A–B–C–D–E–F–G–I–L–M/N–O–P–R–S–T–U–V
Lettera «D»
Libro “Il Senso Religioso” di don Luigi Giussani
Links ai singoli temi
- Decisione
- Dedizione
- Definire/definizione
- Desiderio
- Destino
- Dimenticanza/dimenticare
- Dimostrabile/dimostrazione
- Dio/dio
- Dipendenza
- Disperazione
- Distacco
- Distrazione
- Disumano
- Divino
- Dolore
- Domanda
- Domande (costitutive)
- Dono
- Drammaticità
- Dubbio
Decisione
(54) Un’altra identificazione di immutabilità oltre che nell’idea e nel giudizio sta nel fenomeno della decisione.
Non mutevoli si riscontrano idea, giudizio, decisione.
(170s) Ed ecco l’alternativa in cui l’uomo quasi impercettibilmente l’uomo si gioca: o tu vai di fronte alla realtà spalancato, con gli occhi sgranati di un bambino, lealmente, dicendo pane al pane e vino al vino, e allora abbracci tutta la sua presenza ospitandone anche il senso; o ti metti di fronte alla realtà difendendoti, quasi con il gomito davanti al viso per evitare i cilpi sgraditi ed inattesi, chiamando la realtà al tribunale del tuo parere.
La decisione che ho descritta è di fronte al reale, tutto.
(171) In tale decisione la ragionevolezza, l’umano intero, è chiaro dove stia: in ciò che è aperto e dice pane al pane e vino al vino.
È il povero di spirito, colui che di fronte alla realtà non ha da difendere nulla.
Perciò afferra tutto come è, segue l’attrattiva della realtà secondo le sue implicazioni totali.
(183) La dimensione comunitaria rappresenta non la sostituzione della energia e della decisione personale, ma la condizione dell’affermarsi di essa.
La comunità è la dimensione e la condizione perché il seme umano dia il suo frutto.
Dedizione
(121)
Molto più profondamente che una capacità di scelta, la libertà è umile e appassionata dedizione totale a Dio nella vita quotidiana.
Definire-definizione
(26) Un ambito di realtà di cui la nostra coscienza può rendersi conto è dunque il campo delle realtà o verità morali; morali nel senso etimologico, in quanto definiscono l’umano comportamento che in latino significano mores.
Pretendere di definire l’umano comportamento attraverso un metodo scientifico non sarebbe un processo adeguato.
(54) Se dico «voglio bene a questa persona», la definizione del rapporto che la mia libertà sceglie sta come tale, senza che tempo e misura entrino nella definizione strutturale dell’atto.
Non mutevoli si riscontrano dunque idea, giudizio, decisione.
Sono fenomeni il cui contenuto di realtà non è misurabile, divisibile.
(119s) Se io chiedessi che cosa è la libertà, la stragrande maggioranza risponderebbe secondo immagini, definizioni e sensazioni determinate dalla mentalità comune.
La definizione delle parole più importanti della vita, se viene determinata dalla mentalità comune assicura la schiavitù totale, l’alienazione totale.
Che cosa sia l’amore tra uomo e donna, che cosa sia la paternità, la maternità, che cosa sia l’obbedienza, la compagnia, la solidarietà e l’amicizia, che cosa sia la libertà, tutto ciò genera nella maggioranza della gente una immagine o una opinione o una definizione mutuate letteralmente dalla mentalità comune, vale a dire dal potere.
È una schiavitù da cui non ci si libera automaticamente, ci si libera con una ascesi.
L’ascesi è una applicazione che l’uomo fa delle sue energie in un lavoro su se stesso, intelligenza e volontà.
Come facciamo dunque a sapere che cosa è la libertà?
L’esperienza è descritta innanzitutto dall’aggettivo corrispondente, perché l’aggettivo è la descrizione veloce e sommaria di una esperienza vissuta; Il sostantivo poi sarà come una tentata definizione dell’aggettivo.
(120) Così per capire che cos’è la libertà noi dobbiamo partire dalla esperienza che abbiamo nel sentirci liberi.
La libertà si annuncia esperienza nella nostra esistenza come realizzazione di un bisogno o realizzazione di una aspirazione, come compimento.
Il compimento totale di sé, questa è la libertà.
La libertà è il paragone con il destino: è questa aspirazione totale al destino.
Così la libertà è l’esperienza della verità di se stessi.
(157) L’esigenza della verità implica sempre allora l’individuazione della verità ultima, perché non si può veramente definire una verità parziale se non in rapporto con l’ultimo.
Non si può conoscere alcuna cosa se non in un veloce, implicito finché si vuole, rapporto tra essa e la totalità.
Senza intravvedere la prospettiva ultima, le cose divengono mostruose.
(190s) Ogni volta che questo identificherà un contenuto di definizione, inevitabilmente partirà da un certo punto di vista.
Vale a dire, se l’uomo pretende la definizione del significato globale non può cadere nella esaltazione del suo punto di vista.
Non potrà che pretendere la totalità per un particolare, un particolare del tutto viene pompato a definire la totalità.
(191) Dove sta il pathos di questo atteggiamento?
Sta nel fatto che il senso religioso, cioè la natura dell’uomo nella sua statura ultima, identificherà il significato totale con qualcosa di comprensibile a sé.
La decadenza e la degradazione, la parabola che immediatamente, secondo una specie di forza di gravità, opera dentro la ragione, sta nella pretesa che la ragione sia la misura del reale, vale a dire che la ragione possa identificare, e quindi definire, quale sia il significato del tutto.
Pretendere di definire il significato del tutto in fondo che cosa vuol dire?
Pretendere di essere la misura di tutto, vale a dire, pretendere di essere Dio.
Desiderio
(67) Alla presunzione del potere, carica di censure e di rinnegamenti, corrisponde nel singolo, nell’uomo reale, la grande tristezza, carattere fondamentale della vita consapevole di sé, «desiderio di un bene assente» come diceva san Tommaso d’Aquino.
(120) Quanto più forte è il desiderio, tanta più grande è la personale esperienza di libertà (se esaudito).
(135)
L’uomo è quella minuscola particella che esige un significato, una ragione, la ragione.
E proprio perché accettiamo quello che siamo non possiamo censurare il desiderio, che ci urge come uno sprone.
(160) L’attrattiva di una bellezza segue una traiettoria paradossale: quanto più è bella, tanto più rimanda ad altro.
L’arte (pensiamo alla musica!), quanto più è grande, tanto più apre, non conclude, ma spalanca il desiderio, è segno di altro.
Il carattere esigenziale dell’esistenza umana accenna a qualcosa oltre sé come il suo senso, come il suo scopo.
Se venisse eliminata l’ipotesi di un «oltre», quelle esigenze sarebbero innaturalmente soffocate.
(185) La vita della ragione è data dalla volontà di penetrare l’ignoto (Ulisse dantesco), di passare oltre le colonne d’Ercole, simbolo del limite continuamente, strutturalmente posto dalla esistenza a questo desiderio.
Anzi è proprio la tensione a entrare in questo ignoto che definisce l’energia della ragione.
(187) La realtà nell’impatto con il cuore umano suscita le dinamiche che le colonne d’Ercole hanno suscitato nel cuore di Ulisse e dei suoi compagni, i volti tesi nel desiderio di un altro.
Per quelle faccie ansiose e quei cuori pieni di struggimento le colonne d’Ercole non erano un confine, ma un invito, un segno, qualcosa che richiama oltre sé.
(189) La Bibbia rivela che «un eccessivo attaccamento a sé» (la formula psicologica identica è nota: «amor proprio») spinge la ragione dell’uomo, nel suo desiderio appassionato, nella sua pretesa di capire questo supremo significato da cui tutti i tuoi atti dipendono, a dire, a un certo punto: «Ecco ho capito: il mistero è questo».
La ragione non tollera, impaziente, di aderire all’unico segno attraverso cui seguire l’Ignoto, segno così ottuso, così cupo, così non trasparente, così apparentemente casuale, come è il susseguirsi delle circostanze: è come sentirsi in balia di un fiume che ti trascina in qua e in là.
Destino
(14) Si potrebbe chiamare lavoro ascetico, dove con la parola ascesi si indica l’opera dell’uomo in quanto cerca la maturazione di sé, in quanto è direttamente centrato sul cammino al destino.
(25) E’ più importante per la mia percezione del reale, per il mio rapporto con il destino che questa donna mi voglia bene, che non la terra giri intorno al sole.
È molto bello che si sia scoperto che la terra gira intorno al sole e non viceversa, perché è un aspetto della verità.
Però, per quanto riguarda la vita, cioè il problema del mio rapporto con il destino, non tutto, anzi con il mio problema c’entra poco.
(43s) Perciò stesso che è uomo normale in condizioni normali, è tutto imbevuto come per osmosi di preconcetti, cioè di idee e immagini sui valori, sui significati delle cose, specialmente nei tre campi che ho menzionato, cioè destino, affettività, politica.
Allora il vero problema non è non avere preconcetti, anzi, lo ripeto, nella misura in cui un uomo fertile, potente, e vivace, in quella misura appena posto di fronte a problemi ha subito una sua reazione, anche come giudizio; si fa subito una immagine delle cose.
Si tratta invece di quel processo grande e semplicissimo di distacco da sé di cui parla il vangelo.
(44) L’amore che ci può persuadere a questo lavoro (ascetico – distacco doloroso) per arrivare ad una capacità abituale di distacco dalle proprie opinioni e dalle proprie immaginazioni (non di eliminazione ma di distacco da esse), così da porre tutta la nostra energia conoscitiva nella ricerca della verità dell’oggetto qualunque essa sia, è l’amore a noi stessi come destino, è
l’affezione al nostro destino.
È questa commozione ultima, è questa emozione suprema che persuade alla virtù più vera.
(49) La condizione per poter sorprendere in noi l’esistenza e la natura di un fattore portante, decisivo come il senso religioso, è l’impegno con la vita intera nella quale tutto va compreso: amore, studio, politica, denaro, fino al cibo e al riposo, senza nulla dimenticare, né la speranza, né l’amicizia, né il perdono, né la rabbia, né la pazienza.
Dentro infatti ogni gesto sta il passo verso il proprio destino.
(68) La tristezza insorge così dalla «forza operosa che ci affatica di moto in moto» (Foscolo, Dei sepolcri); e la «fatica» di Foscolo diventa il «fastidio», l’irrequietezza leopardiana desta da
«Uno spron [che] quasi mi punge / Sì che, sedendo, più che mai son lunge / da trovar pace e loco»(Leopardi, Canto notturno).
Essere consapevoli del valore di tale tristezza si identifica con la coscienza della statura della vita e con il sentimento del suo destino.
(72) L’ardore radicale, implacabile da cui si sprigiona l’inesauribile mossa umana alla ricerca del fondo ultimo delle cose – origine e destino – plasma in immagine stupenda la prima pagina di “Giuseppe e i suoi fratelli” di Thomas Mann.
(74) Se si guarda un uomo, una donna, un amico, un passante senza che echeggi in noi il riverbero di quelle domande, di quella sete di destino che lo costituisce, il nostro non sarebbe un rapporto umano, e tantomeno potrebbe essere un rapporto amoroso a qualunque livello: non rispetterebbe infatti la dignità dell’altro, non sarebbe adeguato alla dimensione umana dell’altro.
(76) Come l’occhio spalancandosi scopre forme e colori, così la ragione per ciò stesso che si mette in moto afferma un “ultimo”, una realtà ultima di cui tutti consiste, un destino ultimo, senso di tutto.
(105) Che ci sia un nesso profondo, originale fra l’affermazione della mia persona e il destino del mondo, l’incremento del cosmo, il cammino del popolo umano verso il suo ultimo disegno – questa è una verità grande, affermata soprattutto nella idea cristiana di merito.
(116) Solitudine. L’incomunicabilità come difficoltà di dialogo e comunicazione rende a sua volta più tragica la solitudine che l’uomo prova di fronte al destino.
Di fronte al destino come assenza di significato l’uomo prova una solitudine terribile.
La solitudine infatti non è essere da solo, ma è l’assenza di significato.
L’incomunicabilità aumenta il senso tragico di solitudine che l’uomo moderno e contemporaneo ha di fronte al destino senza significato.
La solitudine che si accusa nella vita comune è accusa a una propria presenza nella vita comune senza intelligenza del significato.
Si è lì senza riconoscere ciò che unisce, e allora anche il più piccolo sgarbo diventa una obiezione che fa crollare tutta l’impalcatura della fiducia.
L’incomunicabilità aumenta il senso tragico di solitudine che l’uomo moderno e contemporaneo ha di fronte al destino senza significato.
Ma l’incomunicabilità, oltre che esasperare questa solitudine personale, le dà un rilievo esterno, per cui essa diventa clima sociale esasperante, volto tristemente caratteristico della società di oggi.
(120) La libertà è per l’uomo la possibilità, la capacità, la responsabilità di compiersi, cioè di raggiungere il proprio destino.
La libertà è il paragone con il destino: è questa aspirazione totale al destino.
Così la libertà è l’esperienza della verità di sé stessi.
(149) Comunque venga applicata questa libertà del bene perché è bene, e del male perché è male, è inestirpabile.
Perché risponde ad una destinazione ultima, risponde al nesso con il destino.
(163) La ragione è esigenza di comprendere l’esistente; nella vita non è possibile; dunque fedeltà alla ragione costringe ad ammettere l’esistenza di un incomprensibile.
Questa affermazione costituisce il segno della piccolezza della nostra esistenza, e nello stesso tempo il segno del destino incommensurabile, in-finito, della nostra esistenza, della nostra ragione, del nostro essere.
(168s) Se io fossi portato al mio destino senza libertà, io non potrei essere felice, non sarebbe una felicità mia, non sarebbe il destino mio.
(169) È attraverso la mia libertà che il destino, il fine, lo scopo, l’oggetto ultimo può diventare risposta per me.
Non sarebbe umano un compimento dell’uomo, non sarebbe compimento dell’essere umano, se non fosse libero.
Ora, se il raggiungimento del destino, del compimento deve essere libero, la libertà deve «giocare» anche nella scoperta di esso.
Anche la scoperta del destino, del significato ultimo, se fosse automatica, non sarebbe più mia.
Il destino è qualcosa di fronte al quale l’uomo è responsabile; il modo che l’uomo ha di raggiungere il destino è responsabilità sua, è frutto della libertà.
(175) Il problema fondamentale di questa grande avventura del «segno» che è il mondo, perché in essa si palesi l’evidenza del destino, è l’educazione alla libertà.
Se la realtà chiama l’uomo a qualcosa d’altro, educazione alla libertà è uguale a educazione alla responsabilità.
Innanzitutto l’educazione alla responsabilità implica una educazione alla attenzione.
(181) Incide molto il problema del significato totale del vivere, l’esistenza del Dio.
Qui è grave una divisione fra l’energia di adesione all’essere e la ragione come scoperta dell’essere: qui il fuoco di fila dei «ma», dei «se», dei «però», dei «forse», fa da linea di fuoco che fronteggia la ritirata del proprio impegno on il mistero.
È l’immoralità suprema: l’immoralità di fronte al proprio destino..
(204) «Padre nostro che sei nei cieli» Padre nostro che sei nel profondo, alla radice di me, che mi stai facendo in questo istante, che generi il mio cammino e mi guidi al destino!
Dio è padre, ma è padre come nessun altro è padre.
Il termine rivelato porta il mistero più dentro di te, più vicino alla tua carne e alle tue ossa, e lo senti veramente familiare come per un figlio.
Dimenticanza-dimenticare
(12) Realmente l’anarchia costituisce la tentazione più grande affascinante e menzognera.
E la forza di tale menzogna sta appunto nel suo fascino, che induce a dimenticare che l’uomo prima non c’era e poi muore.
(57) L’esigenza dell’unità è sì grandiosa esigenza della ragione, esigenza che origina tutto il fervore, tutta la forza della dinamica dell’intelligenza; ma questa sete di unità non può essere giocata fino a barare; fino cioè a rinnegare o a dimenticare qualcosa per poter spiegare unitariamente tutto.
(79) Irragionevole è una posizione che pretende spiegare un fenomeno in modo non adeguato a tutti i fattori implicati.
Non si può spiegare una questione dimenticando o rinnegando qualche fattore in gioco.
(86s) Si arriva così al progetto sociale,
«Tendete i muscoli, gonfiate le gote, per realizzare il progetto di una diversa società.»
Un progetto fatto da chi? «Da me» da me direbbe Marx. «Da noi» direbbero altri..
È una enfasi volontaristica che dimentica il contenuto più acuto e oggettivo, quello personale, da cui solo deriva anche l’interesse sociale.
È una riduzione astraente, una dimenticanza impotente.
Non per nulla la produzione filosofica in URSS è quasi esclusivamente dedicata all’etica: un moralismo tutto invadente.
(87) Dove è l’errore della cultura di oggi?
Essa scorda le premesse: esse sono nella coscienza dell’uomo, nell’uomo che grida quelle ultime domande.
E quelle domande penetrano i rapporti che si hanno con i figli, con gli amici, con gli estranei; penetrano il lavoro e il sostentamento; penetrano il modo con cui uno affronta il problema sociale.
(91) Non è saggio affermare: «Di giorno in giorno mi distraggo cercando di vivere intensamente», non può essere un suggerimento che insegni a dimenticare.
Assicura di vivere intensamente, da uomo, ragionevolmente cerca di vivere dimenticando?
Non sono posizioni adeguate a quel che siamo.
(99) Cesare Pavese in Il mestiere di vivere: «E allora, perché attendiamo?».
Ecco l’ossessione: è la struttura della nostra vita che è promessa, come abbiamo già visto;
L’inevitabilità delle domande profonde è l’emergere della promessa.
Dimenticare o rinnegare, questo è irrazionale.
(107) Dopo questa serie analitica di posizioni, mi preme ricordare che il valore dialettico della nostra denuncia è uno: esse non corrispondono interamente ai fattori che l’esperienza ci mostra in gioco.
Sono segni dimentichi di ciò che sta prima, di ciò da cui si parte, sono errori in cui la tensione o passione per il fine fa dimenticare i dati originali, l’origine e perciò fa impazzire.
(190) Il punto di vista (del particolare) cercherà di far star dentro la sua prospettiva, ogni aspetto della realtà.
E siccome è un particolare della realtà, questo far rientrare tutto entro di esso non potrà che far rinnegare o dimenticare qualche cosa; non potrà che ridurre, negare o rinnegare il volto completo della realtà.
Si tratterà di una scelta alterante il volto vero di tutta la vita, perché tutto quanto sarà dilatato o diminuito, esaltato o dimenticato, osannato o emarginato, secondo il coinvolgimento con il punto di vista scelto, con il fattore scelto.
(195) L’idolo non fa mai unità e totalità senza dimenticare o rinnegare qualcosa.
Dimostrabile-dimostrazione
(19ss) Spesso il razionale viene identificato con il dimostrabile nel senso stretto della parola.
È vero il fatto che il ragionevole chieda, desideri, aspiri, e sia curioso di dimostrare ogni cosa, ma non è vero che ragionevole sia identico a dimostrabile.
La capacità di dimostrare è un aspetto della ragionevolezza, ma il ragionevole non è la capacità di dimostrare.
Che cosa significa dimostrare? Significa ripercorrere tutti i passi di un procedimento che pone in essere qualcosa.
A scuola, quando si ripeteva la dimostrazione di un teorema e si saltava un passaggio, l’insegnante interrompeva dicendo: «Questo non è dimostrato».
Infatti tutti i passi costitutivi di una realtà vanno percorsi per poter dire di trovarci di fronte a una dimostrazione.
Ma questo non esaurisce il ragionevole perché proprio gli aspetti più originali, più interessanti della realtà non sono dimostrabili.
A essi, cioè, non si può applicare questo procedimento.
L’uomo non può dimostrare come esistono le cose, e la risposta sul come esistano le cose, è sommamente interessante per l’uomo.
Se anche qualcuno potrà dimostrare che questo tavolo è fatto di un materiale che ha una determinata composizione, non potrà mai ripercorrere tutti i passaggi per cui questo tavolo esiste.
(21) La capacità di logica, di coerenza, di dimostrazione, non sono altro che strumenti della ragionevolezza, strumenti al servizio di una mano più grande, dell’ampiezza di un cuore che li utilizza.
(24) La ragione non è anchilosata, non è rattrappita come l’ha immaginata tanta filosofia moderna che l’ha ridotta a una sola mossa, la «logica», o a un tipo di fenomeno solo, una certa capacità di «dimostrazione empirica».
(28)
La dimostrazione per una certezza morale è un complesso di indizi il sui unico senso adeguato, il cui unico motivo adeguato, la cui lettura ragionevole è quella certezza.
Per esempio: io sono tranquillo che chi ho davanti in questo momento non mi vuole ammazzare, e neppure dopo questa mia dichiarazione questa persona mi vuole ammazzare, neanche per il gusto di dimostrare che ho sbagliato.
(161) Se nell’impatto con l’uomo il mondo funziona come segno, dobbiamo dire che il mondo «dimostra» qualcosa d’Altro, dimostra «Dio» come un segno dimostra ciò di cui è segno.
Il «tu» non è esauribile; è evidente e non dimostrabile, l’uomo non può rifare tutto il processo che lo costituisce; eppure mai l’uomo percepisce e vive un’esperienza di pienezza come di fronte al tu.
(194) L’uomo realizzerà l’identificazione del Dio con l’idolo, scegliendo qualcosa, come abbiamo visto, che capisce lui: perché qui è il peccato originale, la pretesa di identificare il significato totale con qualcosa che l’uomo comprende.
E’ come se l’uomo sostenesse: «Ciò che c’è è dimostrabile dall’uomo, ciò che non è dimostrabile dall’uomo non c’è».
DIO / dio
(8) Ora che questo criterio sia immanente a noi – entro di noi – non significa che ce lo diamo da soli: è attinto dalla natura, vale a dire ci viene dato con la natura (dove la parola “natura” evidentemente nasconde la parola Dio, indizio cioè dell’origine ultima del nostro io).
(61) S. Paolo, nel discorso davanti all’Aeropago, quanto discorre con gli ateniesi della ricerca di una risposta alle domande ultime che fanno parlare il fondo del nostro essere, le identifica con quell’energia che signoreggia provocandola, sostenendola, ridefinendola continuamente, tutta la mobilità umana,compresa la mobilità stessa dei popoli, questo loro girovagare per il mondo «alla ricerca di dio» di lui «che dà a ognuno la vita, il respiro, tutto».
Qualunque moto dell’uomo ha questa sorgente, ha questa radice energica, è secondario e dipendente da quest’ultima, originale e radicale enigmatica fonte.
(64) Chiamiamo provvisoriamente «dio» il termine indefinibile di questo richiamo inscritto in noi stessi.
(75) Solo l’ipotesi di Dio, solo l’affermazione del mistero come realtà esistente oltre la nostra capacità di ricognizione corrisponde alla struttura originale dell’uomo.
Shakespeare in Macbeth:
«Il mondo senza Dio sarebbe una favola raccontata da un idiota in un accesso di ira».
(105) Nel concetto cristiano di merito l’uomo si adegua al suo destino, cresce verso il suo destino, nella misura in cui la sua azione «muove» il mondo, è per il mondo, lo edifica, edifica l’umanità.
Essa «muove» il mondo, edifica l’umanità se è offerta a Dio, cioè se è compiuta in funzione del disegno totale di Dio, sul mondo.
(121) Per questo il Signore diceva: «La verità vi farà liberi» (Gv 8,32).
Se Dio è la verità, posso dire a Dio: la mia verità sei tu, il mio io sei tu.
Un Altro è questa verità di me stesso: questa pienezza del mio essere sei Tu, il mio significato sei Tu.
Perciò la libertà è la capacità di Dio.
(125) L’anima viene infusa da Dio.
Solo nella ipotesi che in me esista questo rapporto, il mondo può fare di me quel che vuole, ma non mi vince, non mi evince, non mi afferra, io sono più grande, io sono libero.
Ecco il paradosso: la libertà è la dipendenza da Dio.
La libertà si indentifica con la dipendenza da Dio a livello umano, cioè riconosciuta e vissuta.
La coscienza vissuta di questo rapporto si chiama religiosità!
La libertà è nella religiosità.
Senza la difesa del suo rapporto con Dio, l’uomo è alla mercé della concezione utile al potere e favorita da esso drasticamente.
(127)
L’antipotere è l’amore:
e il divino è l’affermazione dell’uomo come capacità di libertà, cioè come irriducibile capacità di perfezione, di raggiungimento della felicità – come irriducibile capacità di raggiungere l’Altro, Dio.
Il divino è amore.
(136) Sinjaskij in Pensieri improvvisi afferma:
«Non bisogna credere per tradizione, per paura della morte, oppure per mettere le mani avanti. O perché c’è qualcuno che comanda e incute timore, oppure ancora per ragioni umanistiche, per salvarsi e fare l’originale. Bisogna credere per la semplice ragione che Dio esiste».
Wittgenstein in Quaderni:
«L’assoluto stupore della vita, cioè il senso del mondo, possiamo chiamarlo Dio … pregare è pensare al senso della vita».
(140) Chi non crede in Dio è inescusabile diceva san Paolo, perché deve rinnegare questo fenomeno originale, questa originale esperienza dell’«altro» (Rm 1, 19-21).
Heschel in Dio alla ricerca dell’uomo:
«L’assoluto stupore è per l’intelligenza della realtà di Dio ciò che la chiarezza e la distinzione sono per la comprensione delle idee matematiche. Privi di meraviglia, restiamo sordi al sublime».
(142) La dipendenza originale dell’uomo è ben indicata nella Bibbia, nel drammatico dialogo (duello) tra Dio e Giobbe, dopo che questi si era abbandonato al lamento ribelle.
Per due capitoli Dio incalza con le sue domande radicali e pare di vedere Giobbe fisicamente rimpicciolire, come volesse scomparire di fronte all’impossibilità di una sua risposta.
(144) Kant in “Critica della ragion pura”:
«Davvero stolti per natura tutti gli uomini che vivevano nell’ignoranza di Dio, e dai segni visibili non riconobbero Colui che è, non riconobbero l’artefice, pur considerandone le opere.»
«Ma il fuoco o il vento o l’aria sottile o la volta stellata o l’acqua impetuosa o i luminari del cielo considerarono come dei, reggitori del mondo. Se, stupiti per la loro bellezza, li hanno considerati dei, pensino quanto è superiore il loro Signore, perché li ha creati lo stesso autore della bellezza.»
«Se sono colpiti dalla loro potenza e attività, pensino da ciò a quanto è più potente colui che li ha formati. Difatti dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l’autore».
(147) «Tu che mi fai» è perciò quello che la tradizione chiama Dio, è ciò che è più di me, è ciò che è più di me stesso, è ciò per cui io sono.
Per questo la Bibbia dice di Dio «tam pater nemo» nessuno è così padre, perché il padre che noi conosciamo nell’esperienza è chi dà l’abbrivio, l’inizio a una vita che, dalla prima frazione di istante in cui è posta in essere, si distacca, va per conto suo.
Mentre Dio, in ogni istante, mi sta concependo ora.
Nessuno è così padre, generatore.
La coscienza di sé fino in fondo percepisce al fondo di sé un Altro.
Questa è la preghiera: la coscienza di sé fino in fondo che si imbatte in un Altro.
Così la preghiera è l’unico gesto umano in cui la statura dell’uomo è totalmente realizzata.
(148) Tutti i movimenti, perciò, degli uomini, in quanto tendono alla pace, e alla gioia, sono per la ricerca di Dio, di Ciò in cui è la consistenza esauriente della loro vita.
(161) Se nell’impatto con l’uomo il mondo funziona come un segno, dobbiamo dire che il mondo «dimostra» qualcosa d’Altro, dimostra «Dio» come un segno dimostra ciò di cui è segno.
(165) I termini con cui tutta la tradizione religiosa autentica dell’umanità ha segnato il mistero, cioè ha parlato di Dio, sono tutti termini negativi: infinito, im-menso, ignoto, il dio ignoto cui gli ateniesi avevano consacrato un’ara.
Certe frasi che si usano: Dio è bontà, Dio è giustizia, Dio è bellezza, sono piuttosto delle direzioni di partenza che, moltiplicate, arricchiscono il nostro presentimento di questo Oggetto ultimo: ma non possono essere definizioni, perché Dio è bontà, ma non è la bontà così come la conosciamo noi; Dio è amore ma non secondo la modalità nostra, Dio è persona, ma non come lo siamo noi.
(168s) La parola «Dio» non ci confonda perché essa è il termine che nel linguaggio religioso universale identifica questo quid assoluto.
Fra un miliardo di anni qualunque confine l’uomo abbia raggiunto «non è quello»come drammaticamente rivela ancora Clemente Rebora in «Sacchi a terra per gli occhi»:
«Qualunque cosa tu dica o faccia
C’è un grido dentro:
Non è per questo, non è per questo!
E così tutto rimanda
A una segreta domanda:
L’atto è un pretesto
Nell’imminenza di Dio
La vita fa man bassa
Sulle riserve caduche,
Mentre ciascuno afferra
Un suo bene che gli grida: addio».
La libertà dunque ha a che fare non solo con l’andare a Dio come coerenza di vita, ma già con la scoperta di Dio.
Vi sono scienziati, filosofi, letterati che hanno scoperto Dio.
E tanti di loro con la loro scienza hanno creduto di eludere Dio.
Vuol dire che riconoscere Dio non è un problema né di scienza, né di sensibilità estetica e neanche di filosofia come tale.
È un problema anche di libertà.
Lo riconosceva uno dei più noti marxisti, Althusser, quando diceva che tra esistenza di Dio e marxismo il problema non è di ragione, ma di opzione.
Certo c’è una opzione che è secondo la natura, ed essa evidenzia la ragione, è una opzione che è contro la natura, ed essa oscura la ragione.
Però alla fin fine l’opzione è decisiva.
(171) Il mondo “insegna” Dio, dimostra Dio, come il segno indica ciò di cui è segno.
Ricordiamo che il mondo dimostra l’esistenza del quid ultimo, l’esistenza del mistero attraverso la modalità che si chiama «segno».
Il mondo «insegna»Dio, dimostra Dio, come il segno indica ciò di cui è segno.
Se tu sei «morale», vale a dire se tu sei nell’atteggiamento originale in cui Dio ti ha creato, cioè in atteggiamento aperto al reale, allora capisci, o per lo meno cerchi, cioè domandi.
(179ss) Dove sta la vera difficoltà nell’identificare l’esistenza di Dio, l’esistenza del Mistero, del significato che è oltre l’uomo?
Di tutte le cose necessarie per vivere quella più necessaria è l’intuizione dell’esistenza del perché, del significato, è l’esistenza del Dio.
Nella «Apologia pro vita sua» il grande Newman dice che a 15 anni, andando per le strade, fu come folgorato dall’intuizione che c’erano «due soli esseri auto evidenti: l’io e Dio».
La facilità suprema a cogliere l’esistenza di Dio viene identificata con l’immediatezza nel percepire l’esistenza di sé stessi.
Infatti Dio è l’implicazione più immediata della coscienza di sé.
(180) In uno sguardo umano al mondo il presentimento e l’intuizione dell’esistenza di un significato adeguato, di quello che noi chiamiamo Dio, di questa “X” misteriosa, di questo quid, «neutro e sublime» è l’implicazione più ovvia e inesorabile.
Inevitabile conseguenza del rapporto con Dio, mediato dal fenomeno del segno, è una esperienza che io chiamo esperienza del rischio.
(181)È uno iato, un abisso, un vuoto tra l’intuizione del vero, dell’essere, data dalla ragione, percezione dell’essere, e la volontà che è affettività, cioè energia di adesione all’essere.
Per cui uno vede le ragioni, ma non si muove.
Avviene una spaccatura trala ragione e l’affettività, tra la ragione e la volontà: questa è l’esperienza del rischio.
il senso del rischio si realizza nella misura in cui l’oggetto interessa il significato della propria esistenza.
…..l’esistenza di Dio. Qui è grave una divisione fra l’energia di adesione all’essere e la ragione come scoperta dell’essere: qui il fuoco di fila dei «ma», dei «se», dei «però», dei «forse», come dicevo prima, fa da linea di fuoco che fronteggia la ritirata del proprio impegno con il mistero.
È l’immoralità suprema: l’immoralità di fronte al proprio destino.
(183) Il vero dramma del rapporto tra l’uomo e Dio, attraverso il segno del cosmo, attraverso il segno dell’esperienza, non sta nella fragilità delle ragioni, perché tutto è il mondo è una grande ragione e non esiste sguardo umano sulla realtà che non senta la provocazione di questa prospettiva che lo supera.
il vero dramma sta nella volontà che deve aderire a questa immensa evidenza.
(191ss) Pretendere di essere la misura di tutto, vale a dire, pretendere di essere Dio.
(192) È la suggestione del peccato originale.
Non è vero che c’è qualcosa che tu non puoi misurare: ma se tu decidi di farlo, se tu parti per questa avventura, «conoscerai il bene e il male e sarai come Dio».
L’uomo misura di tutte le cose: la prima pagina della Bibbia è realmente la spiegazione più chiara.
Il particolare nel quale la ragione identifica la spiegazione di tutto la Bibbia lo chiama idolo.
Qualcosa che sembra Dio, ha la maschera di Dio, e non lo è.
(193) Gli idoli non mantengono mai le loro promesse e le loro pretese totalizzanti.
Nella misura in cui gli idoli sono esaltati l’umano viene meno.
È l’abolizione della persona, della responsabilità dell’umano.
Tutta la colpa sarebbe della struttura: l’idolo oscura l’orizzonte dello sguardo e altera la forma delle cose.
(200ss) (L’uomo è spinto) ad identificare l’assoluto, il sicuro con qualcosa di sperimentato nella sua esistenza, a identificare ciò per cui vale la pena con qualche aspetto della sua esperienza. Il dio diventa idolo.
(201) Insomma, è inevitabile storicamente che l’uomo a un certo punto identifichi con la propria immagine l’assoluto.
Così l’uomo mutila se stesso, mutila l’altro, mutila le cose; e crea immagini abnormi, dalle forme schizzofreniche: «Me infelice – direbbe san Paolo – chi mi libererà da questa situazione mortale?» (Rm 7,24).
All’estremo della esperienza della vita, all’estremo della coscienza sofferta e appassionata dell’esistenza si sprigiona, malgrado l’uomo stesso, questo grido della umanità più vera, come una implorazione, una mendicanza; si sprigiona la grande ipotesi che si possa «fare il passaggio con qualche più solido trasporto, con l’aiuto cioè della rivelata parola di dio» (Platone, Fedone).
In termini propri si chiama ipotesi della rivelazione.
La parola Rivelazione ha un senso lato, più largo e generico: il mondo è questa rivelazione del Dio, del mistero.
La realtà è un segno interpretando il quale la coscienza dell’uomo capisce l’esistenza del mistero.
In tal senso il mondo è strutturalmente la rivelazione di Dio: è l’interpretazione della struttura dinamica delle cose nel rapporto con l’uomo che porta l’uomo a udire la presenza di un «Oltre».
(202) Ma in senso proprio «rivelazione» non è più il termine di una interpretazione che l’uomo fa sulla realtà, sulla natura dell’uomo alla ricerca del suo significato: invece si tratta di un possibile fatto reale, un eventuale avvenimento storico.
Un fatto che l’uomo può riconoscere o non riconoscere. Giuda non lo ha riconosciuto.
Ma che Dio, in qualche modo, entri nella storia dell’uomo come fattore interno alla storia, non come ultima sponda al di là delle apparenze che l’uomo deve trapassare, ma una presenza dentro la storia, che parla come parla un amico, un padre, una madre, questa è la rivelazione cui aspirava il Fedone di Platone.
Questa è l’ipotesi eccezionale, questa è la rivelazione in senso stretto: lo svelarsi di un mistero attraverso un fattore della storia col quale, nel caso del cristianesimo, si identifica.
Negare la possibilità di questa ipotesi è l’ultima estrema forma di idolatria, l’estremo tentativo che la ragione compie per imporre a Dio una immagine di Lui.
(203) Perché se Dio è il mistero, come si fa a dettargli quel che può e non può fare?
In una simile ipotesi Dio non sopprime certo la libertà operosa dell’uomo, ma la rende possibile, perché l’errore e la stanchezza, propri dell’uomo, sono un limite alla libertà operosa.
(204) Ma Dio tradotto in termini comprensibili, non sarebbe idolatria?
Nonostante sia tradotta in termini umani, il risultato della Rivelazione deve essere l’approfondimento del mistero come mistero.
Per cui lo si conosce e lo si conosce sempre più come mistero.
Per esempio: il mondo e la mia vita dipendono da Dio. E questo è vero.
Ma se invece della parola enigmatica «mistero» come suggerisce la realtà, tu usi la parola «Padre», come ti suggerisce la rivelazione, allora abbiamo un termine comprensibilissimo della nostra esperienza: è padre chi mi dà la vita, chi mi ha introdotto alla bellezza delle cose, chi mi ha messo in guardia dai possibili pericoli.
Ecco: l’Assoluto, il Mistero, è Padre, anzi lo ripetiamo, «tam pater nemo», così padre nessuno.
Non puoi più ritirarti dopo che hai sentito questa parola di Dio (Padre nostro), non puoi più tornare indietro.
Ma nello stesso tempo rimane il mistero, rimane più profondo: Dio è padre, ma è padre come nessun altro è padre.
Il mistero rivelato porta il mistero più dentro di te, più vicino alla tua carne e alle tue ossa, e lo senti veramente familiare come per un figlio.
(205) L’ipotesi della Rivelazione non può essere distrutta da alcun preconcetto o da alcuna opzione.
Essa pone una questione di fatto, cui la natura del cuore è originalmente aperta.
Occorre per la riuscita della vita che questa apertura rimanga determinante.
il destino del «senso religioso» è totalmente legato ad essa..
Dipendenza
(121) Perché fede e preghiera sono il riconoscimento pieno di quella Presenza che è il mio destino, la dipendenza dalla quale è la mia libertà.
(125)……c’è un «quid» in me che non deriva da alcun fattore della fenomenologia sperimentabile, perché non dipende, non deriva dalla biologia di mio padre e di mia madre; esso è diretta dipendenza dall’infinito, da ciò che fa tutto il mondo.
Ecco il paradosso: la libertà è dipendere da Dio.
(132) Solzenizyn nel suo grande romanzo «Reparto C» riprende uno spunto del filosofo Bacone, analiticamente dettagliando il vario meccanismo di questa dipendenza alienante dell’uomo dalla ideologia di fatto dominante.
(140ss) Il primissimo sentimento dell’uomo è quello è quello di essere di fronte a una realtà che non è sua, ma che c’è indipendentemente da lui e da cui lui dipende.
(141) L’accorgersi di una inesorabile presenza!
Io apro gli occhi a questa realtà che mi si impone, che non dipende da me, ma da cui io dipendo: il grande condizionamento della mia esistenza, se volete, il dato.
(142) La dipendenza originale dell’uomo è ben indicata nella Bibbia, nel drammatico dialogo (duello) tra Dio e Giobbe, dopo che questi si era abbandonato al lamento ribelle.
(146ss) In questo momento (di fronte alla presenza di tutto) io, se sono attento, cioè se sono maturo, non posso negare che l’evidenza più grande e più profonda che percepisco è che io non mi faccio da me, non mi do la realtà che sono, sono dato.
È l’attimo adulto della scoperta di me stesso come dipendente da qualcosa d’altro.
(147) il vertice della conquista della ragione è la percezione di un esistente ignoto, irraggiungibile, cui tutto il movimento dell’uomo è destinato perché ne dipende.
IL PIOPPO di Clemente Rebora
Vibra nel vento con tutte le sue foglie
Il pioppo severo:
spasima l’anima in tutte le sue doglie
nell’ansia del pensiero:
dal tronco in rami per fronde si esprime
tutte al ciel tese con raccolte cime:
fermo rimane il tronco del mistero,
e il tronco s’innabissa ove è più vero.
(189) Esistenzialmente la natura della ragione come esigenza di conoscere, di comprendere, penetra tutto, e perciò pretende penetrare anche l’ignoto da cui ogni cosa dipende, da cui il suo fiato e il suo respiro, istante per istante dipendono.
(195s) L’uomo non può evitare questa alternativa: o è schiavo di uomini o è soggetto dipendente da Dio.
San Tommaso dAquino (Summa):
«La verità che la ragione potrebbe raggiungere su Dio sarebbe di fatto per un piccolo numero soltanto, e dopo molto tempo e non senza mescolanza di errori. D’altra parte, dalla conoscenza di questa verità dipende tutta la salvezza dell’essere umano, poiché questa salvezza è in Dio. Per questo questa salvezza più universale e più certa, sarebbe dunque stato necessario insegnare agli uomini la verità divina con una divina rivelazione».
(199) Occorrerebbe decidersi ad una irrazionalità totale, ad una in naturalità totale per sopprimere lo slancio con cui la nostra natura intuisce che questo significato ultimo, che questa dipendenza totale ha un termine di riferimento – anche se esso è, usiamo pure la parola drammatica, «disperatamente» al di là, sta al di là, trans, e trascendentale, assoluto, cioè non legata al tempo e allo spazio, né ad alcuna delle misure di ragione, fantasia o immaginazione che noi potremmo usare.
L’esistenza di questa incognita suprema da cui tutto dipende nella storia e nel mondo è il vertice e la vertigine della ragione.
(204) Il mondo e la mia vita dipendono da Dio.
Disperazione
(69) Se la tristezza è scintilla che scatta dalla vissuta «differenza di potenziale» tra la destinazione ideale e l’incompiutezza storica, l’appiattimento di quella «differenza» – comunque avvenuto – crea l’opposto logico della tristezza, la disperazione.
«Se le cose fossero soltanto quello che noi vediamo saremmo dei disperati»
(99) Pacatamente Cesare Pavese accennava la stessa tristezza:«E allora perché attendiamo?».
Ecco l’ossessione: è la struttura della nostra vita che è promessa, come abbiamo già visto; l’inevitabilità delle domande profonde è l’emergere della promessa.
Dimenticare o rinnegare, questo è irrazionale.
La disperazione che nasce da tale rinnegamento trova documenti affascinanti in coloro che sanno esprimere l’umano e il suo dramma.
(186) Così è il rapporto con quell’aldilà che rende possibile anche l’avventura dell’aldiqua, altrimenti la noia, origine della presunzione evasiva, illusiva o della disperazione eliminatrice, domina.
È solo il rapporto con l’aldilà che rende realizzabile l’avventura della vita.
La forza umana nell’affermare le cose dell’aldiquà è data dalla penetrazione nell’aldilà.
Distacco
(43s) Il povero è chi non ha nulla da difendere che è distaccato da ciò che sembra avere, così che la sua vita non è per affermare il proprio possesso.
La povertà di spirito suprema è quella di fronte alla verità, è quella che desidera la verità e basta, al di là di tutto l’attaccamento che vive, prova, sente ed esperimenta alle immagini che già si è fatto sulle cose.
Il vero problema non è non avere preconcetti: anzi, nella misura in cui uno è un uomo fertile, potente e vivave, in quella misura appena posto di fronte ai problemi ha subito la sua reazione, anche come giudizio.
(44) Si tratta invece di quel processo grande e semplicissimo di distacco da sé di cui parla il Vangelo.
Quando il vangelo parla di «distacco da sé stessi»(Lc 17,33), non vuol pretendere che ci si distacchi da sé nel senso letterale del termine.
Si tratta di un atteggiamento in cui la libertà riflette su sé stessa, e si domina così da utilizzare la sua energia in modo consono allo scopo.
Per amare la verità più di se stessi, per amare la verità dell’oggetto più dell’immagine che ci siamo fatti su di esso, per questa povertà di spirito, per questo occhio sgranato di fronte al reale e alla verità come quello del bambino, occorre un processo e un lavoro.
Anche qui il processo faticoso si chiama ascesi.
Che cosa può persuadere a questa ascesi, a questo lavoro e allenamento? L’uomo infatti solo da un amore e da una affezione è mosso.
L’amore che ci può persuadere a questo lavoro arrivare a una capacità abituale di distacco delle proprie opinioni e immaginazioni, così da porre tutta la nostra energia conoscitiva nella ricerca della verità dell’oggetto qualunque esso sia, è l’amore a noi stessi come destino, è l’affezione al nostro destino.
È questa commozione ultima, è questa emozione suprema che persuade alla vita vera.
Distrazione
(52) Il presente è sempre un’azione, nonostante tutta l’indolenza, la stanchezza, la distrazione possibile nel suo protagonista.
(90s) Non è saggio affermare: «Di giorno in giorno mi distraggo cercando di vivere intensamente», non può essere saggezza un suggerimento che insegni a dimenticare.
Assicura di vivere intensamente da uomo, ragionevolmente, cercar di vivere dimenticando? Non sono posizioni adeguate a quel che siamo.
(149) La voce dell’io: la soffochiamo con la terra della nostra distrazione e delle nostre preoccupazioni.
(176) Il preconcetto, comunque venga originato, impedisce l’attenzione: il prevalere dell’interesse, quindi distrazione.
Disumano
(79) Chiamo disumani questi atteggiamenti, proprio in quanto irragionevoli:
- negazione teorica della domande: il fatto che quelle domande, quegli interrogativi vengono definiti senza senso.
- sostituzione volontaristica delle domande: se si toglie l’energia dinamica che quelle domande determinano […] L’energia che ci fa agire si riduce a una affermazione di sé. Oppure strumento dell’affermazione di noi stessi è la volontà: perciò si può trattare solo di una energia,di una affermazione volontaristica.
- negazione pratica delle domande: le domande pungono, fanno male. Bisogna impostare la vita in modo tale che quelle domande non vengano a galla:
- Non pensarci
- la società crea interessi per oscurare il grande interesse della domanda essenziale, la domanda di significato.
- L’imperturbabilità o atarassia: a quelle domande non è possibile dare una risposta: dunque occorre anestetizzarsi.
(82) Abbandonare la ricerca della realtà, del valore assoluto e immutabile è un sacrificio tale per cui la gente si può anche ammazzare.
Si dovrebbe infatti abbandonare qualche cosa a cui la natura ci spinge: è questo è irrazionale, questo è disumano.
(99) Adorno:
«La verità non è separabile dalla ossessione che dalle figure della apparenza emerga, senza apparenza, la salvezza» (Minima moralia. Mediazioni della vita sofferta)
Quello che Adorno chiama «ossessione» è la struttura dell’uomo, è quello che chiamavamo «cuore» o esperienza elementare: negarla è rinnegare qualcosa, è irragionevole e disumano.
L’inevitabilità delle domande profonde è l’emergere della promessa.
Dimenticare o rinnegare, questo è l’irrazionale (disumano).
(105) Che astrattezza disumana di Diderot nel secolo dei lumi:
«Oh, posterità santa e sacra! Sostegno degli oppressi e degli infelici, tu che sei giusta, tu che sei incorruttibile, tu che rivelerai l’uomo buono e smaschererai l’ipocrita, idea consolante e certa, non abbandonarmi: La posterità è per il filosofo quello che l’altro mondo è per il religioso.» (D. Diderot, Oeuvres).
Lo scopo di tutte le nostre energie è quello di dissolverci per il progresso del futuro!
Il progresso per il futuro chi lo gestisce? I potenti.
(135) (Lettera di una ragazza sul padre che la rimprovera di farsi troppe domande):
« … a me che non mi accontento di questo, dice che sono una illusa, e che non ha senso, che non costruisce la mia personalità trascinarmi dietro queste domande a cui non so rispondere. Io capisco come sia disumana questa posizione ma non so mai come rispondergli, le argomentazioni di mio padre mi appaiono logiche e razionali».
Vorrei dire a quell’uomo: perché quelle domande , se non costituiscono una apertura inerente alla natura, sarebbero «insensate»?
C’è una sola risposta, mi pare: perché lo dice lui!
Proietta la sua ombra sulla luce del cuore: questo, esattamente, è il preconcetto.
(187) Al di là delle colonne d’Ercole non v’è nulla di sicuro, è il vuoto e la pazzia.
Come chi va al di là di esse è un fantasioso che non avrà più nessuna certezza, così al di là dei confini sperimentabili positivisticamente intesi c’è solo fantasia o, comunque, impossibilità di sicurezza.
(Ulisse) Non sbagliò perché andò oltre: andare oltre era nella sua natura di uomo, decidendolo si sentì veramente uomo.
Questa è la lotta tra l’umano, cioè il senso religioso e il disumano, cioè la posizione positivista di tutta la mentalità moderna.
Divino
(127) L’antipotere è l’amore: e il divino è l’affermazione dell’uomo come capacità di libertà, cioè come capacità irriducibile di perfezione, di raggiungimento della felicità, come capacità di raggiungere l’Altro, Dio.
Il divino è amore.
Come testimonia questa splendida poesia di Tagore:
«In questo mondo coloro che m'amano
cercano con tutti i mezzi
di tenermi avvinto a loro
Il tuo amore è più grande del loro,
eppure mi lasci libero.
Per timore che io li dimentichi
non osano lasciarmi solo.
Ma i giorni passano
l'uno dopo l'altro
e Tu non ti fai vedere.
Non ti chiamo nelle mie preghiere
non ti tengo nel mio cuore, eppure il tuo amore per me
ancora attende il mio amore».
(145s) Il contenuto delle religioni più antiche coincide con questa esperienza di possibilità della realtà «provvidenziale».
Il nesso con il divino aveva come contenuto il fatto di questo mistero della fecondità della terra e della donna.
Il senso del divino come provvidenza.
Dolore
(32s) La ragione è immanente a tutta l’unità del nostro io, è organicamente relata, per questo, in presenza di un dolore fisico non si utilizza bene la ragione, o in presenza di rabbia o delusione per l’incomprensione altrui.
La ragione non è un meccanismo desarcionabile dal resto di questo cavallo che è l’uomo in corsa per la sua strada; essa è profondamente e organicamente relazionata al resto dell’io.
(33) Qualcosa accade, penetra e produce inevitabilmente, meccanicamente, una certa reazione, vale a dire uno stato d’animo, un dolore fisico, una contentezza, una curiosità…..
Qualcosa accade che tocca la persona, «muove» la persona, una emozione, una commozione.
La parola che indica questo stato d’animo, questa reazione, questa emozione, questo essere toccati dalla cosa che accade si chiama sentimento.
(59) Il fattore religioso rappresenta la natura del nostro io in quanto si esprime in certe domande: «Qual è il significato ultimo dell’esistenza?», «Perché c’è il dolore? La morte? Perché in fondo in fondo vale la pena vivere?».
(79s) Chiamo negazione teorica delle domande il fatto che quelle grandi domande, quegli interrogativi vengono definiti «senza senso».
Le frasi che esprimono tali domande avrebbero consistenza solo formale.
Esse non costituiscono neanche una immagine, sono pura parola, puro suono.
«Le domande in cui si condensa la confusa e indiscriminata velleità riflessiva degli adolescenti, la loro primitiva e sommaria filosofia (che cosa è la vita? a che giova? quale il fine dell’universo? e perché il dolore?) quelle domande che il filosofo vero ed adulto allontana da sé come assurde e prive di un autentico valore speculativo e tali che non comportano risposta alcuna né possibilità di svolgimento, proprio quelle diventarono l’ossessione di Leopardi, il contenuto esclusivo della sua filosofia» (N. Sapegno, Disegno storico della letteratura italiana).
Omero, Sofocle, Virgilio, Dante, Beethoven sarebbero degli adolescenti, perché tutta la loro espressione è determinata da quelle domande.
Io sono ben lieto di stare nella compagnia di quelli, perché un uomo che azzera la questione non è un uomo «umano»
(90) Impermeabilità, aridità totale.
Ma questo diventa l’ideale di tanta letteratura contemporanea.
Vorrei invitare a leggere il finale di “Addio alle armi” di Hemingway: l’uomo che supera il dolore per la morte della propria donna, andandosene fischiettando – questo è l’uomo razionale, padrone di sé.
(100) Questo «non ci spero» (da una testo di Kerouac) è evidentemente una opzione, una scelta suggerita certamente dall’esperienza dolorosa: ma la negazione non copre, non dà ragione di tutti i fattori in gioco.
Domanda
(Vedi anche preghiera)
(72) La morte è l’origine e lo stimolo a tutta la ricerca, perché l’insondabilità della domanda umana, trova proprio lì la contraddizione più potente e sfrontata.
Ma questa contraddizione non toglie, bensì esaspera la domanda.
(74ss) Questa domanda ultima è costitutiva dell’individuo, e in tal senso l’individuo è totalmente solo: lui stesso e quell’interrogativo e nient’altro.
Perciò se si guarda un uomo, una donna, un amico, un passante senza che echeggi in noi il riverbero di quella domanda, di quella sete di destino che lo costituisce, il nostro non sarebbe un rapporto umano.
La stessa domanda, però, nel medesimo istante in cui definisce la mia solitudine pone la radice della mia compagnia, perché significa che io sono costituito da un’altra cosa, sia pur misteriosa.
Tale compagnia è poi più originale della solitudine in quanto quella struttura di domanda non è generata da un mio volere, mi è data.
(75) Pär Lagerkvist (Premio nobel letteratura 1951)
«Uno sconosciuto è il mio amico, uno che io non conosco
Uno sconosciuto lontano lontano.
Per lui il mio cuore è colmo di nostalgia.
Perché egli non è presso di me.
Perché egli forse non esiste affatto?
Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza
Che colmi tutta la terra della tua assenza?».
Se la natura dell’uomo è indomabilmente alla ricerca di una risposta; se la struttura dell’uomo dunque è questa domanda irresistibile ed inesauribile, si sopprime la domanda se non si ammette l’esistenza di una risposta.
Solo l’esistenza del mistero è adeguata alla struttura di mendicanza che l’uomo è.
Egli è insaziabile mendicanza e ciò che gli corrisponde è qualcosa che non è se stesso, che non si può dare, che non può misurare, che l’uomo non sa possedere.
«Il mondo senza Dio sarebbe una favola raccontata da un idiota in un accesso di furore» (W. Shakespeare, Macbeth)
(76) (Ho inteso sottolineare) … ciò che il senso religioso sia in noi , come emerge alla nostra coscienza: una domanda di totalità costitutiva della nostra ragione, cioè della capacità che l’uomo ha di conoscenza, della sua apertura a inoltrarsi ed ad abbracciare sempre più la realtà.
E non solo pone la domanda, ma vi risponde, affermando un «ultimo»: per ciò stesso che uno vive cinque minuti, afferma l’esistenza di un quid per cui valga la pena in fondo in fondo vivere quei 5 minuti.
Perciò a quelle domande costitutive noi diamo risposta: coscientemente ed esplicitamente, o praticamente o incoscientemente.
(129s) Il senso cattivo del termine «preconcetto» è là dove l’uomo si metta di fronte alla realtà proposta, avendo quella reazione come criterio di giudizio, e non soltanto come condizionamento da superare in una apertura di domanda.
Per quanto ci riguarda due sono le radici principali di un preconcetto bloccante.
- Il pregiudizio materialistico. È la posizione testimoniata da un brano di Pavese giovanissimo (Diciassette anni):
«Una volta giunti al materialismo non c’è più da andare avanti … mi dibatto per tirarmi su, ma mi convinco sempre più che non c’è nulla da fare» (Pavese, lettere 1924-1944).
2) Quella che io chiamerei «l’autodifesa sociale del preconcetto» Mi pare sia bene indiziata da un brano del Gorgia di Platone:
Socrate: «È l’attaccamento alla mentalità comune del popolo, radicato nell’anoma tua, che mi è di ostacolo».
(135) Vorrei chiedere a quell’uomo (un papà che invitava la figlia a non impegnarsi con le domande ultime): perché quelle domande, se costituiscono una apertura inerente alla natura, sarebbero insensate? C’è una sola risposta, mi pare: perché lo dice lui.
Uno ha dentro questa domanda, e siccome la risposta è più grande della sua capacità di afferrare e immaginare, definirla per ciò stesso «illusione» è ripetere la favola esopica della volpe e dell’uva acerba.
(141) E’ lo stupore (di fronte alla inesorabile presenza) che desta la domanda ultima dentro di noi: non una registrazione a freddo, ma meraviglia gravida di attrattiva, come una passività in cui nello stesso istante viene concepita l’attrattiva.
La religiosità è innanzitutto l’affermarsi dell’attrattiva.
(159) L’esigenza è una domanda che si identifica con l’uomo, con la persona. Senza la prospettiva di un oltre la giustizia è impossibile.
(165) Non sarà inutile risottolineare che la soluzione della grande domanda sulla vita, che costituisce la ragione, non è una ipotesi astratta, è una implicazione esistenziale, perché l’esigenza è una esperienza vissuta.
(176ss) Educazione ad un atteggiamento di domanda.
(177) Qual è l’atteggiamento giusto di fronte alla realtà?
È la permanenza della posizione originale in cui la natura formula l’uomo.
E tale atteggiamento originale, sigillo nativo impresso all’uomo dalla natura, è l’atteggiamento dell’attesa come domanda.
Nel bambino tutto ciò è curiosità: attesa e domanda.
Nell’uomo è attesa e ricerca.
Una reale ricerca implica sempre una ipotesi ultima la risposta positiva: altrimenti uno non cerca.
Domande costitutive
(59) Il fattore religioso rappresenta per la natura del nostro io, in quanto si esprime in certe domande: «Qual’è il significato ultimo dell’esistenza?», «Perché c’è il dolore, la morte, perché in fondo vale la pena vivere?».
O, da un altro punto di vista: «Di he cosa è fatta la realtà?»
Ecco, il senso religioso si pone dentro la realtà del nostro io a livello di queste domande: coincide con quel radicale impegno del nostro io con la vita, che si documenta in queste domande.
(61ss) Queste domande si attaccano al fondo del nostro essere, sono inestirpabili, perché costituiscono come la stoffa di cui è fatto.
San Paolo all’Aeropago quando discorre con gli ateniesi della ricerca di una risposta alle domande ultime che fanno parlare il fondo del nostro essere, le identifica con quell’energia che signoreggia, provocandola, sostenendola, ridefinendola continuamente, tutta la mobilità umana, compresa la mobilità stessa dei popoli, questo loro girovagare per il mondo alla «ricerca del dio», di «lui » che dà a ognuno la vita, il respiro, tutto.
In queste domande l’aspetto decisivo è offerto dagli aggettivi e dagli avverbi: qual è il senso ultimo della vita, in fondo in fondo di che cosa è fatta la realtà? Per che cosa vale veramente la pena che io sia, che la realtà sia?.
Sono domande che esauriscono tutta l’energia di ricerca della ragione.
Sono domande che esigono una risposta totale che copra l’intero orizzonte della ragione, esaurendo tutta la categoria delle possibilità.
(62) Se solo rispondendo a mille domande fosse esaurito il senso della realtà e l’uomo trovasse la risposta a 999 di esse, sarebbe irrequieto e insoddisfatto come fosse da capo.
C’è nel Vangelo un richiamo interessante a questa dimensione: «Che giova all’uomo possedere tutto il mondo, se poi smarrisce il significato di sé? o che darà l’uomo in cambio di sé?» (Mt 16, 26).
Questo «sé» non è niente altro che esigenza clamorosa, indistruttibile e sostanziale ad affermare il significato di tutto.
Sembra giusto applicare alla urgenza di questa affermazione con analogia scoperta quello che Il pensiero dominante di Leopardi dice del sentimento umano dell’amore:
Leopardi – Pensiero dominante
Dolcissimo possente
Dominator di mia profonda mente;
Terribile, ma caro
Dono del ciel; consorte
Ai lugubri miei giorni,
Pensier che innanzi a me sì spesso torni.
Di tua natura arcana
Chi non favella? Il suo poter
Fra noi chi non sentì?[...]
Come solinga è fatta
La mente mia d’allora
Che tu quivi prendesti a far dimora!
Ratto d’intorno al par del lampo
Gli altri pensier miei si dileguar. Siccome torre
In solitario campo
Tu stai solo, gigante, in mezzo a lei.
(63) Quanto più uno s’addentra nel tentativo di rispondere a quelle domande, tanto più ne percepisce la potenza, e quanto più scopre la propria sproporzione alla risposta totale.
È l’argomento drammatico dei Pensieri di Leopardi:
«Il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, della terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovar che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancor più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose di insufficienza e di nullità, e patire mancamento e vòto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana».
L’inesauribilità della domanda esalta la contraddizione fra l’impeto dell’esigenza e la limitatezza della misura umana nella ricerca.
Eppure noi leggiamo volentieri un testo in quanto vibrazione di quelle domande e la drammaticità di quella sproporzione ne sottende la tematica.
Se ci commuove la potenza e l’acutezza della sensibilità di Leopardi è perché dà voce a qualcosa che siamo, una contraddizione irrisolvibile: il «misterio eterno dell’esser nostro» del canto Sopra il ritratto di una bella donna.
«Desiderii infiniti
E visioni altere
Crea nel vago pensier,
Per natural virtù dotto concento;
Onde per mar delizioso, arcano
Erra lo spirto umano;
Quasi come a diporto
Ardito notator per l’Oceano:
Ma se discorde accento
Fere l’orecchio, in nulla
Torna quel paradiso in un momento.
Natura umana, or come
Se frale in tutto e vile,
Se polve ed ombra sei, tant’alto senti?
Se in parte anco gentile,
Come i più degni tuoi moti e pensieri
son così leggeri
Da sì basse cagioni e desti e spenti?»
(72) L’orizzonte a cui l’uomo arriva è come un segno di tomba.
La morte è l’origine e lo stimolo a tutta la scienza, perché l’insondabilità della domanda umana, proprio lì trova la contraddizione più potente e sfrontata.
Ma questa contraddizione non toglie, bensì esaspera la domanda.
(76) Questa lunga puntualizzazione esistenziale ha inteso sottolineare ciò che il senso religioso sia in noi, come emerga alla nostra coscienza: domanda di totalità costitutiva della nostra ragione, cioè della capacità che l’uomo ha di conoscenza, della sua apertura ad inoltrarsi e ad abbracciare sempre più la realtà.
Per ciò stesso che un uomo vive pone queste domande, perché è la radice della sua coscienza del reale.
E non solo pone la domanda, ma vi risponde, affermando un «ultimo»: perché per ciò stesso che uno vive cinque minuti, afferma l’esistenza di un quid per cui valga la pena in fondo in fondo vivere quei 5 minuti.
Perciò a quelle domande costitutive noi diamo risposta: coscientemente ed esplicitamente; o praticamente e incoscientemente.
(79ss) Chiamo negazione teoretica delle domande il fatto che quelle grandi domande, quegli interrogativi vengono definiti senza senso.
(80) Le frasi che esprimono tali domande avrebbero consistenza solo formale.
(81) John Dewey afferma: «Abbandonare la ricerca della realtà e del valore assoluto e immutabile può sembrare un sacrificio, ma questa rinuncia è la condizione per impegnarsi in una vocazione più vitale».
(82) Ma abbandonare la ricerca della realtà , del valore assoluto e immotabile è un sacrificio tale per cui la gente si può anche ammazzare.
Si dovrebbe infatti abbandonare qualche cosa a cui la natura ci spinge: e questo è irrazionale, questo è disumano.
È una posizione non adeguata ai termini del problema.
(82) Sostituzione volontaristica delle domande
Se si toglie l’energia dinamica che quelle domande determinano, il moto che imprimono alla nostra umanità; se si svuotano di contenuto quelle domande che costituiscono appunto l’espressione del meccanismo essenziale, il motore della nostra personalità, in che cosa potrà consistere una energia che ci faccia agire?
L’energia che ci fa agire si riduce a una affermazione di sé.
Lo strumento dell’affermazione di noi stessi è la volontà: perciò si può trattare solo di una energia, di una affermazione volontaristica.
(86ss) Negazione pratica delle domande.
In questo caso le domande pungono, fanno male.
Bisogna impostare la vita in modo tale che quelle domande non vengano a galla.
- La prima sfumatura è quella generale, nota a tutti, anche a noi: «Non pensarci!»
- Un’altra sfumatura: la società crea interessi per oscurare il grande interesse della domanda essenziale, la domanda di significato.
- Atarassia: a quelle domande non è possibile dare una risposta: dunque occorre anestetizzarci di fronte ad esse. Ecco l’uomo dignitoso e saggio che si allena al governo di sé e si costruisce un equilibrio totalmente razionale da lui immaginato e da lui realizzato, e questo equilibrio lo rende fermo, impavido di fronte a tutte le vicende.
(87) Dov’è l’errore della cultura di oggi? Essa scorda le premesse: esse sono nella coscienza dell’uomo, nell’uomo che grida quelle ultime domande.
E quelle domande penetrano i rapporti che si hanno con i figli, con gli amici, gli estranei; penetrano il lavoro e il sostentamento; penetrano il modo di dire: «Che bella giornata!» penetrano il modo con cui uno affronta il problema sociale.
(95ss) Evasione estetica o sentimentale
L’uomo accetta le domande, le misura e le calibra con il sentimento, ma non c’è impegno personale con l’io.
Non c’è un impegno della propria libertà, ma soltanto compiacimento espressivo del riverbero emotivo che l’interrogativo suscita.
La ricerca del senso della vita, l’urgenza, l’esigenza di un senso della vita diventa uno spettacolo di bellezza, assume una forma estetica.
Carducci
«Contessa che è mai la vita? \ E’ l’ombra di un sogno fuggente. \ La favola breve è finita \ il vero immortal è l’amore»
(96) La serietà esistenziale delle domande umane non può trovarsi a suo agio nell’evanescente estetismo di un loro riverbero. Di fronte a una madre a cui muoia un figlio ciò non basta; e neanche a chi abbia perso un lavoro.
Mentre l’urgenza del nostro sentire apre alla vita nella sua concretezza e completezza, non può fermarsi a metà strada, crogiolandosi in una esperienza emotiva che diventa evasione e spreco.
(98ss) La negazione disperata della domanda
Di tutti gli atteggiamenti questo è il più drammatico, il più appassionante il più serio.
È la negazione della possibilità di risposta alle domande.
È tanto più vivido questo atteggiamento, quanto più si sentono le domande.
È l’atteggiamento più drammatico perché qui gioca, tra il sì e il no, la pura opzione dell’uomo.
(99) Quello che Adorno chiama ossessione è la struttura dell’uomo, è quello che chiamavamo «cuore» o esperienza elementare: negarla è rinnegare qualcosa, è irragionevole, è disumano.
Pavese: «Perché attendiamo?» Ecco l’ossessione: è la struttura della nostra vita che è promessa come abbiamo già visto; l’inevitabilità delle domande profonde è l’emergere della promessa.
Dimenticare o rinnegare questo è irrazionale.
Tre sottolineature degli atteggiamenti conseguenti:
(100) L’impossibile aspirazione (la speranza impotente), più che una aperta opzione negativa è spesso come l’arrestarsi smarrito sulla soglia della conclusione vera – come l’essere prigioniero di un interrogativo che rinnova continuamente l’originale ferita-
(101)La realtà come illusione. Montale in «Ossi di seppia»:
«Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
Arida, rivolgendomi , vedrò compiersi il miracolo:
Il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
Di me, con un terrore ubriaco.
Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
Alberi case colli con l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me ne andrò zitto
Tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto».
(102) La poesia di Montale sorprende l’uomo nel suo momento vertiginoso in cui sceglie per l’abisso, questa di Pavese è la descrizione della realtà dell’abisso:
«Tu sei come una terra
che nessuno ha mai detto
Tu non attendi nulla
se non la parola
che sgorgherà dal fondo
come un frutto tra i rami.
C’è un vento che ti giunge.
Cose secche e rimorte
t’ingombrano e vanno nel vento.
Membra e parole antiche.
Tu tremi nell’estate»
(103) L’alienazione.
Secondo questa ultima posizione la vita ha un senso tutto positivo, ma si nega che questo senso abbia verità per la persona, sia per la persona.
La dinamica spirituale della persona e il meccanismo evolventesi della realtà sociale sono finalizzati a questo futuro, e il fenomeno nel suo complesso viende indicato con questa parola supremamente equivoca: il progresso.
Questa ottica considera le domande fondamentali dell’uomo come stimolo funzionale alla edificazione di tale progresso, quasi una specie di gherminella con cui la natura ti costringe a servire il suo progetto irreversibile.
Ma c’è una obiezione radicale.
Le domande fondamentali segnano l’emergere della natura proprio della dimensione personale dell’uomo, della originalità irriducibile della sua personalità.
Quelle domande costituiscono la mia persona, si identificano con la mia ragione e coscienza, sono il contenuto della mia autocoscienza: la loro soluzione.
L’avverarsi del loro significato deve toccare me, riguarda direttamente me.
Una risposta non è data, se non è data a me.
È impossibile far consistere la risposta a quelle domande in una realizzazione che tocchi una collettività in un ipotetico futuro, senza dissolvere l’identità dell’uomo, senza alienarlo in una immagine, dove la trama profonda di urgenze ed esigenze del suo io resta inevasa, frustrata
Le domande sono il mio io: e nella soluzione progressista l’io non ha risposta, l’io è alienato.
(109) Le conseguenze di quanto sopra
- La rottura con il passato
- La solitudine dell’uomo
- Eliminazione della libertà proprio come caratteristica antropologica e sociale.
(139) Come di destano le domande ultime
- Stupore della presenza che genera attrattiva
- Il cosmo: l’ordine che c’è nella realtà
- La realtà risulta essere provvidenziale
- L’uomo prende coscienza della sua dipendenza
- Scoperta della legge, “dentro l’io”, del bene e del male
(162) La risposta c’è, perché grida attraverso le domande costitutive del nostro essere, ma non è misurabile dalla esperienza.
C’è ma non si sa cosa è.
Dono
(140) Lo stupore, la meraviglia di questa realtà che mi si impone, di questa presenza che mi investe, è all’origine del risveglio dell’umana coscienza.
Perciò il primissimo sentimento dell’uomo è quello di essere di fronte a una realtà che non è sua, che c’è indipendentemente da lui e da cui dipende.
Tradotto empiricamente è la percezione originale del dato.
La parola che traduce in termini totalmente umani il vocabolo “dato”, e quindi il primo contenuto dell’impatto della realtà, è la parola dono.
Un suo totalmente umano di questa parola, «dato», nel senso che uno vi applica tutte le implicazioni della sua persona, tutti i fattori della sua personalità, la rende viva: «dato», participio passato, implica qualcosa che «dia».
La parola che traduce in termini totalmente umani il vocabolo «dato», e quindi il primo contenuto dell’impatto con la realtà, è la parola dono.
Ma, senza arrestarci a questa conseguenza, la stessa parola «dato» è vibrante di una attività, davanti alla quale sono passivo: ed è una passività che costituisce l’originaria attività mia, quella di ricevere, del constatare, del riconoscere.
(143) La prima originale intuizione è, quindi, lo stupore del dato e dell’io come parte di questo dato, esistente.
Prima vieni colpito e poi ti accorgi di te che sei colpito.
È qui che si origina il concetto della vita come dono, in mancanza del quale non possiamo usare delle cose senza inaridirle.
Drammaticità
(60) Ecco potremmo dire che il senso religioso è quella caratteristica che qualifica il livello umano della natura e che si identifica con l’intuizione intelligente e l’emozione drammatica con cui l’uomo, guardando la propria vita e i propri simili dice: «siamo come le foglie». «Lungi dal proprio ramo, povera foglia frale dove vai tu?».
Il senso religioso è lì, a livello di queste emozioni, dicevo, intelligenti e drammatiche, inevitabili, anche se il clamore o l’ottusità della vita sociale sembrano volerle tacitare:
«E tutto cospira a tacere di noi,
un pò come si tace
un'onta, un pò come si tace
una speranza ineffabile» (R.M.Rilke, «Elegia II, vv. 42-44)
(63) L’inesauribilità della domanda esalta la contraddizione fra l’impeto dell’esigenza e la limitatezza della misura umana nella ricerca.
Eppure noi leggiamo volentieri un testo in quanto vibrazione di quelle domande e la drammaticità di quella sproporzione ne sottende la tematica.
(98) La negazione disperata. Di tutti gli atteggiamenti erronei questo è il più drammatico, il più appassionante il più serio.
È la negazione della possibilità di risposta alle domande.
È tanto più vivo questo atteggiamento, quanto più si sentono le domande.
(127) E dove la dignità assoluta dell’uomo è stata affermata con più perentoria drammaticità che nella frase già citata:
«Che importa se ti prendi l’universo e poi perdi te stesso? O che darà l’uomo in cambio di sé stesso?»MT 16,26).
(142) La dipendenza originale dell’uomo è ben indicata nella Bibbia, nel drammatico dialogo (duello) tra Dio e Giobbe, dopo che questi si era abbandonato al lamento ribelle.
(172) Se tu invece non sei nell’atteggiamento originale, cioè se sei alterato, bloccato nel pregiudizio, allora sei immorale, e non puoi capire.
È questa la drammaticità suprema della vita dell’uomo.
(188) (Giacobbe) Questa è la statura dell’uomo nella rivelazione giudaico-cristiana.
La vita, l’uomo, è lotta , cioè tensione, rapporto – nel «buio» – con l’aldilà; una lotta senza vedere il volto dell’altro.
Chi giunge a percepire questo di sé è un uomo che se ne va, tra gli altri, zoppo, vale a dire segnato; non è più come gli altri uomini, è segnato
Dubbio
(178) La posizione di dubbio rende incapaci di agire.
La cosa più terribile è porsi di fronte alla realtà con una ipotesi non dico negativa, ma sospensiva: non ci si muove più.
Se uno parte da una ipotesi negativa, anche se qualcosa c’è non trova; se uno parte da una ipotesi positiva, se qualcosa c’è può trovare, se non c’è non troverà.
Non esiste niente di più patologico e improduttivo del dubbio sistematico.
A–B–C–D–E–F–G–I–L–M/N–O–P–R–S–T–U–V
I Temi di alcuni libri di don Giussani
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- TEMI – Perché la Chiesa
- TEMI – Il rischio educativo
- TEMI – Generare tracce nella storia del mondo
- TEMI di Si può vivere così?
- TEMI di Si può (veramente) vivere così?
Temi degli ESERCIZI – Collana “Cristianesimo alla prova”
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- TEMI – La convenienza umana della fede (85-86-87)
- TEMI – La verità nasce dalla carne (88-89-90)
- TEMI – Un avvenimento nella vita dell’uomo (91-92-93)
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- TEMI – Dare la vita per l’opera di un Altro (97-98-99)
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