Temi di “Perchè la Chiesa”

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Lettera «D»


Definizione ex cathedra

(226s) [ … ] (magistero straordinario) può avvenire con un intervento personale del Pontefice, una iniziativa che viene definita ex cathedra.

Tale magistero straordinario consiste dunque in un insegnamento eccezionale come formulazione e come precisa risposta a contingenze storiche, e ha come soggetto, per dirla molto sinteticamente, il Papa come autorità, sia nella formulazione personale ex cathedra, sia nell’evento del Concilio, che non potrebbe essere valido senza l’approvazione del pontefice.

(227) Tale modo straordinario riguarda una definizione di valori che si propone come clamorosamente definitiva, irreversibile, e che perciò rappresenta un vertice della coscienza cristiana di fronte alla società.


Deismo

(76) Dio non è negato. Non lo è come nel 600, nel 700 o nell’800 come non lo è stato nella prima tentazione del mondo.

Gli ultimi secoli della nostra storia occidentale sono anzi governati da varie forme di teismo e deismo.

E ancora oggi è facile che si ammetta il Dio, l’Ente supremo, purché sia chiaro che con la realtà umana non c’entra.

Non lo si nega, certo, purché sia accettato che l’uomo può fare a meno di Lui.

E se proprio qualcuno non ne può fare a meno, la religione troverà il suo diritto di espressione in un luogo appartato dalla vita sociale solita, in un luogo estraneo.

È il principio di “confino sociale della religione”, che esprime il genio moderno in questo campo.

Autosufficienza dell’uomo, che di sé fa il criterio ultimo, separazione dal Dio: l’errore è possibile per l’uomo di tutti i tempi, ma la nostra epoca ha dato a questo errore una risonanza che ha potuto influire sulla mentalità di tutti.

Nell’uomo moderno vige la tentazione di sempre: ma la nostra epoca è dominata da criteri, temi, preoccupazioni che censurano la sensibilità religiosa autentica.

Questa mentalità derivata dal razionalismo, frutto tuttavia di una lunga disgregazione, in quanto è arrivata ad ispirarla società intera in tutte le sue forme, in special modo in quelle educative, si chiama laicismo.


Depositum fidei

(233) Il contenuto fondamentale dell’avvenimento cristiano, ciò che teologicamente si chiama depositum fidei, si comporta nella storia della Chiesa come il contenuto dell’umanità di un bambino.

Via via che il tempo passa, nell’urto delle circostanze e nella provocazione degli avvenimenti, prende coscienza di sé sempre più.

Così accade quando la coscienza della comunità ecclesiale, nella sicurezza data dall’adesione all’autorità, dice di un determinato aspetto del contenuto essenziale della fede: «Ecco è sicurezza definitiva!».

La Chiesa, infatti, ed è così facile non tenerlo presente, è una vita.

È la vita di Uno, il mistero della persona di Cristo, che si sviluppa nel tempo dentro l’organicità vivente del suo popolo.

La Chiesa è dunque una vita che nel tempo prende sempre più coscienza di sé.


dio

(8) E’ chiaro, dunque, che se qualcosa sfuggisse a ciò che noi identifichiamo con quest’ultimo, con quel “dio” – comunque lo si intenda – questo non sarebbe più l’ultimo, il “dio”, perché vorrebbe dire che qualcosa di più profondo è dentro il nostro modo di agire  e a quello in realtà noi saremmo devoti.

L’ineducazione del senso religioso che denunciavo poc’anzi si documenta esattamente in questo: esiste in noi una ripugnanza divenuta istintiva a che il senso religioso domini, determini ogni azione coscientemente.

È precisamente questo sintomo dell’atrofia e della parzialità dello sviluppo del senso religioso in noi: quella difficoltà estesa e greve, quella estraneità che avvertiamo quando ci sentiamo dire che il “dio” è determinante di tutto, è il fattore al quale non si può sfuggire, è il criterio in base al quale si sceglie, si studia, si completa il prodotto del proprio lavoro, si aderisce a un partito, si indaga scientificamente, si cerca una moglie o un marito, si governa una nazione.


Dio


Dio è tutto

(253) Proprio la concezione cristiana, che afferma in modo così intransigente e perentorio la totalità della potenza di Dio, si dichiara così indissolubilmente legata ad una visione antropologica che esalta la libertà?

Se Dio è tutto, l’unica verità, di cui tutte le verità sono funzione, che “spazio” c’è per la libertà dell’uomo?

Proprio la concezione cattolica dei sacramenti, la cui efficacia è stata sintetizzata nel concilio di Trento con la frase “ex opere operato”, non ripropone un automatismo, per cui la ritualità viene considerata una specie di macchina che produce la grazia, un’altra forma, insomma di magia?

Osserviamo che, proprio perché  l’uomo è invitato dal Dio incarnato a partecipare alla sua realtà divina, gli comunicherà anche la dimensione della libertà.

E lo ha fatto dalle origini.

Se è vero il nesso tra la libertà di Dio e quella dell’uomo, tra l’iniziativa dominante ed invadente di Dio e la parte dell’uomo, è un nesso misterioso, è anche vero che i fattori che i fattori di tale nesso sono chiari.

Diversamente dall’immagine panteistica, la creatura, nella visione cristiana, proprio perché derivante da Dio – la cui prima caratteristica è essere sé stesso – partecipando al suo essere, possiede una irriducibile identità.

Perciò proprio perché dipende da Dio, la creatura si afferma e si distingue. (esempio della creazione di un artista che ha in sé la personalità dell’artista).


Richiamo a Dio

(288) Vi sono momenti particolari in cui Dio straordinariamente richiama il singolo ad attendere alla sua presenza, a togliersi dalla distrazione.

È questo un miracolo in senso più determinato: come accento particolare degli avvenimenti che richiama inesorabilmente a Dio.

Può essere una improvvisa buona notizia, o un dolore imprevisto, a costituire un miracolo per il singolo; può essere una vita o una morte, può essere un pianto e può essere una gioia, può essere una bocciatura, può essere una promozione, può essere la salute e può essere la guarigione.

Ma è un accento degli avvenimenti che richiama il singolo a Dio: per gli altri sono cose che possono essere banali o facilmente scontate,interpretabili come casualità, per l’individuo a cui capitano sono un potente richiamo.

(Racconto del Gemoll) Ho citato questo episodio per insistere sulla seconda accezione della parola “Miracolo”: un accento degli avvenimenti che  richiama una persona a Dio e, richiamandola, richiama anche il prossimo, che le è vicino.

La grandezza di Dio sa palesarsi proprio nella familiarità con cui vive l’uomo, vive nella vita dell’uomo.

Perché sia considerabile come richiamo a Dio, l’avvenimento miracoloso a priori deve avere una caratteristica moralizzatrice, deve avere una funzione educatrice della coscienza della persona.

Questo è il primo e fondamentale criterio per distinguere il miracolo del meramente straordinario, del semplicemente prodigioso.


Dipendenza

(197) (L’educazione religiosa) è una sollecita preoccupazione pedagogica perché l’uomo abbia ad avere coscienza di quel che Dio è, è una preoccupazione che si esprime in richiami continui per condurre l’uomo a vivere questa coscienza di dipendenza totale dal Mistero che ci parla.

Perché questa è la legge della vita: la dipendenza dal Padre che in ogni istante formula la nostra vita, sorgente continua del nostro esistere.

È un appello appassionato a ricordar ciò per cui io sono irriducibilmente io, partecipazione ontologica dell’Essere.

La indipendenza dell’uomo è tracciata dal vivere la dipendenza da Dio.

La paradossalità di questo non ne toglie la verità: è la dipendenza da Dio che rende me a me stesso, è la dipendenza da un Altro  che mi rende libero da tutti gli altri.


Dipendenza e autosufficienza

(290) Se uno non è già aperto verso Dio, il miracolo lo  confonderà ancora di più, chi vuole essere distratto troverà nel miracolo la fonte di maggiore distrazione.

Il miracolo, infatti, è un confronto della libertà con Dio che la crea: la sua scoperta dipende perciò dalla previa soluzione di quest’ultimo furtivo vero dramma di scelta che l’uomo fa tra l’autosufficienza e la dipendenza, fra la vita come affermazione di sé e la vita come affermazione di un Altro, fra la chiusura nelle proprie anguste misure e l’apertura alla insondabile possibilità che l’Essere ha posto all’origine di ogni esistenza.

Senza un precedente, almeno implicita, simpatia per Dio, non si può cogliere un avvenimento come miracolo.


Disuguaglianza fra gli uomini

(53) (descrizione della teoria di John Dewey)

Il successo di un uomo grande (dice Dewey) serve anche agli altri, serve alla società.

Ma questa formula di giudizio introduce nella valutazione degli uomini una disuguaglianza che non verrà più evitata, una discriminazione radicale che sancisce per la mentalità moderna un’altra conseguenza di quel clima umanistico che venera la “FAMA” e la “FORTUNA” come divinità.

Infatti che accadrebbe di qualcuno che non avesse le doti necessarie per farsi un nome, o di qualcuno che, pur avendole, non fosse aiutato dalle circostanze?

Sarebbe destinato ad essere “sottovalutato”.

Un’ingiustizia è, così, resa principio fondamentale per il valore della persona.

Tale disuguaglianza non differisce poi molto dalla situazione romana di 2000 anni prima, quando la personalità dell’uomo si considerava compiuta solo nel caso del civis romanus, che mutuava, perciò, dall’appartenenza a Roma il suo valore.


Dissociazione

(46) All’interno di questa somma di circostanze sociali si delinea allora il profilo di unità in via di disgregazione, cui l’Umanesimo darà un supporto culturale.

Un autore emblematico di questo passaggio è Francesco Petrarca, nei cui versi si avvertono i segni e i contraccolpi sulla personalità della dissociazione in atto rispetto al precedente clima culturale e sociale.

Tutte quante le rime del Petrarca sono come il documento di “un’anima ferita \ de la discorde vita”, di un’anima strappata tra i riconoscimento che è ancora chiaro e netto ma teorico, di una certa visione dell’uomo, e perciò di un senso morale, e un sentimento globale del vivere che si pone come fluttuante per proprio conto, disarticolato dalla teoria.

(47) [ … ] proprio questo tipo umano soffre ormai una lacerazione: la sua personalità è divisa e spezzata, e la tensione provocata da tale rottura costituisce il respiro ultimo, della sua poesia.

È proprio di un’anima inquieta, angustiata, il sigillo dell’opera del Petrarca: è il desiderio e l’aspirazione verso qualcosa di prezioso che ci si sente sfuggire di mano e si vede allontanare.


Distacco

(202)

«In verità vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e del Vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna».

Mc 10, 29-30

E lo diceva riferendosi a un giovane, che Egli subito aveva guardato con amore, di fronte alla sua proposta di lasciare tutto per seguirlo,tristemente rinuncia, perché molto attaccato alle sue  ricchezze.

Vale a dire: il  giusto atteggiamento potrebbe anche voler dire un distacco dal proprio punto di vista.

O da quel segmento di vita che si vorrebbe affermare come fosse tutto, ma se tale distacco si realizza, esso genera una nuova ricchezza, un nuovo vero possesso delle cose e degli affetti.

La salvezza perciò operata da quel giusto atteggiamento comincia, e con abbondanza – “cento volte tanto” – nel tempo presente, secondo la fisionomia dell’impegno e della storia di ognuno.


Dogma

(227s) (Parte del magistero straordinario). La verità che viene definita con uno di quei due interventi straordinari (Concilio ecumenico oppure intervento personale del Papa, iniziativa che viene chiamata definizione ex cathedra) riguarda sempre qualcosa che già fa parte della vita della Chiesa.

L’autorità la individua difendendola, chiarendo quello che risulta da sempre, almeno implicitamente vissuto; non è, per sua natura, inventiva a prescindere dalla vita e dalla coscienza della comunità.

L’espressione usata dalla Chiesa per indicare queste esplicitazioni è la parola dogma, la cui origine greca è nel verbo “dokeo”, credere, ritenere, la parola sostantiva significa opinione decreto, massima, e nei secoli è venuta ad individuare punti di dottrina definiti con precisione dall’autorità della Chiesa.

(228) Quando perciò nella Chiesa viene proclamato un dogma  non è mai frutto di una repentina decisione o di una sconsiderata reazione.

La vita di Cristo nella storia della Chiesa è una vita che cresce.

Tutta la ricchezza della verità è Cristo: la vita della Chiesa prende sempre più coscienza di quello che Cristo le ha portato, e perciò quello che essa ha in sé.

La formulazione dogmatica coincide con questo salto di qualitativo nella coscienza della Chiesa, e quindi, in essa, delle persone.

(230s) E’ ovviamente grande oggi l’ignoranza sia del metodo con cui nella Chiesa si arriva alla proclamazione di un dogma, sia del significato stesso di questa espressione: essa – abbiamo visto – sta ad indicare una valore quando è coscienza certa e vissuta della comunità cristiana.

In senso ristretto si applica normalmente “dogma” a una proclamazione eccezionale, per indicare che a questo ultimo livello non c’è più possibilità di dubbio interpretativo, e la Chiesa vi è determinata da una situazione che richiede chiarezza urgente di fronte al mondo.

Non tutto è dogma: anzitutto perché potrebbe non essere necessaria quella solenne esplicitazione, secondariamente perché non tutto può esser emerso  alla coscienza del popolo cristiano così da diventare certa o chiara consapevolezza: altrimenti la storia non avrebbe più senso.

(233) L’autorità della Chiesa, perciò non ricorre certo con frequenza alla proclamazione di un dogma, per esercitare la sua missione di comunicare la verità: nell’ultimo secolo e mezzo, per esempio, sono stati proclamati 3 dogmi: l’Immacolata Concezione 1854; l’infallibilità del Papa 1870; l’Assunzione della Vergine nel 1950.

Perché a un certo punto, la Chiesa proclama un dogma e non lo lascia più alla coscienza del popolo di Dio?

Perché ciò si rende necessario all’interno della grande pedagogia dell’uomo a Cristo, che la Chiesa ha per missione di compiere.

L’esplicitazione dogmatica di una verità può divenire particolarmente utile per la comunità cristiana quando una cultura dominante neghi con metodi gravi e violenti quella verità.


Dogma dell’Assunzione

(228) L’autorità della Chiesa, quando proclama un dogma, è molto attenta a sondare la coscienza dell’umanità.

Quando per esempio nel 1950  Pio XII ha proclamato il dogma dell’Assunzione della Vergine, lo ha fatto solo dopo ripetute consultazioni con i vescovi e delle comunità di tutto il mondo, fino ad ottenere al certezza che tale definizione non faceva altro che dare voce a quanto, fin dai tempi più antichi, il popolo cristiano non aveva mai smesso di credere.

La festa dell’Assunta, infatti, risulta già celebrata nel IV  secolo e da allora non si è mai cessato di tramandare che la Vergine era stata elevata alla gloria celeste al termine della sua vita terrena in anima e corpo, senza dover attendere la finale risurrezione dei corpi e sfuggendo alla corruzione delle sue spoglie mortali.

Il che è esattamente ciò che Pio XII proclamò definendo il dogma dell’Assunzione.

(229) Era una sfida affermare che l’avvenimento cristiano proclama il valore della esistenza del corpo per l’eternità, e che il valore, anche di una vita assolutamente priva di clamorosità, sta nel vivere l’attimo come aspetto e funzione dell’amore al tutto, così come la figura di Maria suggerisce.


Dogma dell’Immacolata concezione

(229) Il dogma dell’Immacolata Concezione fu proclamato nel 1854, all’inizio dell’ondata materialistica.

Già Duns Scoto, filosofo e teologo francescano vissuto alla fine del 1200, insegnava che la Vergine fu preservata dal peccato originale, in qualche modo cioè, redenta in anticipo, da Colui che le sarebbe stato Figlio.

E otto secoli dopo, è esattamente questa spiegazione che la Chiesa riprenderà nel definire il dogma dell’Immacolata concezione.

La Chiesa ci propone così di guardare a Maria come a chi ha vissuto in modo completo la sua umanità, senza essere segnata dall’originale ambiguità, di guardare cioè a una donna la cui esistenza si può riassumere in quel “fiat voluntas tua” con cui ha accettato la sua missione.

Così di fronte agli orgogliosi figli dell’illuminismo, veniva nuovamente riaffermata la fragilità dell’uomo, che diviene grande solo nell’aderire a Dio.

Veniva riaffermata la dottrina del “peccato originale”, già definita dal Concilio di Trento; e non c’è dubbio che la mentalità dell’epoca, come anche la nostra, sentisse ripugnante questa immagine di debolezza e di incoerenza strutturale, questo avviso della irrisolvibile capacità dell’uomo con le sue sole forze ha di lasciar determinare i suoi passi dal destino vero.


Dogma dell’infallibilità pontificia

(231s) L’esplicitazione dogmatica di una verità può divenire particolarmente utile per la comunità cristiana quando una cultura dominante neghi con metodi gravi e violenti quella verità.

Prendiamo come esempio l’altro dei più recenti dogmi definiti: il dogma della infallibilità del Papa.

Va anzitutto ricordato che il riferimento ultimo delle chiese al Papa è documentato come vissuto già pochi anni dopo la morte di Cristo.

In che cosa consiste dunque questa infallibilità?

È innanzitutto una caratteristica dovuta al fatto che Dio comunica sé stesso attraverso la Chiesa.

Non è dunque una capacità dell’uomo, ma prerogativa della potenza di Dio, che si manifesta nell’assicurare il suo Spirito a tutta la sua Chiesa.

Così il dogma dell’infallibilità del Papa, specificazione ultima dell’assistenza promessa da Gesù alla sua Chiesa, in considerazione del suo radicamento nella storia della Chiesa stessa, avrebbe potuto anche non essere promulgato.

(Note in basso nel libro) L’infallibilità della Chiesa si esprime mediante la tradizione [ … ] e quando questa si sviluppa senza urti non c’è bisogno di altro.

Ma quando la Chiesa è lacerata da controversie e la tradizione non si manifesta più con chiarezza, si rende necessario sapere mediante quale organo l’infallibilità si manifesta in ultima istanza.

L’infallibilità pontificia, dunque, non è che una precisazione dell’infallibilità della Chiesa. [ … ] è l’infallibilità della chiesa che si manifesta attraverso il Papa.


Dono


Dono dello Spirito

(113s) Dal punto di vista della coscienza che di sé aveva la gente che si riuniva, l’idea dominante era che la loro vita era stata mossa e trasformata da una azione superna che veniva indicata come “Dono dello Spirito”.

«Mentre i giorno di Pentecoste stava per finire, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutte le case dove si trovavano. Apparvero loro lingue come di fuoco che si dividevano e si posavano su ciascuno di loro; ed esse furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi».

Atti 2,1-4

(114)

«Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera»

Luca 24,49

Vediamo che cosa implica la consapevolezza della cristianità primitiva d’essere costituita dal “dono dello Spirito” o dalla “forza dall’altro:

  • La consapevolezza di un fatto che ha i potere di cambiare la personalità. I primi cristiani erano ben consapevoli che tutto ciò che accadeva in loro e tra di loro di nuovo, di eccezionale rispetto alla vita di prima, di sconvolgente in paragone all’esistenza che tanti attorno a loro conducono, non era frutto della loro adesione, della loro intelligenza o della loro volontà, ma era un dono dello Spirito, un dono dall’alto, una forza misteriosa da cui erano investiti.

(116) Così per l’uomo investito dal dono dello Spirito si verifica un mutamento di volto, espressione di una ontologia nuova.

[ … ] caparra dello Spirito, cioè dell’attuato inizio dell’azione efficace dello Spirito, di quella energia con cui Gesù Cristo risorto, avendo in mano ogni cosa, sta mobilitando la realtà tutta verso i manifestarsi finale della Sua verità …..

(118) Il dono dello Spirito ha come esito di rendere palese il fatto che si è immessi in quel nuovo flusso d’energia provocato da Gesù, manifesta che si è parte di quel fenomeno nuovo.

Perché il dono dello Spirito è una forza che investe gli uomini che Cristo ha chiamato nella sua Ecclesia.

Egli conferisce una nuova consistenza, in funzione dello scopo immediato di quella chiamata, l’edificazione della comunità, caparra del mondo nuovo.

(119) Il dono dello spirito comunica a queste nuove personalità un impeto, che rende la loro vita capacità comunicativa feconda, comunicativa della novità che nel mondo Gesù ha portato.

Così, sia l’individuo, dia la comunità se sentono in grado di pronunciarsi di fronte al mondo.

(121) Così nella comunità cristiana primitiva, la potenza divina era spesso segnalata da una esperienza sensibile.

Spesso questo Spirito che veniva dato nel battesimo letteralmente provocava atteggiamenti prodigiosi: gente che parlava lingue sconosciute, che comprendevano l’incomprensibile.

Si era agli inizi, perciò il dono dello Spirito si esprimeva in fenomeni eccezionali e frequenti, in cambiamenti straordinari nella gente che riceveva il battesimo, tanto che questo fenomeno diveniva un segno di riconoscimento della elezione divina.

Dono di sé Vs moralismo

(131) (Caso di Anania e Saffira)che furono puniti perché avendo venduto il loro campo, misero a disposizione della comunità metà del ricavato dicendo però che era tutto quello che avevano.

Così il sacrificio fatto con costrizione ha generato una menzogna di fronte alla comunità e allo Spirito, che Pietro duramente condanna.

L’assenza di costrizione, la gioia, quell’ilarità del cuore cui accennava Paolo non sono un fatto esteriore, una maschera superficiale di contentezza.

Si può compiere un sacrificio avvertendone la fatica fino alle lacrime, eppure con una ultima spontaneità, insomma volentieri, come l’ineliminabile suggerimento di qualcosa che si vuole esprimere, con passione, come l’espressione di qualcosa che vale la pena di vivere e manifestare.

Tale criterio è l’opposto del moralismo, del sacrificio concepito e fatto in nome di una formale senso del dovere: si tratta invece del dono di sé a Dio come frutto autentico della propria adesione al grande dato di fatto, la comunanza riconosciuta della ragione di vita.

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