Temi di “Perchè la Chiesa”

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Lettera «S»


Sacramento – sacramenti

(135) Nei primi tempi alla conclusione di una cena collettiva, veniva compiuto un gesto che Cristo aveva chiesto si ripetesse, poco prima di essere fatto prigioniero e ucciso, gesto e segno che portava dentro di sé la densità ontologica della presenza reale di Gesù.

Veniva chiamato sacramento in latino, mistero in greco.

La parola “mistero” nella nostra mentalità indica l’inconoscibile, l’inattingibile, o ciò che ancora non è noto.

Nel linguaggio cristiano invece la parola “mistero” indica sì l’inattingibile e l’inafferrabile, in quanto però, pur mantenendo  il suo contenuto infinito, in qualche modo si rivela nella nostra finitezza e si rende parte della nostra esperienza.

Il mistero in senso cristiano è il mistero in quanto si fa conoscere sensibilmente, sperimentalmente.

Cristo è i mistero stesso proprio in quanto è Dio che si rende esperienza dell’uomo, perché egli è l’infinito Verbo che si fa uomo, uomo che si può ascoltare, vedere, toccare, come ha detto san Giovanni nella sua prima lettera.

(242ss) Questa grazia soprannaturale, questo salto di qualità ontologica, in che modo viene comunicato nell’ontologia nostra? Questa nuova realtà si comunica, nell’immanenza della persona alla vita della autentica comunità ecclesiale, attraverso gesti chiamati sacramenti.

(243) La parola “sacramento” traduce il latino sacramentum, che, a sua volta, è stato il modo con cui i latini hanno reso la parola greca mysterion che evocava quei culti provenienti dalla Grecia e dell’Oriente, i cui riti erano tenuti rigorosamente segreti.

Tale culti offrivano agli iniziati una parziale accessibilità del divino e una certa possibilità di unione con esso.

Il termine mysterion, nella cultura greca, non indicava l’inconoscibile assoluto, bensì ciò che dall’inconoscibile, con tecniche particolari, si poteva afferrare.

Nel N.T. la parola mysterion viene usata per indicare, in senso radicalmente mutato, la novità della rivelazione, il dischiudersi delle intenzioni ultime di Dio in Gesù Cristo, e il suo parteciparsi alla esperienza umana.

Tale termine è stato reso in latino con la parola sacramentum, la cui origine è legata a una terminologia militare e si riallaccia a un solenne impegno, un giuramento dei soldati, un vincolo sacro, qualcosa di simile a un voto.

Il termine “sacramentum” dunque, nella pratica cristiana, da un lato nel suo connettersi al mysterion, indica la dinamica della comunicazione della realtà divina  nella persona di Cristo; dall’altro, nel suo riferirsi all’origine latina (sacramentum), evoca un sacro patto di fedeltà, qualcosa che al cristiano non può non restare impresso come collegabile a quell’alleanza che Dio ha voluto stringere con l’uomo.

(244) In ambedue le sfumature originali ritroviamo il marchio di operatività, di una efficacia che la Chiesa lega al sacramento.

Per la Chiesa, pertanto, il mistero indica sì ciò che sta al di là della nostra capacità di conoscenza, ma in quanto esso ha voluto rendersi conoscibile dentro l’esperienza umana e lo ha voluto fare in modo permanente, fedele, con  una sovrana iniziativa.

Così il sacramento è il primo aspetto di questo comunicarsi del divino dentro lo sperimentale umano.

In questo senso la Chiesa stessa dice di sé di essere sacramento, luogo in cui la presenza della forza divina, della persona di Cristo che vince il mondo, si vede e si vedrà sempre.

La Chiesa è sacramento di quella Presenza.

(249)Il sacramento è dunque l’esperienza del rapporto con Cristo dentro un gesto concreto, fisico.

Ecco perché il catechismo lo chiama segno efficace della grazia: segno, perché la materia richiama concretamente l’aspetto della vita in cui Cristo si comunica; efficace, perché egli attraverso quell’elemento fisico trasmette veramente la sua realtà e potenza divina.

Il sacramento costituisce la struttura tipica di ogni sua azione, con la dimensione del rapporto immediato con Cristo, l’uomo definitivo, con la dimensione dunque della verità dell’uomo.

Così il sacramento è il divino che si rende sensibile nel segno, presenza che agisce in noi in modo ineffabile, che ci conferisce la statura di un uomo nuovo.

Ed è potenza unificante, perché non si dà sacramento se non nell’unità con tutti i cristiani.

La potenza salvatrice di Cristo nel mondo, il suo “nome” in senso biblico, la sua capacità di cambiare il mondo, la gente, coincide con la  comunità cristiana, la Chiesa, come soggetto, sacramento della sua potenza.

(252) L’uomo sente il bisogno di una concezione ideale della vita che si realizzi in  una esperienza concreta.

Del resto, notiamo, anche l’affetto, per citare una esperienza che è di tutti, esige una sua documentazione sensibile.

Così il “sacramento” ubbidisce a questa esigenza naturale del sensibile.

L’uomo è un composto di esperienza sensibile e di atteggiamenti interiori, e tutti e due questi fattori devono essere presenti perché l’umanità si realizzi appieno in un evento.

Ora, il cristianesimo risponde con la sua improrogabile istanza della libertà di coscienza e con la sua attenzione al sensibile, a entrambi i fattori.


Sacramento come preghiera

(250) E’ quella metamorfosi cui allude Paolo parlando di rinnovamento della mente, o di rivestirsi di Cristo, che si realizza proprio attraverso la vita della comunità cristiana in quanto ti  penetra con i gesti che Cristo ha stabilito, i sacramenti.

Il sacramento in quanto anche preghiera, ha da essere la domanda che uno, perfino sepolto nelle proprie miserie, rivolge a Dio come attraverso una piccola fessura di desiderio di essere liberato.

Il sacramento è realmente il gesto divino di Cristo risorto che batte alla porta della personalità, la urge, a  meno che sia l’uomo a non volerlo accogliere, allora esso di arresta alla soglia.

(257) Contrariamente a che molti credono, il sacramento è la forma più semplice di preghiera,  più alla portata di tutti.

Non c’è alcun bisogno di saper riflettere, di trovare espressioni adeguate, di provare emozioni consone all’avvenimento.

Uno può compiere quel gesto partendo da un animo carico di risentimento, esasperato, con il cuore freddo e la mente bloccata.

Ciò che conta è il “libero andare a”, portando sé stessi come domanda, ciò che conta è la presenza di sé a Cristo, consapevole, che si fa domanda.

Il contenuto operativo di quei gesti misteriosi, o sacramenti, attraverso i quali nella Chiesa viene comunicato e approfondito l’essere nuovo, non può essere da noi percepito e sperimentabile.

Del sacramento vediamo solo il gesto che compiamo.

Se dunque dovessimo affidarci all’espressione di un nostro sentimento per vivere in esso il nostro rapporto con Dio saremmo in balia di una fluttuazione emotiva.

Mentre il segno sacramentale è saldamente ancorato alla sua fisionomia oggettiva, ed a essa la Chiesa convoglia l’attenzione dell’uomo.

Così davanti alla grande Presenza che si comunica all’uomo, questo risponde con la sua libera presenza che chiede la vita nuova.

È questa la forma di preghiera più adeguata all’orientamento della nostra natura di uomini, perciò più semplice nella sua obiettività.

(257s) Contrariamente a che molti credono, il sacramento è la forma più semplice di preghiera,  più alla portata di tutti.

Non c’è alcun bisogno di saper riflettere, di trovare espressioni adeguate, di provare emozioni consone all’avvenimento.

Uno può compiere quel gesto partendo da un animo carico di risentimento, esasperato, con il cuore freddo e la mente bloccata.

Ciò che conta è il “libero andare a”, portando sé stessi come domanda, ciò che conta è la presenza di sé a Cristo, consapevole, che si fa domanda.

Il contenuto operativo di quei gesti misteriosi, o sacramenti, attraverso i quali nella Chiesa viene comunicato e approfondito l’essere nuovo, non può essere da noi percepito e sperimentabile.

Del sacramento vediamo solo il gesto che compiamo.

Se dunque dovessimo affidarci all’espressione di un nostro sentimento per vivere in esso il nostro rapporto con Dio saremmo in balia di una fluttuazione emotiva.

Mentre il segno sacramentale è saldamente ancorato alla sua fisionomia oggettiva, ed a essa la Chiesa convoglia l’attenzione dell’uomo.

Così davanti alla grande Presenza che si comunica all’uomo, questo risponde con la sua libera presenza che chiede la vita nuova.

È questa la forma di preghiera più adeguata all’orientamento della nostra natura di uomini, perciò più semplice nella sua obiettività.

(282) La comunità cristiana prosegue la redenzione, e abbiamo visto come nei sacramenti la realtà costituisce un puro tramite a Dio, in quanto essa contiene ciò che significa, dà ciò che promette.

Nella liturgia, perciò, la materia ridiventa amica dell’uomo, si sviluppa l’opera della redenzione e l’universo torna alla sua origine.


Sacrificio

(131) (Episodio di Anania e Saffira) Così il sacrificio fatto con costrizione ha generato una menzogna di fronte alla comunità e allo Spirito, che Pietro duramente condanna.

L’assenza di costrizione, la gioia, quell’ilarità del cuore non sono un fatto esteriore, una maschera superficiale di contentezza.

Si può compiere una sacrificio avvertendone la fatica fino alle lacrime, eppure con una ultima certa spontaneità, insomma volentieri, come l’ineliminabile suggerimento di qualcosa che si vuole esprimere, con passione, come l’espressione di qualcosa che vale la pena vivere e perciò manifestare.

Tale criterio è l’opposto del moralismo, del sacrificio concepito e fatto in nome di un formale senso del dovere: si tratta invece del dono di sé a Dio come frutto autentico della propria adesione al grande dato di fatto, la comunanza riconosciuta della ragione di vita.


Sacro – tutto è sacro

(283) Nella concezione cristiana non c’è nulla di pro-fanum, che stia davanti o fuori dal tempio, perché tutta la realtà è il grande tempio di Dio: nulla è profano e tutto è “sacro”, perché tutto è in funzione di Cristo.


Salvezza

(154) La comunità primitiva ha sempre affermato nello stesso tempo la persuasione di essere “ontologicamente”, cioè nel suo valore,  nella profondità del suo essere, eccedente la realtà umana delle sue componenti.

 Si presentava infatti come la comunità della salvezza, come il luogo dove l’uomo avrebbe potuto salvarsi.

«In nessun altro c’è la salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini cotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati».

Pietro At 4 – 12

«Fratelli, stirpe di Abramo, e quanti fra voi siete timorati di Dio, a noi è stata mandata questa parola di salvezza».

Paolo At 13 – 26

La parola salvezza implica ciò che, quando abbiamo trattato del senso religioso, definivamo come compimento dell’uomo, senso totale, risposta alle sue domande ultime; compimento, e risposta e senso che le comunità primitive ritenevano rintracciabili in sé stesse, in quanto luogo dove la presenza del divino operava il suo disegno per il mondo e  nel mondo, dove lo Spirito di Cristo donato a chi crede in Lui avviava il suo cammino di signoria sul mondo, il compiersi del senso della storia.

(195) La funzionalità della Chiesa sulla scena del mondo è già implicita nella sua consapevolezza di essere prolungamento di Cristo: è cioè la funzionalità stessa di Gesù.

La funzione di Gesù nella storia è l’educazione è l’educazione al senso religioso dell’uomo e dell’umanità (proprio per poter “salvare” l’uomo!) dove per religiosità, o senso religioso, intendiamo – come già detto – la posizione esatta come coscienza e tentativamente come atteggiamento pratico dell’uomo di fronte al suo destino.

Nell’orizzonte di questa formula si situa il problema della liberazione che Gesù, il Salvatore, è venuto a portare.

La salvezza si genera da una verità di posizione di fronte a sé stesso e al suo destino  ultimo.

L’ultima parola sulla struttura dell’uomo singolo, e perciò del suo immanente destino, e sulla storia è stata fatta emergere nella storia stessa da Dio: il Verbo si è comunicato all’uomo facendosi carne

(202) Il giusto atteggiamento potrebbe anche voler dire un distacco dal proprio punto di vista, o da quel segmento di vita che si vorrebbe afferrare come fosse tutto, ma se tale distacco si realizza, esso genera una nuova ricchezza, un nuovo vero possesso delle cose e degli affetti.

La salvezza perciò operata da quel giusto atteggiamento incomincia, e con abbondanza – “cento volte tanto” – nel tempo presente, secondo la fisionomia dell’impegno e della storia di ognuno.

(254) Il bisogno di salvezza dell’uomo è tale che la via più facile consisterebbe proprio nel trovare un meccanismo salvifico che toccasse, coinvolgesse l’uomo, ma che prescindesse da lui.

È un bisogno di facile certezza (via pagana).

Si può anche ridurre il cristianesimo a un meccanismo.

L’annuncio cristiano, però, affermando la presenza costante e articolata nella vita dell’uomo di un Altro che l’ha creato e ricreato, richiede l’adesione libera a quella presenza, e dà una certezza non riposta in alcun sforzo e in alcun automatismo, ma nell’Amore dell’Altro.

A questo punto può apparire precaria l’ipotesi di salvezza cristiana, così affidata alla volontà di un Altro che richiede l’impegno di tutta la personalità dell’uomo.

La salvezza per il cristiano, è accettare liberamente la compagnia di un Dio misericordioso che ha voluto intervenire e restare nella storia.

Certo, questa non è una formula che garantisca meccanicamente un risultato: come qualunque formulazione dell’amore, implica il rischio della libertà.


Santità

(283s) La santità cristiana è agli antipodi del concetto di santità proprio a tutte le religioni, dove essa è intesa come una separazione dal quotidiano normale.

Nella concezione cristiana invece non c’è nulla di profanum, che stia davanti o fuori dal tempio, perché tutta la realtà è il grande tempio di Dio: nulla è profano e tutto è “sacro”, perché tutto è funzione di Cristo.

Così la santità non è una abnormità: essa non è nient’altro che la realtà umana che si realizza secondo il disegno che l’ha creata.

(284) La parola santità coincide in senso totale con la vera personalità.

Se uno realizza sé stesso.

La personalità che cammina consapevolmente verso la sua realizzazione, cioè la personalità caratterizzata dalla santità, si modula nella chiarezza della coscienza del vero e nell’uso della propria libertà, cioè nel governo di sé.

L’attività umana diventa interamente significativa: ogni azione, anche quella più apparentemente meno incidente, acquista la nobiltà di un grande gesto.

Ciò è possibile sole se l’uomo agisce essendo consapevole del motivo ultimo della sua azione.

Questo porterà con sé una presenza dell’uomo a sé stesso che faciliterà la sua collaborazione alla Grazia, cioè faciliterà il dominio di sé, orienterà la sua libertà a una tensione di fedeltà al motivo che sospinge la vita.


Santo – santi

(48) L’umanesimo non è più familiare con quella sintesi di vita che caratterizzava la mentalità medioevale:  invece del “santo”, l’uomo unificato dall’ideale di Dio, il tipo di ideale che subentra è  l’uomo che può essere potente in un aspetto o un altro dell’esistenza e dell’operatività umana.

È una parzialità che subentra alla sintesi.

(95) Nell’Esodo si dice riportando la comunicazione di Dio a Mosè:

«Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodire la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà fra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa».

Questo concetto di santo indica la relazione con Dio in quanto l’uomo  è posto al Suo servizio.

Indica anche però che il primo fondamentale scandalo che l’azione di Dio provoca nell’uomo: la preferenza, cioè la scelta operata da Dio di un particolare in tutta la creazione come specialmente posto al suo servizio.

(143)

Paolo, Rm 1,7: «A quanti sono in Roma amati da Dio e santi per vocazione, grazie a voi».

Paolo Rm 1,7

La comunità dei primi cristiani si definivano comunità di “santi”.

Questo non manca mai in fondo di sconcertarci, in particolare se paragonato all’immagine della corsa verso una perfezione non ancora raggiunta.

L’avvertire tale contrasto è inevitabile per la nostra mentalità in cui santo equivale a perfetto.

Non era così sentito tale termine dalle prime comunità: il suo senso era biblico.

Santo cioè indicava qualcuno che apparteneva all’alleanza di Dio con l’uomo e per questo protendeva in un cammino secondo il volere di Dio.

Perciò Israele era il popolo santo.

Tanto più santo doveva essere definito colui che era coinvolto con la presenza di Gesù Cristo, compimento dell’alleanza.

Allora la moralità cristiana prende finalmente il suo volto adeguato: un dinamismo di tensione sorgente dall’appartenenza a Cristo, l’articolarsi di un cammino dentro il mistero personale di Cristo in cui con l’aiuto del Suo Spirito si è stati eletti e in cui si realizza la propria umanità.

(144) Non è quindi contraddittoria all’immagine della comunità cristiana  primitiva che si riconosceva fatta di peccatori.

Il N.T., infatti, non ci offre un quadro degli inizia della Chiesa come se tutti fossero “a posto”.

Anzi, essa era il luogo in cui la misericordia di Dio accoglieva e correggeva la povera gente debole e facile a invischiarsi negli errori.

(240) L’idea di santo nella nostra tradizione religiosa, indica colui che aderisce a Dio, che corrisponde a Dio.

Ecco perché nella ritualità ebraica Dio è chiamato tre volte santo: Lui stesso è il paradigma supremo dell’adesione alla sua realtà più intima.

Ora, per i cristiani, quella “grazia” è santificante, perché è Dio che ha iniziato con sé stesso e prolunga nella storia un’umanità nuova, un’umanità definitiva secondo il suo disegno.

Grazia santificante conferma dunque coloro che aderiscono a quella gratuita iniziativa di Dio entrano in un rapporto più profondo con l’Essere, tanto che diventano, dice Paolo, 1 Cor 12,27, membra del Corpo di Cristo:

«Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuna per la sua parte».

(273) Si tratta di convivere con la vita della Chiesa là dove essa è vissuta autenticamente, là dove è vissuta sul serio.

Per questo la Chiesa proclama i santi: per dare indicazioni di come, tramite i più diversi temperamenti e le più variegate circostanze storiche e sociali, con le più differenti sensibilità culturali, sia possibile vivere sul serio la proposta cristiana.

(284) Il santo è l’uomo vero perché aderisce a Dio e quindi all’ideale per cui è stato costruito il suo destino.

Santo è, nel senso più esatto della parola, l’uomo che realizza più integralmente la propria personalità, ciò che deve essere.

«I santi sono la dimostrazione della possibilità del cristianesimo».

Adrienne von Speyr:

Il Santo dunque, nella Chiesa rende la presenza di Cristo attuale in ogni momento, perché in lui Egli determina,  in modo trasparente, l’agire.

Il santo è presente tutto a sé stesso: è padrone del suo gesto perché lo innesta nell’oggettività del disegno di Dio, governa coerentemente ogni sua azione in quanto il più possibile cerca di aderire alla realtà ultima delle cose.


Comunità di santi e peccatori

(145) Scorrendo i documenti primitivi, le lettere di Paolo, gli Atti degli apostoli e gli stessi Vangeli, li si trova percorsi dal richiamo ai peccatori, dall’allarme per le manchevolezze che si diffondono tra di loro, e dall’offerta di un perdono e di un’accoglienza che non appartengono agli uomini, ma vengono da quel Dio che non ha voluto lasciare gli uomini soli, e abita tra di loro.

La Chiesa primitiva non si sente certo il luogo della gente perfetta.

Ma dentro quella realtà così banalmente umana, così misera, c’è la certezza di una umanità nuova, quella di Cristo, capace di trasformare qualunque povera umanità, purché si disponga in quella “corsa” che descriverà l’apostolo, purché ci si  metta in cammino, secondo la propria possibilità sorretta dalla grazia.

La certezza è che Gesù Cristo può vittoriosamente attraversare la nostra impotenza con la sua forza e mutarle in una energia operosa per il bene.

Questa è la certezza che noi ereditiamo, insieme alla possibilità del male, da coloro che ci hanno preceduto.


Scandalo

(161s) La pretesa più specifica della Chiesa, infatti, non è semplicemente di essere veicolo del divino, ma di esserlo attraverso l’umano.

È questa del resto la stessa pretesa di Cristo: scandalo suscitato presso i capi religiosi e le persone evolute del suo tempo, obiezione insormontabile: «Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria?»(Mc 6,3), cioè uno come noi, le cui origini sono rintracciabili, la cui identità è aperta alle nostre indagini come quella di tutti.

E inoltre il culmine dello scandalo era costituito dal fatto che non solo la sua identità non presentava a prima vista nulla di misterioso, ma che la sua personalità umana esprimeva una sconcertante disponibilità verso tutti gli strati della popolazione, anche, senza alcun ritegno, nei confronti dei più indegni, gli infimi più criticabili.

[ … ] osava coinvolgere a tal punto Dio con la sua presenza arrivando a identificarsi con Lui.

È questo lo scandalo che la Chiesa ripropone nella sua sostanza e nella sua esistenza nella storia, che ripropone oggi e sempre.

(181) Ancora oggi essere tesi alla ricerca dei difetti di chi annuncia il cristianesimo, o essere pronto a scandalizzarsene non è altro che un alibi per non aderire mai, per non dover mai cambiare sé stessi.

La Chiesa è stata salvata nei secoli da chi, perseguendo il vero e il reale, amando il valore e l’ideale, non si è scandalizzato dei limiti, delle angustie delle circostanze, della incomprensibilità apparente delle vicende umane, e si è lanciato ad affermare ciò che amava, a ricercare il tesoro nascosto nel fango.

San Francesco d’Assisi, per esempio, non si è scandalizzato per le divisioni e le violenze che scuotevano la Chiesa dei suoi tempi [ … ]

(311s) Ripetiamo perciò in questa conclusione l’avvertimento nei confronti della trappola dello scandalo, inteso come indebito ostacolo al cammino.

Tale trappola – che Guardini descrive come un negare con ragioni secondarie ciò cui per ragioni fondamentali si deve acconsentire – è in agguato per chiunque, per chi deve decidere la direzione della propria strada e per chi avendola decisa vuole percorrerla consapevolmente in ogni suo passo.

(312) Tanto più che lasciarsi scandalizzare, lasciarsi fermare nel proprio cammino, è sempre indizio di vulnerabilità da parte di chi viene impedito; questo tende a sottolineare nella questione una ferita, ferita di cui soffre ogni uomo.

Prevenire e curare quella ferita è lo scopo di un metodo ragionevole per affrontare la realtà.


Scelta di Dio – preferenza

(95) Il concetto di santo indica la relazione con Dio in quanto l’uomo è posto al suo servizio. Indica anche però il primo fondamentale scandalo che l’azione di Dio provoca nell’uomo: la preferenza, cioè la scelta operata da Dio di un particolare in tutta la sua creazione come specialmente posto al suo servizio.

(99) Il fenomeno cristiano subito si rifà a quella ida di “scelta di Dio” che aveva forgiato Israele, e a sua volta ne è formato, ma senza alcun confine carnale, perché la scelta di Dio coincide con l’adesione alla fede in Cristo.

(106s) La categoria della elezione, della scelta di Dio che qui troviamo applicata al popolo che si andava formando, quel popolo così identificabile, ma senza confini etnicamente intesi.

Egli è il Signore di tutti, si propone a tutti attraverso la scelta di una realtà umana particolare.

Il concetto di elezione, di scelta di Dio, è il caso in cui più clamorosamente la lontananza da una comprensione si documenta in noi, perché non c’è nulla di più contradditorio con il razionalismo in cui si è formati e con l’egualitarismo e il democraticismo che ne sono conseguenza.

(107)Non esiste niente che affermi e insegni all’uomo l’assolutezza di Dio come il fatto che Egli sviluppi nel mondo la sua opera attraverso coloro che Egli sceglie, attraverso una elezione: Dio non è legato a nulla e proprio nel fenomeno di questa preferenza elettiva si manifesta.

«Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno su di essa»

(Mt 16,16-18)

Risulta chiaro in questo contesto che si tratta di una iniziativa su Pietro che non è dei discepoli: il suggerimento è del Padre, e la Chiesa è descritta come costruita da Cristo e sua, frutto di una scelta, una scelta che si inserisce nella grande storia della preferenza di Dio, che utilizza il metodo al quale è sempre stato fedele.

(116) Emerge l’immagine dell’unzione, della scelta cioè da parte di Dio di chi dovrà veicolare il senso della storia, così come era stato per Israele.


Schiavitù

(186) Lettera a Filemone.

Questa veloce lettera di raccomandazione mette a fuoco un argomento che interessa la nostra riflessione: l’atteggiamento dei primi cristiani nei confronti della schiavitù.

Come figlio del suo tempo, come Filemone e Onesimo, da Paolo pure la schiavitù viene percepita come un fatto, che non costituisce un problema: rientra nell’ordine sociale costituito, che non è, ovviamente, il migliore ordine possibile.

Paolo appare qui perciò soggetto al condizionamento sociale dell’epoca.

Tuttavia esprime il valore della persona, chiedendo al padrone di accogliere lo schiavo fuggitivo

« … perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come un fratello carissimo. [ … ] Se dunque tu mi consideri come amico, accoglilo come me stesso».

La novità vera è nel rapporto nuovo che schiavo e padrone hanno con Dio e che trasforma la comune schiavitù della condizione umana davanti alla Fortuna nel razionale ossequio a un Dio che libera chi lo serve con amore.


Scientismo

(69s) La ragione, dopo aver scoperto che la corrispondenza dei suoi dinamismi con quelli della natura, conobbe stagioni di avanzamenti brillanti nel campo delle scienze e fu proprio alla scienza che la mente dell’uomo chiese di dare un senso alle cose.

I veri “lumi” l’intelligenza andò sempre più a chiederli alla scienza: ciò che questa non era in grado di spiegare doveva essere rifiutato senza discussione.

Un simile atteggiamento si chiama scientismo: una concezione del progresso scientifico che lo promuove a vero esclusivo incremento dell’umano e perciò lo utilizza come metro per valutare ogni forma di sviluppo.

(73) Nonostante due guerre mondiali e una crisi economica durata 10 anni un tale clima di affidamento alla scienza giunge come mentalità generale fino a noi.

(73/74) Se, come si è detto,la consapevolezza o la sofferta denuncia di questo restare senza radici raggiunge i livelli più profondi della riflessione umana, in un’opinione più superficialmente scontata e diffusa nella mentalità comune, lo scientismo si attesta sull’ultima parola cui il razionalismo avvia: è il concetto di progresso vissuto come illusione di poter trasportare nel futuro realizzazioni di cui l’umanità è incapace nel presente.


Scienza

(69) Tale esaltazione dell’uomo attraverso la sua ragione si andò incrementando come mentalità normale, divenne corrente di pensiero sempre più influente in ambito europeo.

Nei secoli perciò che seguirono le prime posizioni razionaliste questo atteggiamento sarà perseguito, intensificato e poi capillarmente realizzato.

La ragione, dopo aver scoperto la corrispondenza dei suoi dinamismi con quelli della natura, conobbe stagioni di avvenimenti brillanti  nel campo delle scienze, che la mente dell’uomo chiese di dare senso alle cose.

I veri lumi l’intelligenza andò sempre più a chiederli alla scienza: ciò che questa non era in grado di spiegare doveva essere rifiutato.


Affidamento alla scienza

(73) Nonostante tutto (2 guerre mondiali e altro) un tale clima di affidamento alla scienza giunge come mentalità generale fino a noi, benché a livello culturale lo smarrimento sia grande e la critica sia accanita sulla fiducia che l’uomo nutre nella ragione applicata alla scienza e alla tecnica come metodo per crearsi un mondo buono, veramente umano.

Così l’uomo consapevole resta senza alcun punto di appoggio.


Scomunica

(136) [ … ] tali passaporti si chiamavano “lettere di pace” o “lettere di comunione”, poiché attestavano che il viaggiatore apparteneva alla communio e poteva quindi ricevere l’Eucarestia.

Si comprende allora il significato originale che nella storia della Chiesa ha il termine di «scomunica» vale a dire «Fuori dalla comunione», che segnava chi non essendo riconosciuto dal vescovo non veniva ammesso all’Eucarestia.


Segno

(121s) La storia di Cristo tra noi ha dovuto imporsi come una eccezionalità di esito, con una straordinaria capacità che nel Vangelo si chiama “miracolo” o “segno”.

Segno della novità che era entrata nel mondo.

Ma la normalità della presenza di quei segni è più accentuata nel momento cronologico della vita terrena di Gesù rispetto ai secoli successivi, anche se nella storia della Chiesa rimane come una connotazione mai tolta, particolarmente emergente nella vita dei santi.

Si era agli inizi  perciò il dono dello Spirito si esprimeva in fenomeni eccezionali e frequenti, in cambiamenti straordinari nella gente che riceveva il battesimo, tanto che questo fenomeno diveniva un segno di riconoscimento della elezione divina.

(122) Ora man mano che i secoli passano, che il tempo scorre, quelle prime esperienze vengono meno come apparenza quantitativa.

Ma un miracolo più grande inizia e cresce nei secoli, col tempo: quale prodigio più eccezionale e grandioso di tutta la gente che sarebbe venuta dopo e che avrebbe perpetuato il riconoscimento di Gesù nel fatto della sua Chiesa!

L’uomo è posto davanti a Gesù Cristo allo stesso modo duemila anni fa come oggi.

Nessun segno potrà mai obbligatoriamente imporre alla libertà dell’uomo di collocarsi davanti alla proposta di Cristo in modo spalancato come il volto di un bambino, invece che guardinga e sospettosa come lo sguardo di tanti adulti.

La verità ha un accento per cui, se l’animo è nella posizione originale in cui Dio l’ha messo creandolo, suona inconfondibile.

Il contrario di questo è ciò che il Vangelo chiama “durezza di cuore”.

(269) Dio ha domandato ai profeti di crederlo perché operava dimostrazione sperimentale di ciò che diceva, non una dimostrazione in un laboratorio riservato, ma una dimostrazione a cielo aperto, sotto gli occhi di tutti nella storia.

Questa dimostrazione è ciò che la Bibbia chiama segni – Dio dà dei segni e domanda che questi segni siano letti, interpretati e compresi – Dio non comanda al popolo di credere a qualunque profeta.

Al contrario fornisce una regola di discernimento per distinguere il falso dal vero profeta: colui le cui parole si compiono nella storia, costui è il vero profeta.


Efficacia del segno

(254) E perciò che riguarda il gesto sacramentale, l’efficacia del segno, legata dalla nostra tradizione al rito in sé e non alla perizia del ministro, non vuole escludere la libertà dell’uomo che vi si accosta, ché anzi necessariamente la richiede: vuole invece sottolineare che quei segni efficaci sono tali in quanto dono di Dio, non per lo sforzo umano compiuto dal ministro o dal fedele; vuole ribadire che la grazia si comunica in  un incontro concreto con Cristo, liberamente voluto dall’uomo.


Sensibile


Attenzione al sensibile

(252) Le dinamiche culturali legate all’esoterismo o ai misteri pagani avevano il pregio di valorizzare una esigenza umana non trascurabile: che il vero, o il divino, diventi esperienza sensibile e concreta, fisica.

L’uomo è composto di esperienza sensibile e di atteggiamenti interiori, e tutti e due questi fattori devono essere presenti perché l’umanità si realizzi appieno in  un evento.

Ora, il cristianesimo risponde, con la sua improrogabile istanza della libertà di coscienza e con la sua attenzione al sensibile, a entrambi i fattori.


Esigenza naturale del sensibile

(252) L’uomo sente il bisogno che di una concezione ideale della vita si realizzi in una esperienza concreta.

Del resto, notiamo, anche l’affetto, per citare una esperienza che è di tutti, esige una sua documentazione sensibile: non basta l’idea, l’intenzione.

Così il sacramento obbedisce a questa esigenza naturale del sensibile.

Ma, decisamente, non riduce il mio gesto al ripetersi di un meccanismo: la libertà di Dio e la risposta della libertà dell’uomo sono affermate come essenziali.


Senso religioso

(7s) Una corrispondenza deve esistere perché si produca la comprensione.

È spiegabile, dunque, che nella situazione di ognuno di noi, nell’ambito mentale contemporaneo, vi siano delle difficoltà ad affrontare una realtà di tipo religioso.

L’assenza di educazione del senso religioso naturale ci porta troppo facilmente a sentir lontane da noi realtà che sono invece radicate dentro la nostra carne e il nostro spirito.

In questa situazione, la prima difficoltà nell’affrontare la Chiesa è una difficoltà di intelligenza, una fatica dovuta alla non disposizione del soggetto rispetto all’oggetto che deve giudicare: una difficoltà di intelligenza causata da una situazione non evoluta del senso religioso.

Qualcosa c’è sempre che rende la vita degna ai nostri occhi di essere vissuta e senza la quale, anche se non si arrivasse ad augurarmi la morte, tutto sarebbe incolore e deludente.

Nessuno può evitare una finale implicazione: qualunque essa sia, nel momento in cui la coscienza umana vi corrisponde vivendo, è una religiosità che si esprime, è un livello di religiosità che si realizza.

Il senso religioso ha come caratteristica sua propria di essere dimensione ultima inevitabile di ogni gesto, di ogni azione, di ogni tipo di rapporto.

(8) E’ chiaro che se qualcosa sfuggisse a ciò che noi identifichiamo con quell’ultimo, con quel “dio” – comunque lo si intenda -, questo non sarebbe più l’ultimo, il “dio”, perché vorrebbe dire che qualcosa di più profondo è dentro il nostro modo di agire e a quello in realtà noi saremmo devoti.

L’ineducazione del senso religioso che denunciavo poc’anzi si documenta esattamente in questo: esiste in noi una ripugnanza divenuta istintiva a che il senso religioso domini, determini, ogni azione coscientemente.

È precisamente questo il sintomo dell’atrofia e della parzialità dello sviluppo del senso religioso in noi: quella difficoltà estesa e greve, quella estraneità che avvertiamo quando si sentiamo dire che il “dio” è il determinante di tutto ……

L’educazione del senso religioso dovrebbe, da un lato, favorire la presa di coscienza di quel dato inevitabile e totale dipendenza che esiste tra l’uomo e ciò che dà senso alla sua vita e, dall’altro, aiutarlo a espugnare col tempo quella estraneità irrealistica che egli prova nei confronti della sua situazione originale.

(47) Se  il senso religioso è domanda di totalità costitutiva della nostra ragione, e per ciò stesso che un uomo vive pone questa domanda e non solo pone la domanda, ma vi risponde, allora, senza esclusione di nulla, qualcosa di particolare occuperà il posto di Dio, che non sarà mai vuoto nel cuore dell’uomo.

(195) La funzionalità della Chiesa sulla scena del mondo è già implicita nella sua consapevolezza di essere i prolungamento di Cristo: è cioè la funzionalità stessa di Gesù.

La funzione di Gesù nella storia è l’educazione al senso religioso dell’uomo e dell’umanità, dove per religiosità, o senso religioso, intendiamo – come già si è detto – la posizione esatta come coscienza e tentativamente come atteggiamento pratico dell’uomo di fronte al suo destino.


Sigillo – immagine del sigillo

(115s) Paolo (2 Cor 1,21-22) usa nella sua seconda lettera ai Corinzi due immagini efficaci per definire il realizzarsi di questa nuova personalità:

«E’ Dio che ci conferma, insieme a voi in Cristo, e ci ha conferito l’unzione, ci ha imposto il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori».

Troviamo qui l’immagine dell’unzione o consacrazione –  che significa nella tradizione ebraica: scelti per servire Dio – e l’immagine del sigillo.

Da un lato dunque, si evidenzia che il marchio, il timbro impresso sulla superficie di un oggetto, crea una novità dal punto di vista anche formale, cambia la faccia di quell’oggetto.

(116) Così per l’uomo investito dal dono dello Spirito si verifica un mutamento di volto, espressione di una ontologia nuova.

L’immagine di Paolo è comunque indice di cambiamento ontologico perché il sigillo è una realtà fisica, trasforma la fisionomia di ciò su cui è impresso.


Sillabo

(191s) “E’ lecito a ogni uomo scegliere la religione che in coscienza avrà deputato essere vera». Ora tale affermazione dal Sillabo era condannata.

Il sillabo, simbolo indiscusso, per i razionalisti, dell’”oscurantismo” della Chiesa della fine 800.

Per la Chiesa il principio della moralità è seguire la propria coscienza: un atto è morale quando esprime l’unità della persona e l’unità della persona si afferma quando è coerente con la coscienza.

Il Sillabo è stato scritto nel 1864 come compendio “degli errori del nostro tempo” e si proponeva di parlare ai cattolici per chiarire loro dove la mentalità corrente si era allontanata dal dogma cattolico.

Il sillabo qui non intendeva rispondere a una preoccupazione etico soggettiva, ma si poneva da un punto di vista storico oggettivo: premeva cioè a quel compendio mostrare ai cattolici che quella frase, in quel contesto della storia dell’uomo,  mirava a negare la attualità storica del cristianesimo, la verità della Rivelazione.

Questo è il senso storico-oggettivo della frase del Sillabo.

Secondo questo tipo di preoccupazione quella frase è giustissima.


Social gospel

(71ss) Washington Gladden nel 1895 padre del movimento protestante di pensiero e d’azione che va sotto il nome di Social Gospel:

«Il pensiero di questo mondo viene gradualmente liberato dalla superstizione e da pregiudizio; i sentimenti sociali vengono purificati, i costumi lentamente volgono al meglio; le leggi gradualmente vengono forgiate secondo i più perfetti concetti di giustizia».

Nel 1919 Walter  Rauschenbusch, che del movimento Social Gospel è stato considerato l’esponente più brillante e persuasivo, scriveva con una affermazione entusiastica del risultato possibile:

«A volte insorge l’ardente speranza che forse la lunga e lenta scalata stia per terminare [ … ] da quando la Riforma incominciò a liberare la mente e a dirigere la forza della religione verso la moralità, c’è stato un sensibile aumento di rapidità. L’umanità guadagna in elasticità e capacità di mutamento. La velocità della evoluzione del nostro paese documenta l’immensa capacità di perfezione latente nella natura umana».

Ma la sicurezza di un più giusto compimento delle umane cose rimaneva come non toccata ed esuberante, tutta fiduciosa nell’«etica fraterna del democrazia» e tutta apoggiata all’avvenimento del “senso comune sociale”

L’idealismo del Social Gospel doveva essere sconfitto dalla storia stessa. (prima e seconda guerra mondiale e la crisi economica tra le due guerre).

Come ebbe a dire Niebuhr:

«dal 1914 una esperienza tragica ha fatto seguito all’altra, come se la storia avesse avuto il compito di sfatare le varie illusioni dell’uomo».


Soggettivismo

(23) Perciò se da un certo punto di vista l’atteggiamento protestante è l’opposto di quello razionalistico – perché è religioso in modo purissimo, dominato dal Fatto che l’Essere è totalmente altro da qualunque umana misura e a Lui tutto è possibile – dall’altro esiste come pericolo una certa identità tra i due atteggiamenti (non per nulla il razionalismo in campo cristiano è diffuso in ambito protestante).

Il denominatore comune, infatti, è un ultimo soggettivismo.

(65) Abbiamo visto come l’atteggiamento protestante, di fronte allo stesso tema, non sia altro che una versione diversa dell’identico soggettivismo la cui radice è  nel sentimento.

L’uomo che decide esclusivamente attraverso la sua ratio, o attraverso il suo sentire, si condanna ad una perdita di oggettività, che finirà paradossalmente per danneggiare sia la sua ratio, sia il suo sentire.


Soggettivismo VS Istituzione

 (133) La tensione a condividere nella libertà è aiutata dal sorgere di forme e strutture stabili che ne costituiscono l’alveo, che ridimensionano il disordinato irrompere nell’esperienza di impeti isolati, destinati a spegnersi e facile preda di un soggettivismo sproporzionante, senza la pietra di paragone di un contesto sempre più reperibile.


Spontaneità

(55) Passando al Rinascimento francese, ci sovviene un motto rivelatore di Rabelais: «fa ciò che vuoi, perché per natura l’uomo è spinto ad atti virtuosi».

Ciò che si sente corrisponde all’impeto della natura e rappresenta perciò, inevitabilmente il maggior bene dell’uomo: l’esplicitazione dell’istintività diviene un ideale etico, legittimato dalla supposta sintonia dell’istinto con l’ideale naturale.

Qui viene identificata la morale con la spontaneità e si diffonde nella mentalità comune la difficoltà a capacitarsi che quanto è dettato dall’impulso possa anche essere un male per l’uomo.


Sproporzione – indegnità

(216) Il cristiano, pieno di limiti, può trovarsi a dover fare l’esperienza di portare a qualcuno, che magari è molto meglio di lui, un valore superiore ad ambedue.

Dovrà rinunciarvi, cosciente della usa indegnità?

Anche in questo Gesù Cristo valorizza la natura umana.

Chiedendo a chi lo segue questa drammatica esperienza, non fa che esaltare quanto dalla natura, attentamente sentita, è imperiosamente richiesto.

Dei genitori, infatti, che amassero sinceramente i loro figli, rinuncerebbero a comunicare qualcosa che vale con il pretesto di non possederlo completamente loro?

[ … ] L’uomo, quando dalla natura è sollecitato all’amore autentico, sa esprimere l’attaccamento al contenuto vero più che la considerazione di sé.


Coscienza della sproporzione

(163s) (1 Cor. 2,1. 3-5) Paolo era perfettamente consapevole di una sproporzione connaturata al fenomeno stesso della Chiesa, portatrice del suo messaggio attraverso il veicolo umano, e dunque esposta a tutte le declinazioni, caso per caso, il suo compreso, delle miserie dell’umanità.

La parola umana perciò può essere disadorna, così come poteva essere la sua.

Quella coscienza della sproporzione si dilata poi nel bellissimo passo in cui Paolo tratteggia alcuni aspetti dell’esistenza umana degli evangelizzatori al tempo delle prime comunità:

«Ritengo infatti che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all’ultimo posto, come condannati a morte, poiché siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini. Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo; siamo diventati come spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti fino a oggi».

1 Cor. 4,9 – 13

(164) Quegli stessi evangelizzatori:

« fanno risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo. Però noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi. Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi».

2 Cor 4,6-9

Troviamo qui nuovamente delineata una coscienza ben chiara della propria incapacità, della propria umanità piena di limiti, assolutamente sproporzionata a ciò di cui pure era strumento.

(165) I primi che hanno diffuso il cristianesimo nel mondo avevano dunque chiara la coscienza sia che il divino risplendeva nel mondo tramite quel che dicevano e facevano sia che le loro parole erano sprovvedute, i loro gesti fragili, le loro personalità inadeguate, la loro condizione umana meschina.

E ciò non li rendeva quiescenti e rassegnati, ma fieramente in corsa, quotidianamente in lotta, costantemente protesi al dono della salvezza.

(184) E’ facile avere un atteggiamento mistificatorio nei confronti del proprio limite, sembra plausibile giustificarsi con un “sarebbe bello ma non riesco!”, oppure cadere in una forma di disperazione.

In ambito di vita cristiana, la coscienza chiara del valore ultimo brucia e giudica anzitutto chi cerca di viverlo: la Messa, infatti, inizia ogni giorno con un “confesso”.

È la posizione più intensamente vera che si possa concepire dal punto di vista umano: un amore chiaro al proprio ideale nella coscienza della sproporzione.

Con un termine etimologicamente interessante, la tradizione cristiana chiama tale atteggiamento “umiltà”, che deriva da humus, vale a dire terra, ciò da cui veniamo e di cui si vive: l’atteggiamento umile non è altro che un riconoscimento e un amore al reale, alla terra che noi siamo.


Sproporzione immanente

(210) Ogni messa, ogni giorno, in tutto il mondo inizia con la confessione dei propri peccati, con il riconoscimento di una libertà che non si è  mantenuta  nel retto atteggiamento.

Fino a che il mondo ci sarà, le comunità dei credenti saranno invitate dalla Chiesa a iniziare le loro riunioni con quel Confiteor, segno della  inadeguatezza della libertà al proprio destino, sproporzione immanente che seguirà fino all’ultimo la storia dell’uomo.

È la dottrina misteriosa, ma nello stesso tempo sperimentabile, del “peccato originale”.


Storia

(208) Nel corso della vicenda terrena la soluzione dei singoli problemi deve essere cercata dall’uomo, lo sforzo risolutivo deve essere applicato a quelle categorie di problematiche (cultura, amore, lavoro, politica).

Tale compito è affidato alla sua libertà dentro la libertà del disegno di Dio che si attua nella storia.

Libertà e storia: l’uomo è all’interno di una possibilità di soluzione, perché Dio non ci ha immesso nel flusso del tempo senza una ragione.

Tale possibilità è affidata alla tua libertà di  mettere te stesso e le cose o le circostanze che creano il problema in nesso con il fondamento della vita.

Dio non obbliga l’uomo a essere sé stesso se l’uomo non vuole.

Glielo chiede, però, lo incita a questo,, lo richiama continuamente.

E così la Chiesa ci sprona ad attuare le condizioni dell’atteggiamento religioso che realizzano quel nesso e facilitano il lavoro dell’uomo nella storia.

«L’attualità del Vangelo passa attraverso i problemi degli uomini»,

Chenu

e quanto più il cristiano è impegnato nella soluzione dei problemi umani, tanto più diventa segno della coerenza dei Vangeli con la speranza degli uomini.


Successione apostolica

(303s) L’apostolicità è la caratteristica della Chiesa che indica la sua capacità di affrontare in modo organicamente unitaria il tempo.

È la dimensione storica: la Chiesa afferma la sua autorità unica a essere depositaria di una tradizione di valori e di realtà che deriva dagli apostoli.

Sarà Ireneo, vissuto nel II secolo, a sottolineare in modo particolarmente vigoroso tale carattere di apostolicità della Chiesa, evidenziando la funzione eminente degli Apostoli e la conservazione della tradizione mediante la successione apostolica.

«Infatti con questa Chiesa (di Roma), in ragione della sua origine più eccellente (Pietro e Paolo), deve necessariamente essere d’accordo ogni chiesa [ … ] nella quale per tutti gli uomini sempre è stata conservata la tradizione che viene dagli Apostoli».

Sant’Ireneo

E conclude, dopo aver ultimato la circostanziata e meticolosa enumerazione:

«Tali essendo dunque le prove, non si deve cercare presso altri la verità, che è facile prendere dalla Chiesa, poiché gli apostoli ammassarono in Lei, come un ricco tesoro, nella maniera più piena tutto ciò che riguarda la Verità, affinché chiunque vuole prende da lei la bevanda della Vita».

Sant’Ireneo

Così se tutte le Chiese riconducono la loro origine ad un apostolo, di fatto l’unica successione documentabile è quella di Roma.

Il valore di tale successione apostolica sta nel carattere di miracolo che conferisce al fenomeno stesso della Chiesa.

La resistenza costruttiva nel tempo, proprio in quelle espressioni ideali e in quelle strutture di esperienza e di organizzazione che sembrerebbero essenzialmente contingenti, è, nella dimensione storica della Chiesa, il miracolo più grande.


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