Temi di “Perchè la Chiesa”

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Lettera «P»


Pace

(133) Sono commoventi altri sinonimi via via usati dalle varie comunità cristiane per indicare la realtà intera della Chiesa a partire da un particolare valore individuato e sperimentato.

Uno di questi è, per esempio, la parola eirene, che significa pace, e che viene usata per indicare il vincolo che unisce tutti i cristiani.

Citando san Paolo così ci raccomanda Fulgenzio di Ruspe:

«Un cuore solo e un’anima sola: ecco ciò che aveva fatto di questa folla colui che è l’unico Spirito del Padre e del Figlio, e che è con il Padre e il Figlio un solo Dio. Così l’Apostolo dice che questa unità spirituale sia conservata con cura, nel vincolo della pace».

(213) C’è un segno sperimentale di questa ricerca continua nell’uomo cristiano della verità di sé stesso, e quindi della verità del mondo.

Gesù l’ha indicato con la parola pace.

(214) Così, la tensione ad affermare il reale secondo lo sguardo di Cristo è il fondamento della pace.

Non ci può essere durata di questa pace se non ci si appoggia alla consistenza ultima della realtà, cioè al Mistero che fa le cose, a Dio, al Padre.

Senza questo contesto ultimo la pace è fragilissima e si deteriora  in ansia.

Diversa è la fatica della fedeltà nel seguire il vero: questa è lotta, che non è contraria alla pace, può essere un dolore o un grave peso, ma non è ansietà.

L’ansietà è una menzogna che continuamente risorge e s’annida ad impedire l’adesione a ciò che nella nostra coscienza è emerso come vero.

La pace è una guerra con sé stessi.

(277) Gv 14-6: «Io sono la via, la verità e la vita».

Tali parole, destinate a ricapitolare in un atteggiamento unitario tutta l’esistenza dell’uomo, portano con sé una profonda possibilità di pace.

Naturalmente questa pace, derivata dal criterio sicuro su cui costruire il significato dell’esistenza, i nessi di ogni cosa con il tutto, non contraddice e non ripara dalla lotta, non è il quieto comodo di una esistenza senza tensione.

Essa è antidoto alla esasperazione dell’angoscia umana ed elude il farisaico tentativo in cui l’uomo è sempre trascinato dall’ansia di trovare alla conduzione della propria vita una giustificazione teoretica, il cui frutto potrà essere, tutt’al più, una imperturbabilità dura e senza equilibrio, ma non a una pace.


Fondamento della pace

(214) La tensione ad affermare il reale secondo lo sguardo di Cristo è il fondamento della pace.

Non ci può essere durata se non ci si appoggia alla consistenza ultima della realtà, cioè al Mistero che fa le cose, a Dio, al Padre.


La pace è lotta

(214) Senza questo contesto fragilissimo (La consistenza della realtà è il Mistero) la pace è fragilissima e si deteriora in ansia.

Diversa è la fatica della fedeltà nel seguire il vero: questa è lotta, che non è contraria alla pace, può essere un dolore o un grave peso, ma non è ansietà.

L’ansia è una menzogna che continuamente risorge e s’annida a impedire l’adesione a ciò che nella nostra coscienza è emerso come vero.

La pace è una guerra ma con sé stessi.


Paradiso

(50s) La valorizzazione della persona che la tradizione della Chiesa propone è indicata nell’idea cattolica di merito, quell’idea per cui basta un briciolo di tempo vissuto con intensità nei rapporti ultimi che lo determinano – coscienza del destino e affezione al mondo nelle circostanze in cui Dio chiama – e in proporzione a ciò un uomo vale.

In proporzione a ciò l’uomo, dice la tradizione, va in Paradiso, il che vuol dire: vive aderendo al proprio destino, correndo verso il proprio compimento.

Una tale idea pone l’utilità dell’uomo nella coscienza che genera l’azione e basta, vale a dire nel riconoscimento umano della verità e nell’amore ad essa.

È davvero impressionante riflettere bene a questa esaltazione, che è tutta cristiana, dell’istante puro, libero come valore dai condizionamenti e dalla fortuna o sfortuna delle circostanze.

Non vi è nulla che corrisponda all’uomo in modo così totale e capillare, non c’è nulla che salvi la libertà e l’impronta divina dell’io, come questa possibilità celata in ogni momento anche apparentemente furtivo e casuale.


Parola

(28) La verità è diventata carne, un Dio fatto presenza che anche 70, 100, 2000 anni, ti raggiunge attraverso una realtà che si vede, si tocca, si sente.

E questa è la compagnia dei credenti in Lui.

Talvolta queste formulazioni vengono ripetute in ambito cristiano quasi fossero metafore, incapaci di toccare l’interesse del cuore e la stessa  immaginazione, di condensarsi in tutta l’espressività di un fatto umano, espressività che, del resto, lo stesso termine “parola” racchiude, se non lo si usa secondo la riduzione astratta della intellettualità occidentale.

La “parola” è uno che si esprime e comunica sé stesso.

(31) Perché la parola esprime uno spirito, esprime un tipo di coscienza, e allora quel ragazzo che si era affiatato con lo spirito e il temperamento della ragazza (Giapponese) è in grado di comprenderne le formulazioni espressive.

Ma come si arriva a possedere l’esperienza che detta le parole? Per arrivare a questo occorre incontrare quell’esperienza oggi.


Peso delle parole

(147) Il primo rilievo riguarda il peso delle parole.

Abbiamo visto procedendo che ci siamo trovati ad affrontare parole in uso nell’esperienza dei primi secoli del cristianesimo che noi, 2000 anni dopo, per ignoranza, abitudine o distrazione, usiamo svuotandole, annebbiandole, addirittura distruggendole come la stessa parola Chiesa, comunione, mistero, santo, verità.

Non è il nostro un interesse filologico, l’attenzione che abbiamo dedicato a certe parole è invece una attenzione alla realtà che esse sottendono.

Il che introduce al secondo rilievo.

Alcune parole sono state per noi il mezzo per accostarci a quei fattori fondamentali che hanno radicato il fenomeno della Chiesa nel terreno della storia.

Tali fondamenti si sono rivelati in modo esplicito subito nella vicenda cristiana, ed esprimono una realtà che ci giudica ancora oggi.

Fondamentalmente, infatti, la Chiesa di oggi è la Chiesa di allora, solo con qualche secolo in più sulle spalle.


Pastore

(138) La prima lettera di Pietro è uno dei passi neotestamentari in cui compare l’espressione episkopon.

Per comprenderne il significato è interessante la relazione di questo termine con quello di “pastore”.

Come dice Schnackenburg commentando la lettera di Pietro, il verbo espiscopein:

« .. indica il premuroso guardare del pastore sul gregge a lui affidato e lo stare attendo ai pericoli esterni. È quasi certo che qualche cosa della ricchezza di una simile immagine viva del pastore sia entrata a far parte del vocabolo “episcopo” termine che lentamente andava prendendo piede».


Peccato


Peccato mortale

(58) Peccato mortale” significa che l’uomo va contro sé stesso, contro la verità di sé stesso, e perciò contro il suo destino.

Molto realisticamente, l’uomo senza l’aiuto gratuito di Cristo, non riesce a vivere a lungo senza farsi del male, senza andare gravemente contro sé stesso.

Badiamo bene: l’uomo da solo, l’uomo come tale!

Quell’uomo che ha nel cuore lo stimolo dell’ideale, ma che ha anche dentro la sua realtà personale come una forza contraddittoria che cerca di trascinarlo.

Come struttura l’uomo è capace di determinate cose, di cui storicamente ed esistenzialmente diventa incapace.

(250) La partecipazione dell’uomo al sacramento deve essere compiuta come persona libera, come coscienza piena.

Ecco perché la Chiesa insegna che non ci si può accostare a un sacramento con l’animo ingombro di una grave rifiuto della presenza di Dio, da una peccato che la Chiesa chiama “mortale”.


Peccato originale

(59) L’uomo è uno ma è diviso.

Si tratta di ciò che la tradizione cristiana chiama “peccato originale”: non significa che l’uomo sia per  natura cattivo, ma che la sua natura, destinata al bene, si pone in una condizione di esistenza per cui egli non riesce a mantenere l’orientamento.

(210s) Fino a che il mondo ci sarà, le comunità dei credenti saranno invitate dalla Chiesa a iniziare le loro riunioni con quel confiteor, segno della inadeguatezza della libertà umana al destino, sproporzione immanente che seguirà fino all’ultimo la storia dell’uomo.

È la dottrina misteriosa, ma nello stesso tempo sperimentabile del “peccato originale”.

Quanto più l’evoluzione dell’umanità progredisce, tanto più mostra l’ambivalenza, la capacità di bene e la capacità di male, il valore e il disvalore.

(211) La religiosità rende saggi di fronte alla enigmatica figura del male che attende gli uomini alla fine della strada, o alla fine di ogni tratto di strada: senza eliminarla, perché il limite che alla nostra libertà sopraggiunge al di là del suo essere creatura (limite dovuto a una scelta originale del primo uomo e che la tradizione della Chiesa chiama, appunto “peccato originale”) non sosterrà a lungo la rettitudine dell’atteggiamento religioso, al punto che la sollecita previdenza della Chiesa insiste che il cristiano la mendichi continuamente a Dio.

(229) (Dogma dell’Immacolata Concezione) così la Chiesa ci propone di guardare a Maria, come a chi ha vissuto in modo completo la sua umanità, senza essere segnata dall’originale ambiguità, di guardare cioè a una donna la cui esistenza si può riassumere in quel “fiat voluntas tua” con cui ha accettato la sua missione.

Così di fronte agli orgogliosi figli dell’illuminismo, veniva nuovamente riaffermata la fragilità dell’uomo, che diviene grande solo nell’aderire a Dio.

Veniva riaffermata la dottrina del “peccato originale”, già definita dal Concilio di Trento; e non c’è dubbio che la mentalità dell’epoca, come anche la nostra, sentisse ripugnante questa immagine di debolezza ed incoerenza strutturale, questo avviso dell’irrisolvibile  incapacità che l’uomo con le sue sole forze ha di lasciar determinare il suoi passi dal destino vero.

(282) Per la tradizione cristiana, dopo l’illusione di autonomia dell’uomo (il peccato originale), la realtà è divenuta ambigua, strumento dunque anche di ostacolo all’espressione dello Spirito.

Gesù Cristo è l’istante della storia in cui la realtà cessa di essere ambigua e ridiventa gloriosamente tramite a Dio.

Gesù Cristo è il punto in cui la storia e l’universo riprendono il loro vero significato.


Pensare

(44) Domandiamoci allora che cosa:

«perse, o impazientemente ruppe, il lungo, sottile, delicato filo che discendeva dalla lontana antichità; il filo di quell’insolito umano passatempo che è l’abitudine a pensare».

Chesterton, “San Tommaso d’Aquino

È questa gustosa espressione di Chesterton riferita proprio alla fine del periodo medioevale, dove la parola “pensare” ha appunto tutto il peso di quell’atteggiamento problematico e quindi critico che una mentalità unitaria enormemente favorisce.


Persona

(196) Questa parola definitiva può essere ricondotta a due espressione: persona, o anima, per usare un termine evangelico, e “regno di Dio”.

La prima espressione sottolinea l’irriducibilità dell’io, a qualunque schema o categoria: la persona è sorgente di valori, è non è soggetta ad alcuna dipendenza, se non quella originale, costituita da Dio.

(197) La Chiesa come prolungamento di Cristo, pretende di dare all’uomo questa parola: la persona, l’uomo immortale intangibile, irriducibile, di cui nessuno può disporre a suo talento.


Valore \ dignità \ esaltazione della persona

(50s) La tradizione della Chiesa ha sempre affermato il valore della persona, dell’uomo nella sua singolarità.

De Lubac ricorda che lo ha fatto con una sorta di stupore ammirato: «Ricordiamoci del grido di ammirazione di S.Bernardino davanti all’uomo: ”Celsa creatura, in capacitate maiestatis!” che riassume una lunga tradizione vecchia quanto il cristianesimo stesso».

Egli inoltre sottolinea: «Tutte le Somme medioevali consacrano una trattazione alla grandezza della creatura razionale fatta ad immagine di Dio.

Al pari dei nostri umanisti del XV secolo, i cristiani delle epoche precedenti non temevano, esaltando  l’uomo, di diminuire Dio”.

La valorizzazione della persona che la tradizione della Chiesa propone è indicata nell’idea cattolica di merito, quell’idea per cui basta un briciolo di tempo vissuto con intensità nei rapporti ultimi che lo determinano –

coscienza del destino e affezione al mondo nelle circostanze in cui Dio chiama – e in proporzione  ciò un uomo vale.

(51) Ogni azione dell’uomo in questa prospettiva è per il mondo intero, assume una dignità cosmica, collaborando coscientemente e affettivamente al disegno in cui il Mistero si rivela e compie il suo progetto: dal lavare i piatti a guidare la Chiesa, dal badare a un bambino allo stesso modo di governare un paese.

In quest’ottica l’uomo è libero dalle circostanze, non è schiavo del caso per quanto riguarda il suo valore, può essere grande, camminare verso la perfezione anche nelle peggiori condizioni e in quelle più  umili.


Dimensioni della persona

(256) Sono due le dimensioni della persona che nel cristianesimo vengono affermate: la comunionalità e la storia.

La personalità è formata nella comunione e nella storia.

Perciò il dono che Dio fa di sé al bambino piccolo, che ha ricevuto il battesimo, non sarà un seme gettato via, ma premessa per uno sviluppo nel tempo che la comunità rende possibile.


Personalità

(115) La consapevolezza di un fatto che ha il potere di cambiare la personalità.

È giusto affermare che il contenuto dell’autocoscienza nuova di quella gente, che si sentiva determinata da una energia proveniente dall’alto, coincideva con la forma di una nuova personalità.

In loro è scattata una personalità diversa intimamente nel profondo.

Da che cosa è plasmata una personalità? Dalla coscienza di sé e dall’impeto creativo, dalla fecondità.

E quei primi che ci hanno preceduto proprio questo ci testimoniano: si sentivano personalità differenti nel mondo, nella società, differenti come concezione di sé e come forza comunicativa.

(279s) Non esiste per la tradizione della Chiesa, già lo abbiamo accennato, pensiero per quanto segreto, gesto per quanto insignificante, azione per quanto nascosta, che non sia gesto responsabile per l’universo, gesto di valore esterno.

È qui che scaturisce il concetto di “merito”.

La vita riceve valore in ogni minimo dettaglio dalla grazia che Dio fa all’uomo d’essere collaboratore alla Sua presenza nella azione salvifica della sua comunità.

Così ogni gesto acquista una dimensione comunitaria: l’azione è il fenomeno della personalità, il movente è quel nesso profondo con la presenza di Cristo nel mondo.

La comunità diviene così sorgente dell’affermazione della personalità.

E la Chiesa attribuisce proprio valore – merito – alla proporzione tra il gesto del singolo e la “gloria” di Cristo, cioè il senso del mistero comunitario vissuto come movente.

Ogni gesto ha così valore eterno, in quanto gesto responsabile per il destino del mondo, in quanto espressione dell’individuo che diventa fattore decisivo per il senso dell’universo.

In questa unità di impostazione di vita la comunità, come mistero di comunione, diventa fattore determinante lo stesso senso di sé, vale a dire origine delle proprie azioni e forma della personalità.

È una impostazione che esalta la personalità fin nei suoi infinitesimali aspetti espressivi.


Personalità diversa

(115s) (“Dono dello Spirito” o “Forza dall’Alto”) con queste espressione potremmo dire che veniva indicata la persuasione che i primi cristiani avevano di chiarire così l’origine di una personalità nuova che si sentivano addosso.

Ed è sempre opportuno ricordare che quell’«alto» non va inteso come una investitura meccanica e estranea: in latino altus ha il senso di “profondo”.

In loro è scattata una personalità diversa intimamente, nel profondo.

Così per l’uomo investito dal dono dello Spirito si verifica un mutamento di volto, espressione di ontologia nuova.


Personalità vera

(284) il santo è l’uomo vero, un uomo vero perché aderisce a Dio e quindi all’ideale per cui è stato costruito il suo cuore, di cui è costituito il suo destino.

Santo è, nel senso più esatto della parola, l’uomo che realizza più integralmente la propria personalità, ciò che deve essere.

La parola santità coincide in senso totale con la vera personalità.

Se uno realizza sé stesso, compie l’idea per cui è stato creato.

La personalità che cammina consapevolmente verso la sua realizzazione, cioè la personalità caratterizzata dalla santità, si modula tutta nella chiarezza della coscienza del vero e nell’uso della propria libertà, cioè nel governo di sé.


Potenza di una personalità

(305) La Chiesa afferma la sua capacità di affrontare il tempo non solo come forza di conservare un passato, ma, forte delle promesse di Gesù, come sfida all’avvenire.

La valorizzazione del proprio passato, la fedeltà alle proprie origini è sintomo della potenza di una personalità, che tenderà sempre più ad aver coscienza della sua traccia nella storia.


Persuasione

(102) San Tommaso diceva con grande intuito psicologico, che l’uomo è molto più persuaso da ciò che ascolta che non da ciò che vede.

È sufficiente riflettere un poco sui propri atteggiamenti per rendersi conto dell’acutezza di questa osservazione.

L’uomo prova una più intensa convinzione nel sentirsi aderire alla parola di un altro che neanche nel vedere lui stesso.

Nell’aderire a qualcuno che ascolta, infatti, l’uomo deve poggiare la totalità della sua persona nel “tu” di un altro.

E mentre è molto facile per ognuno mettere in dubbio sé stessi, è molto più difficile gettare l’ombra dei propri “se” e dei propri “ma” su una presenza stimata e amata.


Politica

(203) Il problema, sinteticamente indicato, della convivenza umana, infine, con il suo ventaglio di comprensività e difficoltà, può essere annoverato tra quelli categorizzabili con il termine politica.


Popolo

(97) E’ difficile per noi immaginare lo sconvolgimento mentale che per un ebreo come Giacomo è stato annunciare che il popolo di Dio si realizzasse tra i pagani.

E per gli ebrei la repulsione di sentire un altro ebreo che diceva che Dio si era preso cura di far sorgere il popolo suo tra i pagani, un popolo cioè come quello di Israele!

Quando Paolo si reca per la prima volta a Corinto, grande città portuale dell’Egeo, provincia romana nota per i suoi commerci e per la dissoluzione della vita sociale, Dio rincuora il suo apostolo in una visione notturna:

«Non aver paura, ma continua a parlare e non tacere, perché io sono con te e nessuno cercherà di farti del male, perché io ho un popolo numeroso in questa città»

At 18, 9-10

Israele come popolo di Jahvé

(93) Il primo fattore con cui la Chiesa ha dimostrato di porsi come realtà è stato quello di essere un gruppo individuabile, fenomeno sociologicamente identificabile, un insieme di persone che si sono legate tra di loro.

Questo primo fattore ci porta a considerare, infatti, un concetto base dell’Antico Testamento: Israele come popolo di Jahvè.

«Il carattere nazionale del regno di Jahvè, che contraddiceva apparentemente il suo carattere universale, ne impediva s’altronde ogni interpretazione individualistica. Spiritualizzato, universalizzato secondo l’annuncio stesso delle profezie, il Giudaismo trasmette al cristianesimo la sua concezione di una salvezza essenzialmente sociale. Se, per la maggior parte dei fedeli, la Chiesa proviene soprattutto dai Gentili – ecclesia ex genti bus -. L’idea della Chiesa, proviene soprattutto dagli ebrei».

de Lubac

(105) Il termine ebraico con cui si indicava la realtà di Israele come popolo di Dio era qahal.

Questo termine indicava una realtà fatta di tanti individui, ma uniti che esprimevano  la loro unità raccogliendosi come in una assemblea.


Popolo ebraico

(96) Il popolo ebraico si definiva per il suo essere proprietà di Dio.

Così loro (i cristiani) erano la proprietà di Dio, al punto che letteralmente si appropriavano delle parole della coscienza antica.

In Paolo e negli altri scrittori neotestamentari, che rappresentano le prime espressioni mature dell’esperienza cristiana, emerge la certezza di costituire il compimento del fenomeno del popolo ebraico, di prolungarne la realtà avverandola in modo definitivo, di realizzare il vero popolo di Jahvè.

Quel nascente gruppo portava in sé la coscienza di prolungare, anzi di comunicare, realizzando, la verità di tutto quanto nell’Antico Testamento aveva formato la storia di Israele; di costruire , insomma, il vero e definitivo popolo di Dio nel mondo.


Popolo di Cristo

(99) Per i cristiani, dal primissimo istante in cui è registrata la loro esistenza, è totalmente evacuato il carattere etnico della preferenza di Dio.

Questo nuovo popolo è, infatti, formato da coloro che Dio mette insieme nella accettazione della venuta del suo Figlio.

Possono essere di razze diverse, magari tradizionalmente tra loro nemiche (pensiamo a Gesù e alla Samaritana), di idee e storie differentissime, può essere una estraneità totale che fino a quel momento qualifica la loro presenza nel mondo, ma sono popolo perché Dio li mette insieme tramite la fede in Gesù Cristo.

Si supera così radicalmente qualunque tipo di qualificazione nativa o “carnale” che può distanziare gli esseri umani.

Il fenomeno cristiano, perciò, subito si rifà a quella idea di “scelta di Dio” che aveva forgiato Israele, e a sua volta ne è formato, ma senza alcun confine carnale, perché la scelta di Dio coincide con l’adesione alla fede in Cristo.


Cristiani vero popolo di Dio

(96ss) [ … ] quel nascente gruppo portava in sé la coscienza di prolungare, anzi di comunicare, realizzando,la verità di tutto quanto nell’Antico Testamento aveva formato la storia di Israele: di costruire, insomma, il vero e definitivo popolo di Dio nel mondo.

(97) E’ difficile per noi immaginare lo sconvolgimento mentale che per un ebreo come Giacomo è stato annunciare che il popolo di Dio si realizzasse tra i pagani.

E  per gli Ebrei la repulsione di sentire un altro ebreo  che diceva che Dio si era preso cura di far risorgere il popolo suo tra i pagani, un popolo cioè come quello di Israele!

Da un lato il fenomeno nuovo che stava nascendo attingeva con sicurezza alla sua tradizione, poiché da essa sgorgava direttamente: dall’altro ne sconvolgeva le base con una diversa concezione della sua identità.

Da un lato attuava il rapporto con Dio attraverso la categoria che Egli stesso aveva insegnato con la storia di Israele – spia pedagogica di ciò che è l’uomo e di ciò che vuol dire essere Dio per Lui; dall’altro, già agli inizi il fatto cristiano mostrava al mondo la consapevolezza della sua bruciante novità.


Israele popolo santo

(143) Non così era sentito tale termine (santo) dalle prime comunità: il suo senso era biblico.

Santo cioè indicava qualcuno che apparteneva all’Alleanza di Dio con l’uomo e per questo si protendeva in un cammino secondo il volere di Dio.

Perciò Israele era il popolo santo.

Tanto più santo doveva essere definito colui che era coinvolto con la presenza di Gesù Cristo, compimento dell’Alleanza.


Potere e logica del potere

(68) Se il fenomeno uomo non è strutturalmente inteso come qualcosa che riguardi l’io, allora facilmente si parlerà di uomo e di umanità in connessione a una logica di potere.

La parola “io” si perde nell’indistinto, se l’uomo viene identificato con la collettività, e, dunque, in ultima analisi si perde.

E questa collettività senza volto finisce per essere guidata da qualcuno che si pretende comunque fuori da quell’anonimato, con un volto preciso.


Povertà di spirito

(271) Ciò che occorre per iniziare questo cammino è, almeno, quel tipo di disponibilità all’impegno che la tradizione cristiana chiama “povertà di spirito”.

Potrebbe anche essere chiamata ricerca di una maggior ricchezza, perché il suo dinamismo poggia sull’immortale frase di Gesù:

«Chi vuol salvare la sua vita la perderà, ma chi perderà la sua vita per causa mia la salverà».

Il centro di questo atteggiamento di accettazione, di povertà di spirito, è l’occhio teso a ciò che costituisce il tesoro dell’uomo, a quell’oro puro della verità e della realtà, per cui ogni altra immagine di verità e realtà, fosse anche la propria stessa vita, è riconosciuta umilmente di minor valore.


Preferenza – scelta di Dio

(95) Nell’Esodo si dice, riportando la comunicazione di Dio a Mosè:

«Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodire la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà fra tutti i popoli, perché  mia è tutta la terra! Voi sarete per  me un regno di sacerdoti e una nazione santa!».

Es 19,5-6entifier

Questo concetto di Santo indica la relazione con Dio in quanto l’uomo è posto al suo servizio.

Indica anche però il primo fondamentale scandalo che l’azione di Dio provoca nell’uomo: la preferenza, cioè la scelta operata da Dio di un particolare in tutta la sua creazione come specialmente posto al suo servizio.

È impressionante comunque l’analogia con quello che Paolo dice a Tito in una sua lettera, riferendosi a Gesù

(Tt 2,14): «[Egli] ha dato sé stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formarsi un popolo puro che gli appartenga».

Tt 2,14

Preghiera

(250) Il sacramento in quanto anche preghiera ha da essere la domanda che uno, persino sepolto nelle proprie miserie, rivolge a Dio come attraverso una piccola fessura di desiderio di essere liberato.

Ciò che la Chiesa chiama impedimento grave è proprio ciò che la tradizione ha identificato come ingombro a quell’ultimo pertugio, ingombro che nel sacramento della confessione si chiede a Dio di rimuovere.

(257) C’è una bellissima implicazione del fatto sacramentale cui vorrei accennare prima di concludere questo nostro sguardo al comunicarsi nella Chiesa della realtà divina.

Contrariamente a ciò che molti credono, il sacramento è la forma più semplice di preghiera, più alla portata di tutti.

È diffuso invece pensare che sia più facile per l’uomo che prega affidarsi alla propria immediatezza e spontaneità.

Questa tuttavia è, per definizione, precaria, tanto è vero che un mutamento dello stato d’animo – distratto da altro, malinconico o arido – induca a rinunciare alla preghiera, mette in difficoltà quell’atteggiamento di domanda che è l’espressione suprema della consapevolezza dell’uomo.

(258) Perciò uno può compiere quel gesto partendo da un animo carico di risentimento, esasperato,, con il cuore freddo e la mente bloccata. Ciò che conta è il libero «andare a», portando sé stessi come domanda, ciò che conta è la presenza di sé a Cristo, consapevole, che si fa domanda, davanti al suo padrone.


Primato di Pietro

(138s) La Chiesa in base a un preciso insegnamento di Gesù, è fondata sugli apostoli e sul particolare primato di Pietro.

Quello che è certo è che qui ha origine la figura autorevole su tutta la singola comunità.

Quasi subito però, come ci trasmettono i primi documenti, gli apostoli, ebbero bisogno di collaboratori (vescovi).

(139) Abbiamo anche visto come fra tutti i vescovi occupasse una particolare posizione quello di Roma, cui si espongono le controversie con cui si vuole assicurare un’unione ultima che sappia trascendere le questioni dibattute.

Il vescovo di Roma era il perno di tutta una trama di rapporti tra vescovi, e quindi comunità.

Ignazio di Antiochia, contemporaneo di Policarpo [ … ] si rivolge alla comunità di Roma chiamandola “La comunità che presiede all’amore(amore o agape, erano sinonimi di Chiesa totale): il capo di questa comunità era dunque il punto di riferimento per tutti.


Problema

(43) Semplificando si potrebbe dire che il nostro atteggiamento di uomini moderni di fronte al fatto religioso manca di problematicità, non è normalmente un atteggiamento problematico vero.

La vita è una trama di avvenimenti e incontri che provocano la coscienza producendovi in varia misura problemi.

Il problema è l’espressione dinamica di una reazione di fronte agli incontri provocanti.

E il significato della vita – o delle cose pertinenti e importanti della vita – è un traguardo possibile solo per chi sia impegnato con la problematica totale della vita stessa.

L’insorgere di un problema implica  la nascita di un interesse, destando curiosità intellettuale, diversamente dal dubbio, la cui dinamica esistenziale tende a corrodere il dinamismo attivo dell’interesse e rende perciò via via estranei all’oggetto.

L’ambiente rappresenta il tessuto di influssi che noi viviamo, come reazione tra le originalità del singolo e la trama delle varie circostanze.

Quello che abbiamo chiamato atteggiamento problematico, o il lasciarsi provocare dal problema, è proprio il momento determinato dal contenuto delle circostanze e la revisione personale e critico di esso.


I problemi dell’uomo

(203) Possiamo ricondurre tutta la gamma degli umani problemi a quattro categorie fondamentali.

  • La categoria della cultura convoca nel suo orizzonte tutti i problemi che l’uomo sperimenta relativi alla propria continua ricerca di completezza personale.
  • Alla categoria dell’amore si possono ricondurre i problemi che l’uomo sperimenta relativi alla propria continua ricerca di completezza personale.
  • (Alla categoria del) lavoro come esigenza dell’uomo di esprimere la propria personalità, con le sue aspettative di incidere sulla realtà di tempo e di spazio che ha da vivere.
  • (La categoria della) politica (che si occupa) della convivenza umana con il suo ventaglio di comprensività e difficoltà.

Problematicità

(43) Semplificando si potrebbe dire che il nostro atteggiamento di uomini moderni di fronte al vero manca di problematicità, non è normalmente un atteggiamento problematico vero.

Quello che abbiamo chiamato atteggiamento problematico, o il lasciarsi provocare dal problema, è proprio il momento determinato dal contenuto delle circostanze e la revisione personale e critica di esso.


Profeta – profeti

(119) Il dono dello Spirito comunica a queste nuove personalità un impeto, che rende la loro vita capacità comunicativa feconda, comunicativa della novità che nel mondo Gesù ha portato.

Così, sia l’individuo sia la comunità si sentono in grado di pronunciarsi di fronte al mondo.

Nel linguaggio religioso l’espressione più adeguata di questa capacità  di manifestazione è racchiusa nella parola profezia.

Profeta è colui che annuncio il senso del mondo e il valore della vita.

La forza che annuncia il senso del mondo e il valore della vita.

La forza della profezia è la forza di una conoscenza del reale che non è dell’uomo, che viene dall’Alto.


Esperienza dei profeti

(22) Questa era tecnicamente l’esperienza dei profeti: il profeta si distingueva dagli altri del suo popolo proprio perché, di fronte agli avvenimenti, sentiva un annuncio che gli altri non sentivano, ne aveva illuminata la coscienza ed era reso artefice di interpretazione della realtà propria di Dio.


Profeta di Israele

(23) Dobbiamo ricordare che i profeti di Israele avevano un grande strumento per mettersi al riparo da questo pericolo di soggettivismo.

Il profeta era dato per il popolo ed era proprio il rapporto con il popolo a verificare la sua parola: il tempo e la storia del popolo erano come la verifica della sua parola.

La sfida del profeta al popolo è nel tempo: “il tempo mi darà ragione” dice il profeta.

Così il profeta, nel senso reale del termine, ha di sé una verifica obiettiva: il popolo e il tempo, la storia del popolo.


Falsi profeti

(210s) La figura dell’anticristo nel N.T. è posta alla fine dei tempi per segnalare che, nella visione cristiana della storia, la lotta tra il bene e il  male sarà combattuta fino all’ultimo istante, simbolo di una ambiguità che sussisterà per sempre.

È una ambivalenza che sempre si mostra per mettere in gioco la libertà, l’adesione al vero.

(211) In questo contesto di ambiguità, nella compresenza del bene e del male che ci seguirà fino alla fine, siamo avvertiti che c’è qualcosa cui non si deve credere, falso, che si appropria cioè di attributi non suoi, e qualcosa invece che si proporrà alla nostra fiducia, il fulmine che attraversa il cielo (Mt 24, 23-24.27), la luce di Cristo.

Ma siamo avvertiti che questa non si imporrà meccanicamente, non saremo mai costretti a riconoscere: i falsi profeti potranno sempre ingannare.

Per la sicurezza del riconoscere nulla potrà sostituire l’umile abitudine al retto atteggiamento che la Chiesa da secoli proclama.

[ … ] La libertà [ … ] non sosterrà a lungo la rettitudine dell’atteggiamento religioso, al punto che la sollecita previdenza della Chiesa insiste che il cristiano la mendichi continuamente da Dio.


Progresso

(74) Lo scientismo si attesta sull’ultima parola cui il razionalismo avvia: è il concetto di progresso, vissuto come illusione di poter trasportare nel futuro realizzazioni di cui l’umanità è incapace nel presente.


Protestante (posizione \ atteggiamento)

(21ss) La posizione protestante, che è profondamente religiosa e come tale percepisce con chiarezza la distanza sterminata che c’è tra l’uomo e Dio: Dio, il diverso, l’Altro, il Mistero.

(22) Ma, allora come oggi l’uomo potrà raggiungere la certezza di questa presenza, la verità di tale esperienza?

L’uomo vi è impotente, trattandosi fatalmente di un mistero.

È lo spirito stesso di Dio che illumina il cuore e, per ispirazione, fa “sentire” la verità della persona di Gesù.

Si tratta di un riconoscimento attraverso una esperienza interiore.

È questo il fulcro dell’atteggiamento protestante.

(23) Perciò se da un certo punto di vista l’atteggiamento protestante è l’opposto di quello razionalistico – perché è religioso in modo purissimo, dominato come è dal fatto che l’Essere è totalmente altro da qualunque umana misura e a Lui tutto è possibile -, dall’altro esiste come pericolo una certa identità tra i due atteggiamenti.

(Non per nulla il razionalismo in campo cristiano è stato diffuso in ambito protestante).

Il denominatore comune, infatti, è un ultimo soggettivismo.

Il soggettivismo protestante ha due riflessi interrogativi:

  1. Come si può distinguere se ciò che l’uomo “sente” è il risultato dello Spirito o è l’ideologizzazione dei suoi pensieri? Una situazione in cui un uomo fosse profeta di sé stesso, come si distinguerebbe una illuminazione dello Spirito dalla codificazione di un proprio concetto, un’esperienza determinata dall’Alto dalla espressione di un proprio parere, l’esperienza di Dio in me dalla pretesa di una passione per me?
  2. Il secondo riflesso somiglia alla prima osservazione da noi fatta all’atteggiamento razionalistico: di fatto anche l’atteggiamento protestante dà luogo  a una infinità di interpretazioni, di soluzioni diverse, a una inevitabile confusione di teoria. Come potrebbe mai essere che lo stesso Spirito, intendendo entrare nell’uomo per aiutarlo, abbia voluto usare un metodo moltiplicatore alla confusione, di cui l’uomo era già perfettamente capace anche da solo. Ma l’obiezione di fondo non è certamente questa:  il Signore avrebbe potuto utilizzare come strumento per far comprendere il suo annuncio un puro rapporto individuale con lo spirito umano.

La vera obiezione è che questo atteggiamento non rispetta i dati dell’annuncio cristiano, i connotati originali di questo annuncio: un divino che si è fatto uomo, un uomo che mangiava, beveva, dormiva; qualcuno che uscendo di casa si poteva incontrare al centro di un piccolo assembramento di altri uomini mentre parlava, e le sue parole colpivano l’anima.

Le sue parole cambiavano dentro, ma venivano dal di fuori. Cioè l’annuncio cristiano è un fatto integralmente umano secondo tutti i fattori della realtà umana, che sono interiori ed esteriori, soggettivi ed oggettivi.

L’atteggiamento protestante annulla questa integralità, riduce l’esperienza cristiana ad esperienza meramente interiore.

È un apriorismo a cui non ha diritto.

(65s) [ … ] abbiamo messo in rilievo come il razionalista, o chi è cresciuto in questa mentalità, riduce o tende a ridurre il problema proposto a idee in lui già formulate, a categorie di possibilità che egli stesso, sovrano di sé, stabilisce in modo tale che un problema lo considera così come si vuole formularlo e non come esso si pone.

Il risultato è che ci si condanna a non capire, svuotando di contenuto la posizione stessa del problema.

Abbiamo anche visto come l’atteggiamento protestante, di fronte allo stesso tema, non sia altro che una versione diversa dall’identico soggettivismo la cui radice è nel sentimento.

L’uomo che decide esclusivamente attraverso la ratio, che finirà paradossalmente per danneggiare sia la sua ratio sia il suo sentire.

(65/66) Chesterton descrive, con sofferta partecipazione, il risultato dell’uomo affidato esclusivamente al suo sentire, così come lo vede nella figura di Lutero:

«L’uomo non poteva dire nulla a Dio [ … ] nulla su Dio, eccetto un quasi inarticolato grido per invocare pietà e il soprannaturale aiuto di Cristo, in un mondo dove tutte le cose naturali erano inutili. Inutili la Ragione, inutile la volontà. L’uomo non poteva muoversi di un pollice, non più di una pietra. L’uomo non poteva fidarsi di quello che aveva nella testa, non più di una rapa. Nulla rimaneva sulla terra o in cielo, solo il nome di Cristo scivolava in quella solitaria imprecazione; spaventevole come il grido di una bestia sofferente».

Chesterton

Lutero inizia così spasmodicamente l’altra faccia del

«Moderno stato d’animo che si appoggia su cose non meramente intellettuali….nel vero senso della parola suscitò il mondo moderno. Distrusse la ragione e la sostituì con la suggestione».

Chesterton

(156) (Dio) poteva scegliere altro per comunicarsi agli uomini: l’opinione della coscienza, come afferma il razionalismo, un’esperienza interiore dettata dallo Spirito, come sottolineano i protestanti.

Ha scelto questo, ha sorpreso la mente e la fantasia dell’umanità incarnandosi, indicando sé stesso come via, come metodo.

Cristo è il metodo che Dio ha scelto per salvare l’uomo.


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