Temi di “All’origine della pretesa cristiana”

ABCDEFGILMOPRSTUV

Lettera «I»



Ideale

(19) Questa posizione è resa ufficiale dal razionalismo moderno e contemporaneo: solo conoscendo tutte le religioni un individuo potrebbe scegliere quella che in coscienza gli sembri la più opportuna o più vera.

Ma qui si rivela l’astrattezza di tale posizione: non è un ideale, ma una utopia.

Infatti suggerirebbe un lavoro praticamente irrealizzabile.

Sperare di conoscere tutte le religioni per poter poi procedere a scegliere la migliore è utopico, e ciò che è utopico è falsamente ideale.

L’ideale è la dinamica in cammino della natura dell’uomo e a ogni passo qualcosa di esso si adempie.

L’utopia è fuori da questa natura; essa è un sogno sovrapposto ad esso, spesso pretesto per sfuggire o per forzare la realtà.

L’utopia è sempre violenta.

(100) Essenso in gioco l’elementare rapporto del particolare con il tutto, essa (la moralità) è più definibile come apertura originale dell’animo; come un originale atteggiamento di disponibilità e di dipendenza, non di autosufficienza; come una volontà di affermazione dell’essere, non di sé.

Eticamente tutto ciò si esprime come confronto vissuto di sé con un ideale che ci supera, quindi come umiltà che vive nello sforzo di migliorare sé e che si esprime nel desiderio sincero o, almeno, nel disagio per il proprio male.

(114) L’ideale segnato da Gesù si può tradurre esistenzialmente così: «Prega più che puoi».

È la formula della coscienza di fronte all’Ideale: è la formula della libertà per l’uomo in cammino.


Identificato – identificazioneidentificare

(41s) Occorre ben rendersi conto che il problema riguarda una questione di fatto.

Se Cristo abbia detto o no di essere Dio, e che sia o non sia Dio, e che ci raggiunga anche oggi, è un problema storico, perciò il metodo deve essere corrispondente, e corrispondente alla gravità del problema.

L’annuncio cristiano è: un uomo che, mangiando, camminando, consumando normalmente la sua esistenza di uomo ha detto: «Io sono il vostro destino», «Io sono Colui di cui tutto il cosmo è fatto».

(42) E’ obiettivamente l’unico caso della storia in cui un uomo si sia «genericamente» divinizzato ma sostanzialmente identificato in Dio.

Dal punto di vista della storia del sentimento religioso dell’umanità occorre osservare che la genialità religiosa dell’uomo quanto più è grande tanto più percepisce, sperimenta la sua distanza da Dio o la supremazia di Dio, la sproporzione tra Dio e l’essere umano.

Quanto più un uomo ha il genio religioso tanto meno sente la tentazione di identificarsi con il divino.

L’uomo può sì agire «fingendosi Dio», ma storicamente è impossibile concepire una identificazione.

L’uomo non può strutturalmente identificare la sua evidente parzialità con il tutto, eccetto che per una clamorosa, manifesta patologia.


(81ss) Il momento dell’identificazione.

Dio si identificava con la sua parola, con la storia del popolo, vale a dire con i testi, con la Bibbia come storia di una nazione.

(82) Gesù rispose alla domanda «Tu chi sei?» attribuendo a sé gesti e ruoli che gelosamente la tradizione ebraica riserva a Jahvè.

Egli così si identificò con Dio.

Questa identificazione è soprattutto con tre flessioni:

  • Origine della legge: Gesù ha identificato sé stesso con l’origine della legge. Gesù modifica ciò che per il fariseo rappresentava il divino comunicato all’uomo, identificando sé stesso con la fonte della legge.
  • (83) Il potere di rimettere i peccati. Ricordiamo l’episodio del paralitico guarito, quando Gesù rivendica a sé il potere di rimettere i peccati, e lo rivendica in modo fattuale, oltre che con la parola. La gente rimase impressionata dal prodigio, ma esso rimandava ad altro.
  • (84/85) Identificazione con il principio etico: Gesù si è posto come discriminante tra il bene e il male, non tanto come giudice, ma come criterio di identità. Questo pur restando nell’ottica di una implicitezza, è l’affermazione più potente che Cristo aveva della sua identità con il divino. Questo, pur restando in un’ottica di implicitezza, è l’affermazione più potente della coscienza che Cristo aveva della sua identità con il divino.

(96) Evidentemente le autorità religiose del tempo riconoscevano in quella frase dell’uomo di Nazareth una identificazione con il divino, una pretesa sentita come confusione tra la realtà umana e quella divina, che giustificava l’accusa di bestemmia.

La condanna a morte di Gesù davanti al Sinedrio fu per bestemmia, così come fu esplicitata al governatore romano: «Perché s’è fatto Figlio di Dio».


Illuminismo – illuminista


Pretesa illuminista

(20) Un ultima immagine dell’astratta pretesa illuminista è l’idea sincretista: quella di creare una specie di religione universale che via via prenda da tutte le religioni il meglio; sempre quindi cangiante, una sintesi del meglio dell’umanità

Ma non ci si accorge come il meglio per l’uno può non essere il meglio per l’altro.

Ci troviamo di fronte alla classica presunzione di una società per cui il popolo deve essere supino alla volontà di un gruppo di illuminati.

(136) Contro il fatto cristiano e il fatto dell’Incarnazione si è scatenato lungo i secoli un «dogma» tenace che, pretendendo di fissare i limiti dell’azione di Dio, ne dichiara l’impossibilità a farsi uomo.

Da ciò discende il dogma moderno di tutta la cultura illuminista.

È l’ultima latitudine cui si può spingere la pretesa idolatrica, la pretesa cioè di attribuire a Dio ciò che alla ragione aggrada o ciò che la ragione decide.


Cultura illuminista

(136) Contro il fatto dell’Incarnazione si scatena lungo i secoli il «dogma» tenace che, pretendendo di fissare i limiti dell’azione di Dio, ne dichiara l’impossibilità a farsi uomo.

Da ciò discende il dogma moderno di tutta la cultura illuministica, che ha agito, purtroppo, così radicalmente per riverbero anche sulla cosiddetta «intellighenzia» cattolica: quello della divisione fra fede e realtà mondana con i suoi problemi.

Questo atteggiamento costituisce esattamente lo specchio dell’infantile proibizione che l’uomo  dà a Dio di intervenire nella vita dell’uomo.

È l’ultima latitudine cui si può spingere la pretesa idolatrica, la pretesa cioè di attribuire a Dio ciò che alla ragione aggrada o ciò che la ragione decide.


Immaginare – immaginazione

(13ss) Di fronte all’enigma ultimo l’uomo ha cercato di immaginare e di definire tale mistero in rapporto a sé, di concepire quindi un modo di relazione con esso e di esprimere tutti i riflessi estetici che l’immaginazione di quest’Ultimo gli dava.

Lo sforzo di immaginazione del rapporto con il Mistero è strettamente in funzione del nesso con il reale, e perciò espressione ragionevole.

(14) L’uomo ha cercato di immaginare la relazione che intercorre tra il punto effimero della sua esistenza e il significato totale di essa.

La religione è l’insieme espressivo di questo sforzo immaginativo, ragionevole nel suo impulso e vero per la ricchezza cui può attingere anche se degenerabile nella distrazione e nella volontà di possesso del mistero.

Ogni uomo compie, lui personalmente, per ciò stesso che esiste, questo tentativo di identificare, di immaginare ciò che dà senso.

(15) Di fronte al mistero che percepisce come determinante per sé, l’uomo ne riconosce la potenza e, non resistendo ad affidarsi sine glossa a un “ignoto”, cerca comunque di immaginarlo in rapporto a sé, secondo termini in funzione di sé.

(23) Di fronte al suo destino, al senso ultimo di sé, l’uomo immagina le sue vie, proiezione delle sue risorse, ma, nella misura della serietà del suo pensiero e della sua emozione, soffre l’enigma ultimo come bufera di incertezza o solitudine di smarrimento.

Unico aiuto adeguato alla riconosciuta impotenza dell’uomo non può essere che il divino stesso, quella divinità nascosta, il mistero, che in qualche modo si coinvolga con la fatica dell’uomo illuminandolo sostenendolo nel suo camminare.

(35) Nell’ipotesi che il mistero sia penetrato  nell’esistenza dell’uomo parlandogli in termini umani, il rapporto uomo-destino non sarà  più basato su uno sforzo umano, come costruzione e immaginazione, su uno studio volto a una cosa lontana, enigmatica, tensione di attesa verso un assente.

Sarà invece l’imbattersi in un presente.

Questo è il capovolgimento.

Non è più centrale uno sforzo di una intelligenza e di una volontà costruttiva, di una faticata fantasia, di un complicato moralismo: ma la semplicità di un riconoscimento; un atteggiamento analogo a chi, vedendo arrivare un amico, lo individua tra gli altri e lo saluta.


Imperativo cristiano

(39s) Che il cristianesimo ti è stato annunciato significa che tu devi prendere posizione di fronte a Cristo.

(40s)

Limperativo cristiano è che il contenuto del messaggio suo si pone come un fatto.

Ciò non è mai sottolineato a sufficienza.

Un’insidiosa slealtà culturale ha reso possibile, per l’ambiguità e la fragilità anche dei cristiani, la diffusione di una vaga idea di cristianesimo come discorso, dottrina e perciò magari favola o morale.

No: è anzitutto un fatto, un avvenimento, un uomo che è entrato nel novero degli uomini.

L’imperativo riguarda però un’altra flessione del fatto: la venuta di quell’uomo è una notizia trasmessa fino a oggi, fino a oggi quell’evento è stato proclamato, annunciato, come l’evento di una Presenza.

Che un uomo abbia detto: «Io sono Dio» e che questo venga riferito come un fatto presente è qualcosa che richiede prepotentemente una presa di posizione personale.

Ecco perché la società così spesso non vuol saperne di questo annuncio, vuole confinarlo nelle chiese, nelle coscienze.

Ciò che disturba è proprio la percezione della enormità dei termini del problema: che Egli sia o non sia esistito; meglio constatare o non constatare che Egli sia, o sia esistito, questa è la decisione più importante dell’esistenza.

(41) Nessun altra scelta chela società può proporre o l’uomo immaginare come importante haquesto valore.


Implicito

(74) Gesù seguì un alinea educativa nella quale dapprima tradusse in espressione implicite e concrete quell’idea che alla fine doveva esprimere apertamente.

La concretezza – l’idea che si incarna – e l’implicito – far capire senza definire astrattamente – restano la più naturale ed efficace linea educativa.

Non esisteva neanche per i discepoli più vicini la possibilità di capire la portata di una risposta immediata e diretta alla loro domanda.


Incarnarsi

(33s) Ma che significa incarnarsi?

Significa supporre che la «X» misteriosa sia diventata un fenomeno, un fatto normale rilevabile nella traiettoria storica e agente su di essa.

(34) Questa supposizione corrisponderebbe alla esigenza della rivelazione.

(127ss) Tutta quanta la vita di Gesù ci ha dimostrato una profonda capacità di dominio della natura: essa gli obbediva, come un servo obbedisce al padrone. .

Il potere di Gesù non era sporadico.

Inoltre, questa attività miracolosa Egli compiva con tranquillità sovrana, senza bisogno di nulla: guariva a distanza, comandava alla realtà impersonale della natura.

(128) Ci siamo trovati di fronte all’affermazione di una realtà storica straordinaria: uomo Dio.

L’origine di questo fatto, di questa realtà si è chiamata nella tradizione cristiana, Incarnazione.

(129) In quanto opera divina l’Incarnazione è un mistero.

(130) Il fatto dell’Incarnazione è infine una trascendente risposta a una esigenza umana che il grande genio ha sempre saputo intuire.

(131) Quella «X» smisurata cui si tende ultimamente è diventata presenza, è diventata Qualcun Altro; Qualcun Altro è diventato la nostra misura.

(132) Che Gesù sia uomo-Dio non significa che Dio si sia «trasformato in uomo», ma significa che la Persona divina del Verbo possiede, insieme alla natura divina, anche la natura umana concreta dell’uomo Gesù.

Il mistero dell’Incarnazione stabilisce il metodo che Dio ha creduto opportuno scegliere per aiutare l’uomo ad andare da Lui.

Questo metodo si può riassumere così: Dio salva l’uomo attraverso l’uomo.

(133) Questo metodo si prolunga nella storia.

Se Gesù è venuto, è, permane nel tempo con la sua pretesa unica, irripetibile, e trasforma il tempo e lo spazio, tutto il tempo e tutto lo spazio.

Dobbiamo sottolineare la resistenza istintiva che la ragione può avere di fronte all’annuncio dell’Incarnazione.

(134) Se questo Avvenimento è vero, tutta la vita, anche sensibile, anche sociale, deve ruotare attorno ad esso.

Ed è proprio questa percezione da parte dell’uomo d’essere scalzato come misura di sé che pone l’uomo in termini di rifiuto.

(135) Il fatto dell’Incarnazione costituisce uno spartiacque, sia nel campo della storia delle religioni sia nella comprensione stessa dell’esperienza cristiana, come è storicamente rilevabile dalle numerose eresie che sono state l’occasione dell’appassionato dibattito su Cristo nei primi secoli.

(136) Contro il fatto dell’Incarnazione si scatena lungo i secoli il dogma tenace che, pretendendo di fissare i limiti di Dio, ne dichiara l’impossibilità a farsi uomo.

È l’ultima latitudine cui si può spingere la pretesa idolatrica, la pretesa cioè di attribuire a Dio ciò che alla ragione aggrada o ciò che la ragione decide.

Il fatto dell’Incarnazione, l’inconcepibile pretesa cristiana è rimasto nella storia sostanzialmente nella sua interezza.

Il cristianesimo è un avvenimento che è stato annunciato nei secoli e ci raggiunge ancor oggi.

(137) Il vero problema è che l’uomo lo riconosca con amore.


Incontro

(35s) La metodologia religiosa perderebbe in questa ipotesi tutti i suoi connotati inquietanti di rimando enigmatico a una lontananza, e coinciderebbe con la dinamica di un’esperienza, l’esperienza di un presente, l’esperienza di un incontro.

Nella dinamica rivelativa di questa ipotesi l’accento primo non sarebbe più sulla genialità e sull’intraprendenza, ma sulla semplicità e sull’amore.

Amore che rappresenta l’unica vera dipendenza dell’uomo, l’affermazione dell’Altro come consistenza di sé stessi, scelta suprema della libertà.

In una simile ipotesi l’affermazione dell’unicità della strada che ne consegue non sarebbe più espressione di una presunzione, ma obbedienza a un fatto, al Fatto decisivo del tempo.

Rimane lo spazio a una sola fuga: negare la possibilità stessa di questo Fatto.

(46ss) La convinzione nasce sempre da qualcosa che si «dimostra».

La dimostrazione di cui stiamo parlando viene offerta dall’incontro evidente con un fatto, della presa di contatto con un avvenimento.

(47) Occorre essere disposti a farsi provocare dalla totalità del fatto, che non consiste nell’inventario completo dei suoi fattori.

Quel racconto che stiamo per affrontare ha per scopo percorrere le tappe di un incontro avvenuto con il portatore e l’oggetto della più straordinaria pretesa rivelativa della storia umana.

(48) Un fatto è un criterio alla portata di chiunque.

Un fatto si può incontrare, nel fatto ci si può imbattere, purché ci si sia messi nelle condizioni di vederlo.


Intelligenza

(49ss) Quanto più uno è potentemente uomo, tanto più è capace di raggiungere certezze sull’altro da pochi indizi.

Questo è propriamente il «genio dell’umano»: più l’intelligenza è agile e penetrante e più le basta un indizio tenue per indurre con certezza una conclusione.

(50) Anche questa intelligenza del minimo indizio, ha bisogno di spazio e tempo perché arrivi a essere evoluta.

È all’intelligenza che Gesù fa costantemente appello.

Il rimprovero costante sulla sua bocca è: non comprendete? Non avete intelligenza?

Questa fede è precisamente l’accesso a una verità, il riconoscimento di questa verità, il sì dell’intelligenza convinta e non una rinuncia all’intelligenza.

Il credere nei Vangeli è questa scoperta, questa intelligenza della verità che è proposta.

(51) L’intelligenza dell’uomo oggi non è sufficientemente allenata a una serie di operazioni vitali a causa di stratificazioni di pregiudizi che l’hanno come anchilosata.

Un’intelligenza che riconosce gli indizi al fine di reperire la certezza esistenziale su qualcosa di fondamentale per la sua esperienza è una intelligenza più spalancata di quella che aprioristicamente nega di poterlo fare.

Occorre pertanto esercitare l’intelligenza all’unicità di una misura nuova.

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