire appunto la risposta a quella domanda: «qual è la sua funzione?».
L’esigenza della verità implica sempre allora l’individuazione della verità ultima, perché non si può veramente definire una verità parziale se non in rapporto con l’ultimo.
Non si può conoscere alcuna cosa se non in un veloce, implicito finché si vuole, rapporto tra essa e la totalità.
L’esigenza della verità implica, sostiene e trapassa anche la diuturna curiosità con cui l’uomo scende più dettagliatamente nella struttura del reale.
(158) Il vero: il significato reale di ogni cosa sta nel suo percepito nesso con la totalità, con il fondo, con l’ultimo.
(Platone in Simposio) Socrate:
«Amici, non è forse vero che quando parliamo della verità dimentichiamo anche le donne?»
(196) San Tommaso d’Aquino in Summa Theologiae :
«La verità che la ragione potrebbe raggiungere su Dio sarebbe di fatto per un piccolo numero soltanto, e dopo molto tempo e non senza mescolanza di errori. D’altra parte, dalla conoscenza di questa verità dipende tutta la salvezza dell’essere umano, poiché questa salvezza è in Dio. Per rendere questa salvezza più universale e più certa, sarebbe dunque stato necessario insegnare agli uomini la verità divina con una divina rivelazione»
(199) La natura nostra è esigenza di verità e di compimento, vale a dire felicità.
Vivere
(26ss) Uno potrebbe benissimo vivere senza filosofia, senza sapere che la terra gira intorno al sole: l’uomo non può vivere invece senza certezze morali.
(27) Tanto è vero che l’incertezza nei rapporti è uno dei malanni più terribili della nostra società.
Si vive come con il mal di mare.
(47) Vale a dire: da questo uno capisce di esistere – di vivere, dal fatto che pensa, sente e compie altre simili attività.
(76) Per ciò stesso che un uomo vive pone questa domanda, perché è la radice della sua coscienza del reale.
Perciò stesso che uno vive cinque minuti, afferma l’esistenza di un quid per cui valga la pena in fondo in fondo vivere quei cinque minuti.
(105) Claudel in «L’Annuncio Maria» –
Anna Vercors: «Forse che scopo della vita è vivere? Non vivere ma morire…e dare in letizia ciò che abbiamo. Qui sta la gioia, la libertà, la grazia, la giovinezza eterna» – «Che vale il mondo rispetto alla vita? E che vale la vita se non per essere data?».
(150s) La formula dell’itinerario al significato ultimo della realtà qual è? Vivere il reale.
L’unica condizione per essere sempre e veramente religiosi è vivere intensamente il reale.
La formula dell’itinerario al significato della realtà è quella di vivere il reale senza preclusioni, cioè senza rinnegare o dimenticare nulla.
(151) Quanto più uno vive intensamente il livello di coscienza, che abbiamo descritto, nel rapporto con le cose, tanto più vive intensamente il suo impatto con la realtà e tanto più incomincia a conoscere qualcosa del mistero.
È segno degli spiriti grandi e degli uomini vivi l’ansia della ricerca attraverso l’impegno con la realtà della loro esistenza.
Il mondo, questa realtà in cui ci impattiamo, è come se nell’impatto sprigionasse una parola, un invito, facesse sentire il significato.
(179) Occorre osservare che la cosa più necessaria per vivere la natura, la natura rende all’uomo assolutamente facile percepirle.
Di tutte le cose necessarie per vivere quella più necessaria è l’intuizione dell’esistenza del perché, del significato e l’esistenza di Dio.
Nella sua «Apologia pro vita sua» il grande Newman dice che a quindici anni, andando per strada, fu come folgorato dall’intuizione che c’erano «due soli essere auto evidenti: io e Dio».
La facilità suprema a cogliere l’esistenza di Dio viene identificata con l’immediatezza nel percepire l’esistenza di sé stessi.
Infatti Dio è l’implicazione più immediata della coscienza di sé, come abbiamo visto.
(200) E siccome uno non può vivere cinque minuti senza in qualche modo affermare un quid ultimo, per il quale valga la pena vivere quei cinque minuti, l’inesorabile esigenza e urgenza del significato genera come un’ansia, una paura o un terrore, e nel terrore l’uomo è mal consigliato.
Ed è spinto ad identificare l’assoluto, il sicuro con qualcosa di sperimentato nella sua esistenza, a identificare ciò per cui vale la pena con qualche aspetto, con l’aspetto più rassicurante della sua esperienza.
Il dio diventa idolo.
Volontà
(81s) Dewey:
«Abbandonare la ricerca della realtà e del valore assoluto e immutabile, può sembrare un sacrificio, ma questa rinuncia è la condizione per impegnarsi in una vocazione più vitale. La ricerca dei valori che possono essere assicurati e condivisi da tutti perché connessi alla vita sociale, è una ricerca in cui la filosofia non troverà rivali ma coadiutori negli uomini di buona volontà».
(82) Ma abbandonare la ricerca della realtà, del valore assoluto e immutabile è un sacrificio tale per cui la gente si può ammazzare.
(83) (Se la volontà è il criterio) L’energia che ci fa agire si riduce ad una affermazione di sé.
Lo strumento per l’affermazione di noi stessi è la volontà: perciò si può trattare solo di energia, di una affermazione volontaristica.
Essa può prendere spunto:
- Da un gusto di prassi volontaristica
- Da un sentimento utopico
- Da un progetto sociale
(92) Il piccolo signor Friedman ……. Inconsapevolmente tutta la sua intelligenza, la sua forza di volontà a costruirsi un modus vivendi in cui gli urti dell’istinto, delle attrattive, delle proposte, non potessero turbarlo: capiva d’intuito che non poteva concedersi quello che si sarebbero concesso gli altri uomini.
Perciò si era come abituato a misurarsi.
Simbolicamente, mai attore nella vita, ma spettatore: ideale di questa atarassia infatti è quello di rendersi il più possibile spettatore della fervidità equivoca e pericolosa della vita.
Ma un innamoramento assurdo, assolutamente imprevedibile e fuori luogo, ha distrutto quell’ordine, prima perfettamente dominato, in pochi giorni, anzi in un attimo.
E tutta l’energia della atarassia, tutta l’intelligenza e la forza con cui si era costruito, di schianto fiaccate, lo riducono solo a essere un freddo suicida.
(119) L’ascesi è un applicazione che l’uomo fa delle sue energie in un lavoro su sé stesso, intelligenza e volontà.
(181) (Esperienza del rischio) E’ uno iato, un abisso, un vuoto tra l’intuizione del vero, dell’essere, data dalla ragione, e la volontà: una dissociazione tra la ragione, percezione dell’essere, e la volontà che è affettività, cioè energia di adesione all’essere.
Avviene una spaccatura tra la ragione e l’affettività, tra la ragione e la volontà: questa è l’esperienza del rischio.
(182) (Giussani racconta la scalata dove si bloccò per la paura nonostante fosse accompagnato) «mi sarei» staccato solo con un enorme sforzo di volontà. Ma questa forza di volontà non l‘avevo: e non sta in essa la soluzione.
Solo una enorme energia potrebbe far aderire a delle ragioni che sembrano astratte.
Solo una grande forza di volontà potrebbe far superare una paura di affermare l’essere.
Questa paura dunque sarebbe vinta dallo sforzo di volontà, cioè dalla forza della libertà; ma è altamente improbabile.
Per superare il baratro dei «ma» e dei «se» e dei «però» il metodo usato dalla natura è il fenomeno comunitario.
La dimensione comunitaria rappresenta non la sostituzione della libertà, non la sostituzione dell’energia e decisione personale, ma la condizione dell’affermarsi di essa.
(183) Il vero dramma del rapporto fra l’uomo e Dio, attraverso il segno del cosmo, attraverso il segno dell’esperienza, non sta nella fragilità delle ragioni, perché tutto il mondo è una grande ragione, e non esiste sguardo umano sulla realtà che non senta la provocazione di questa prospettiva che lo supera.
Il vero dramma sta nella volontà che deve aderire a questa immensa evidenza.
La drammaticità è definita da quello che io chiamo rischio.
L’uomo subisce l’esperienza del rischio: pur essendo di fronte alle ragioni, è come se non si sentisse di muoversi, è come bloccato, gli occorrerebbe un supplemento di energia e di volontà, di energia di libertà, perché la libertà è la capacità di adesione all’essere.
Questa energia di libertà più adeguata emerge laddove l’individuo vive la sua dimensione comunitaria.
(199ss) L’esistenza di questa incognita suprema da cui tutto dipende nella storia e nel mondo è il vertice e la vertigine della ragione.
Ciò significa infatti che idealmente l’uomo, il quale viva la capacità della sua statura fino a questo punto, dovrebbe essere un uomo alla mercé, con tutta la sua volontà di vita, con tutta la sua affezione al reale, istante per istante, totalmente sospeso a questa incognita suprema, ineffabile.
(200) Il quale, come palesa all’uomo la sua volontà, come assicura il piano intelligente che assicura il significato di tutto?
La comunicazione avviene attraverso la casualità apparente delle circostanze, i condizionamenti banali, da cui ogni istante dell’uomo è determinato.
Che paradosso! Per seguire l’assoluta luce del significato occorrerebbe una obbedienza istante per istante, come di chi navighi nella nebbia assoluta.
Occorre un grande coraggio: come quello di Giacobbe di cui abbiamo parlato.
Tutta la notte, cioè il tempo dell’esistenza, vissuta in tensione con questa Presenza inafferrabile, indecifrabile, di cui non si conosce il volto.
All’uomo viene il capogiro.
E così la storia è come un grande film di tutto questo decadere umano pur dentro la spinta ideale che lo provoca. […] ed è spinto a identificare l’assoluto […] con l’aspetto più rassicurante della sua esperienza.
(201) È inevitabile storicamente che l’uomo a un certo punto indentifichi con una propria immagine l’assoluto.
All’estremo della esperienza della vita, all’estremo della coscienza sofferta e appassionata dell’esistenza si sprigiona, malgrado l’uomo stesso, questo grido dell’umanità più vera, come una implorazione, una mendicanza; si sprigiona la grande ipotesi che non si possa «fare il passaggio con qualche più solido trasporto, con l’aiuto cioè della rivelata parola di un dio».
In termini propri si chiama ipotesi della rivelazione.
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I Temi di alcuni libri di don Giussani
- TEMI – Il senso religioso
- TEMI – All’origine della pretesa cristiana
- TEMI – Perché la Chiesa
- TEMI – Il rischio educativo
- TEMI – Generare tracce nella storia del mondo
- TEMI di Si può vivere così?
- TEMI di Si può (veramente) vivere così?
Temi degli ESERCIZI – Collana “Cristianesimo alla prova”
- TEMI – Un strana compagnia (82-83-84)
- TEMI – La convenienza umana della fede (85-86-87)
- TEMI – La verità nasce dalla carne (88-89-90)
- TEMI – Un avvenimento nella vita dell’uomo (91-92-93)
- TEMI – Attraverso la compagnia dei credenti (94-95-96)
- TEMI – Dare la vita per l’opera di un Altro (97-98-99)
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