Temi di “Perchè la Chiesa”

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Lettera «E»


Ekklesia – ecclesia

(105s) Quel gruppo che si raccoglieva dapprima sotto il portico di Salomone, e che è andato poi viva via allargandosi e moltiplicandosi, in ambienti ormai ellenizzati, chiamava la propria realtà che si radunava ekklesia.

Il termine greco significa letteralmente assemblea, riunione di persone.

In un momento in cui la partecipazione della novità cristiana giungeva a un mondo non strettamente confinato all’ebraismo, il termine era stato preso di peso dal lessico ellenistico che lo utilizzava per indicare ogni genere di aggregazione.

Era perciò una parola che indicava realtà normali della vita sociale, una chiamata a raccolta che poteva interessare non solo i cristiani, che poteva verificarsi per tutt’altra finalità e motivazioni in una qualunque città.

(Negli Atti c’è u n racconto di una assemblea concitata a Efeso contro Paolo e i suoi): questo raduno improvvisato e turbolento è indicato dallo stesso autore degli Atti degli Apostoli, con il termine “Ekklesia”, l’identico termine che veniva usato per il riunirsi dei cristiani.

(108s) Così all’idea ebraica di qahal Javhé  succede l’idea finale di ecclesia Dei, la comunità di Dio, i radunati da Lui.

E’ da notare che l’ecclesia Dei non è una riunione popolare che merita di essere chiamata assemblea quanto più è folta la partecipazione: ciò che costituisce la comunità cristiana come Chiesa, non è il numero, come puro e semplice stare insieme, ma è il fatto di venire raccolti da Dio, un Dio che raccoglie chi vuole, e dà a ciascuno i doni e le responsabilità che vuole.

(109)Il termine Ecclesia viene usato nei primi documenti cristiani molte volte al singolare.

Lo stesso termine, però, viene usato anche al plurale.

(110) Nel suo senso più compiuto l’espressione Ecclesia Dei rappresenta il popolo di Dio nella sua totalità, proprio per l’inevitabilità di doversi riferire al gesto di Dio, alla sua scelta libera e totale.

In tal senso, come afferma de Lubac, l’ecclesia è “convocatio prima d’essere congregatio”.

Non è dunque, per una addizione di comunità che si forma la Chiesa totale, così come nel movimento protestante si concepisce, intendendo ognuna della comunità autonoma e autogenetica: parlo del congregazionalismo, tentazione che si sente presente anche nella Chiesa cattolica.

Invece ogni comunità, per quanto piccola possa essere, traendo il suo valore dalla Chiesa totale, la rappresenta tutta, incarna il Mistero di quella chiamata che era così presente alla coscienza dei primi cristiani.

(111) Il piccolo gruppo ha il significato della Chiesa tutta, il singolo gruppo affettuosamente ricordato in questo brano, (1 Cor 16,19), è segno del Mistero in funzione del quale l’apostolo vive.

Per questo una semplice assemblea familiare può essere citata con le grandi comunità.

Dunque il valore che viene dato dai documenti della prima cristianità alle singole e diverse esperienze di comunità, in quanto unite agli apostoli, è il valore stesso della Chiesa totale, proprio in quanto esprimono la sua realtà profonda e unitaria, che il Signore fa emergere in esperienze diverse.

(112) Come può Gesù Cristo essere comunicato in un ambiente se non attraverso un gruppo di cristiani coscienti di autentica appartenenza alla stessa Chiesa?

Senza di loro la Chiesa totale in quell’ambiente è come se non esistesse: la Chiesa totale ha valore in quanto emergenza della Chiesa totale, la quale senza di quella non vivrebbe la concretezza storica.

La riflessione sul termine ekklesia ci ha aiutati a comprendere il tipo di consapevolezza che i primi cristiani avevano del valore della loro comunità, valore che derivava totalmente, interamente dalla partecipazione all’unica Chiesa retta dagli Apostoli.

(133) Così koinonia o communio vengono usate per indicare la Chiesa come tale, si pongono come sinonimi del termine ekklesia, indicando l’unità del popolo di Dio come fatto sociale che ha preso una sua forma, come istituzione, struttura sociale nuova.


Educazione

(6) Uno psicologo e filosofo tedesco, Johannes Lindworsky ha affermato che la prima condizione per una educazione, cioè per trasmettere una capacità di entrare nella realtà, è che i passi dell’individuo che si introduce al reale siano sempre motivati da qualcosa che poggi su una esperienza da lui già acquisita.


Educazione religiosa

(197s) In che cosa consiste dunque questa educazione religiosa dell’umanità, che la Chiesa proclama come suo scopo, per ciò stesso che si riconosce prolungamento di Cristo?

È una sollecita preoccupazione pedagogica perché l’uomo abbia ad avere coscienza di quel che Dio è, una preoccupazione che si esprime in richiami continui per condurre l’uomo a vivere questa coscienza di dipendenza totale dal Mistero che ci parla.

Perché questa è la legge della vita: la dipendenza dal Padre che in ogni istante formula la nostra vita, sorgente continua del nostro esistere.

La paradossalità di questo non ne toglie la verità;

è la dipendenza da Dio che rende me a me stesso, è la dipendenza da un Altro che mi rende libero da tutti gli altri.

È la stessa preoccupazione educativa che abbiamo  visto in Gesù, realizzata nel modo con cui si è proposto ai discepoli perché lo riconoscessero: una linea educativa concreta e amorosamente cauta, ma esigente, mai dimentica della necessità costante di valorizzare la situazione in cui la libertà dell’altro si è messa.

È la linea pedagogica della rivelazione.

(200) L’incessante richiamo della Chiesa alla educazione religiosa autentica dell’umanità è una dimensione che, nel riconoscimento leale della propria dipendenza, trova anche la speranza della misericordia che ci ha creato, trova la salvezza come una fune tesa per te, trova espressa  la figura di un uomo che non è solo , che per definizione è in compagnia di un Altro che gli è Padre.


Compito educativo

(204) Se la Chiesa conclamasse come suo scopo di battere in breccia lo sforzo umano di promozione, di espressione, di ricerca, farebbe, per riandare all’immagine della madre che abbiamo appena evocato, come quei genitori che si illudono di risolvere i problemi dei figli sostituendosi a loro.

Sarebbe anche per la Chiesa una illusione, poiché verrebbe così meno al suo compito, come quei genitori che si illudono di risolvere i problemi dei figli sostituendosi a loro.

Sarebbe anche per la Chiesa una illusione, poiché verrebbe così meno il suo compito educativo.

Vale per la Chiesa, infatti, ciò che ho avuto modo di riferire al singolo educatore nel “Rischio educativo”.

Sarebbe inoltre, da una parte, svilire la storia essenziale propria del fenomeno cristiano, dall’altra depauperare il cammino dell’uomo.


Efficienza sociale

(53) Riuscire significa in qualche modo incidere sulla vita sociale, realizzare qualcosa anche per l’umanità.

È infatti questo il criterio supremo del progetto  del più influente pedagogo americano John Dewey, criterio che è stato poi importato anche in Europa: “L’efficienza sociale”.

Questo concetto è ovvio in ogni cultura che non abbia Dio come punto reale di riferimento, e si può però comprendere come risposta all’esigenza di non racchiudere totalmente l’idea di riuscita in una utilizzazione e consumazione individualistica.

Così si dice – i successo di un uomo grande serve anche agli altri, serve alla società.

Ma questa formula di giudizio introduce nella valutazione degli uomini una diseguaglianza che non verrà più evitata, una discriminazione radicale che sancisce per la mentalità moderna un’altra conseguenza di quel clima umanistico che venera la Fama e Fortuna come divinità.

Infatti che accadrebbe di qualcuno che non avesse le doti necessarie per farsi un nome, o di qualcuno che, pur avendole, non fosse aiutato dalle circostanze?

Sarebbe destinato ad essere “sottovalutato”.

Un’ingiustizia è, così, resa principio fondamentale per il valore della persona.

Tale diseguaglianza non differisce poi molto dalla situazione della società romana di duemila prima, quando la personalità dell’uomo si considerava compiuta solo nel caso del civis romanus, che mutuava, perciò, dall’appartenenza a Roma il suo valore.


 Efficienza sociale vs merito

(59) Così come si era rivelata molto più umana quell’efficienza realizzatrice dell’istante che la Chiesa esprime nel concetto di merito rispetto alla “efficienza sociale” di Dewey, allo stesso modo, infinitivamente più realistica, e perciò completa, appare questa registrazione che la Chiesa opera dell’impeto ideale che l’uomo ha dentro e della fragilità per cui è incapace di realizzarlo, rispetto alla dimenticanza che abbiamo visto compiersi nella mentalità rinascimentale.


Eirene

(133) In questo senso sono commoventi alcuni sinonimi via via usati dalla comunità per indicare la realtà intera della Chiesa a partire da un particolare valore individuato e sperimentato.

Uno di questi è, per esempio, la parola eirene, che significa pace, e che viene usata per indicare il vincolo che unisce tutti i cristiani.


Elezione – scelta di Dio

(106s) Così Ecclesia Dei vuol dire raccolti da Dio.

Quali categorie vengono raccolte in questa formula originalissima della primitiva comunità cristiana?

Innanzitutto la categoria cui abbiamo già accennato, della elezione, della scelta di Dio, che qui nuovamente troviamo applicata al popolo che si andava formando, quel popolo così identificabile, ma senza confini etnicamente intesi.

Il Signore Dio, nel suo disegno che riguarda tutto il mondo, teso a tutto il mondo poiché Egli è il Signore di tutti, si propone a tutti attraverso la scelta di una realtà umana particolare.

Dicevamo prima che questo  metodo è motivo di scandalo, e lo è tanto più per noi oggi, pieni di difficoltà come siamo nel renderci conto del linguaggio cristiano autentico.

Il concetto di elezione, di scelta di Dio, è il caso in cui più clamorosamente la lontananza da una comprensione si documenta in noi, perché non c’è nulla di più contradditorio con il razionalismo in cui siamo formati e con l’egualitarismo o il democraticismo che ne sono conseguenza.

(107) Non esiste niente che affermi e insegni all’uomo l’assolutezza di Dio come il Fatto che egli sviluppi nel mondo la sua opera attraverso coloro che Egli sceglie, attraverso una elezione: Dio non è legato a nulla e proprio nel fenomeno di questa preferenza elettiva si manifesta.

La Chiesa descritta (MT 16,11-18) come costruita da Cristo e sua, frutto di una scelta, una scelta che si inserisce nella grande storia della preferenza di Dio, che utilizza il metodo al quale Dio è sempre stato fedele.

(259) Dio porta il mondo verso il compimento totale attraverso quel fenomeno che nell’Antico Testamento si chiama “elezione”.

È un procedimento misterioso attraverso cui passa la sua grazia, la sua parola.

La grande trama attraverso cui si svolge la trama di Dio coinvolge coloro che il Padre vuole.

Quindi la presenza dell’uomo al gesto sacramentale vissuta come preghiera, come domanda, consacra la propria elezione a essere presenza nella storia del mondo.

Non è un problema pietistico l’accostarsi del singolo ai sacramenti: è la partecipazione della storia di un uomo al disegno di Dio, e quella singola storia è dentro la storia del mondo, che in Cristo ha già realizzato la sua pienezza.


Episkopon

(138) La prima lettera di Pietro è uno dei passi neotestamentari in cui compare l’espressione episkopon.

Per comprenderne i significato è interessante la relazione di questo termine con quello di “pastore”.

Come dice Schnackenburg, commentando la lettera di Pietro, il verbo episcopein:

«Indica il guardare premuroso del pastore sul gregge a lui affidato e lo stare attento ai pericoli esterni. È quasi certo che qualcosa della ricchezza di una simile immagine viva del pastore sia entrata a far parte del vocabolo “episcopo”, termine che lentamente andava prendendo piede».

Schnackenburg

Equilibrio

(294s) L’equilibrio che può essere assunto come tratto distintivo della presenza della santità della Chiesa è una ricchezza di cui Gesù dice: «Una buona mistura, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo» riferendosi con una immagine presa dalla vita di ogni giorno, a ciò che viene dato da Dio a colui che assume la misericordia del Padre come criterio di vita.

(295) L’origine dell’equilibrio della santità cristiana è dunque la straripante ricchezza dell’essere che, per così dire, si impossessa dell’umanità e che all’umanità è donata per venire liberamente accolta come unico criterio di vita.

L’equilibrio si propone e si dimostra come non parzialità e non faziosità nell’impegno di sé per raggiungere l’ideale di una propria completezza.

Fin dai tempi del liceo, seguendo la messa, ciò che mi faceva più colpo era notare nelle orazioni e nei Prefazi della domenica questa unità profonda tra lo spirito e il corpo, tra l’aldilà e la terra.

Questo indubbiamente è il documento supremo dell’equilibrio della santità cristiana.

È ciò che viene espresso con particolare bellezza in un prefazio Ambrosiano: «O Signore che per questo ci dai i beni temporali, affinché abbiamo le primizie dell’eterno».

Il bene temporale come primizia dell’eterno.

Non c’è connessione strutturale più profondamente coinvolgente né equilibrio più sano di questo, per cui il concreto non è evacuato, non è emarginato; quel concreto del presente fatto dall’hic et nunc, in cui, in quella che sarebbe la banalità effimera di questo tempo e di questo spazio, fiorisce la dimensione dell’eterno.

È la stessa comprensività che caratterizza il pensiero cristiano nelle sue espressioni più geniali.

(296) L’equilibrio realizzato dalla santità cristiana ricava perciò la sua originalità da una ricchezza che non è dell’uomo, ma di Dio, che ha voluto farne partecipe l’uomo.

Non è dunque l’equilibrio che si potrebbe raggiungere attraverso tecniche finalizzate a dosare sapientemente le forze in gioco; è l’equilibrio dell’homo viator, è una dinamica destinata a rendere più concreto e completo il cammino, più pieno il pellegrinaggio su questa terra, poiché a noi si è affiancato, camminando con noi, Colui la cui pienezza spiega la vita e la dispensa a piene mani.

«Non ci ardeva il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino?»,

Lc 24,32

si domandavano i discepoli di Emmaus dopo che hanno riconosciuto nel viandante che li ha accompagnati per un tratto di strada il Maestro risorto.


Errore


(56) la dimenticanza di un fattore della scelta.

Tale ostilità verso Dio è figlia di una persistente dimenticanza, dunque di una riduzione del reale.

I meccanismi della sua genesi sono analoghi a quelli cui allude l’acuta osservazione di Chesterton, secondo cui tutti gli errori sono verità impazzite.

Non c’è come la follia che disarticoli certe espressività da un contesto capace di rappresentare la realtà nella sua totalità: ma non c’è nulla come una ridotta osservazione del reale che produca disarticolazione e rischio di impegnarsi in “verità  impazzite”.


Esperienza


Esperienza interiore

(22) Ma allora, come oggi l’uomo potrà raggiungere la certezza di questa Presenza, la verità di tale esperienza?

L’uomo vi è impotente, trattandosi fatalmente di un mistero.

È lo Spirito stesso di Dio che illumina il cuore e, per ispirazione, fa “sentire” la verità della persona Gesù.

Si tratta di un riconoscimento attraverso un’esperienza interiore.

È questo il fulcro dell’atteggiamento protestante.

Perciò da un certo punto di vista l’atteggiamento protestante è l’opposto di quello razionalistico, perché è religioso in modo purissimo, dominato come è dal fatto che l’Essere è totalmente altro da qualunque umana misura e a Lui tutto  è possibile, dall’altro esiste come pericolo una certa identità tra i due atteggiamenti (non per nulla il razionalismo in campo cristiano è stato diffuso in ambito protestante). Il denominatore comune, infatti, è un ultimo soggettivismo.


Esperienza presente

(31) Come si fa a possedere l’esperienza che detta le parole?

Per arrivare a questo occorre un incontro, un presente, occorre incontrare quell’esperienza oggi.

L’obiettivo della conoscenza storica, che è il valore che voleva essere affermato nell’atteggiamento razionalista, è salvata se io partecipo all’esperienza che ha dettato quei documenti storici.

E c’è una solo possibilità: che quell‘esperienza sia presente, abbia un luogo presente.

Questa è la Chiesa, questa è l’unità dei credenti.


Esperienza mistica

(32) Esaminiamo ora il valore che va sottolineato nell’atteggiamento protestante.

Il valore da sottolineare è che l’assoluto, indipendentemente dalle deviazioni umane, si può palesare direttamente alla sua creatura: è l’esperienza mistica.

Ora è più potente l’impeto di ammirazione, di contemplazione  che l’uomo ha verso la donna che ama quando se la immagina o quando l’ha davanti a sé?

È mille volte più potente il senso mistico di contemplazione, chiamiamolo così, in presenza dell’oggetto d’amore, piuttosto che quando esso sia affidato al proprio, sia pure intenso, sentimento in lontananza!

Ecco perché tanti sono stati i mistici cattolici, e i più grandi!

Proprio il rapporto tra il credente e l’unità dei cristiani attorno all’autorità non oscura, ma assicura, precisa ed esalta quel nesso profetico e mistico tra la persona e lo Spirito di Cristo, che il protestantesimo privilegia.


Esperienza elementare \ cuore

(266s) La Chiesa, proseguendo ciò che Gesù ha compiuto nella sua esistenza terrena, si rivolge alla nostra umanità così come è.

Tuttavia la sua materna accoglienza dell’umano, come lo sguardo e il gesto del Redentore, vuole nell’uomo provocare i moti più originali del suo cuore.

La Chiesa, come Gesù, si rivolge a quella capacità dell’uomo che, trattando delle componenti essenziali del “senso Religioso” abbiamo chiamato esperienza elementare, vale a dire quel complesso di evidenze ed esigenze originali con cui l’essere umano si protende sulla realtà cercando di immedesimarsi con essa attraverso la realizzazione di un progetto, che alla realtà stessa detti l’immagine ideale che lo stimola dal di dentro.

La proposta della Chiesa vuole entrare nel dramma dell’universale confronto in cui l ‘uomo è proiettato quando paragona qualunque elemento del reale con quella esperienza elementare che costituisce il suo cuore.

La sfida della Chiesa si può riassumere in questo modo:

essa scommette sull’uomo ipotizzando che il messaggio di cui essa è strumento, vagliato dall’esperienza elementare, rivelerà la presenza prodigiosa.

La risposta che il messaggio contiene alle esigenze del cuore dell’uomo, sarà imprevedibilmente senza paragone più grande e vera dell’esito di qualunque altra ipotesi.

Entrando in questo dramma dell’uomo che confronta tutto con l’esperienza elementare, la Chiesa puntualizza dunque che è all’esperienza stessa dell’uomo che si rivolge, non alle maschere di umanità dominanti le diverse forme di società nel vano tentativo di giustapporre qualcosa al volto dell’uomo o di sostituirne la natura.

È dunque con questo supremo senso critico, continuamente da conquistare, che la Chiesa si vuole misurare, mettendo sé stessa alla mercé dell’autentica esperienza umana.

Essa abbandona il suo messaggio all’attuazione dei criteri originali del nostro cuore.

Non chiede clausole da adempiere meccanicamente, si affida al giudizio della nostra esperienza, anzi, continuamente la sollecita a percorrere il suo cammino in completezza.


Estraneità

(36) Tale estraneità coincide con la difficoltà a considerare il religioso come determinante di tutto.

(127) L’estraneità come porta aperta all’ostilità non viene abolita con un generico richiamo al volersi bene, ma viene da Paolo tentativamente ridimensionata tramite l’appello a un dato di fatto: siamo una cosa sola.

Se abbiamo in comune Cristo, tanto più abbiamo in comune le cose della vita, sia materiali che spirituali: ecco l’idea guida dei rapporti concreti dei primi cristiani tra di loro.

Da una realtà ontologica scoperta e riconosciuta scaturisce il bisogno di un comportamento nuovo.


Eucarestia

(134) L’eucarestia, che in greco significa rendimento di grazie, era i segno di tutta la vita della comunità.

Galbiati in “L’Eucarestia nella Bibbia”: «Il segno più saliente e il coefficiente più efficace della loro comunione era lo spezzare del pane, che essi celebravano nelle case private, messe a disposizione dalle comunità da parte dei più facoltosi. Vi sono indizi sufficienti per convalidare l’opinione che il rito eucaristico avesse luogo alla fine di una refezione comune o comunque in connessione con essa [ … ]. D’altra parte, era naturale che i primi cristiani amassero imitare la “Cena del Signore” anche nella circostanza che essa aveva avuto luogo nel contesto del Convito serale».

Galbiati in “L’Eucarestia nella Bibbia”

(136) Un altro esempio storico del fatto che la celebrazione dell’Eucarestia fosse vissuta dai primi cristiani come un segno distintivo supremo dello loro fede comune è contenuto in una prassi assai diffusa nelle comunità primitive: le lettere di comunione.

[ … ] Tali passaporti si chiamavano lettere di pace o lettere di comunione, poiché attestavano che il viaggiatore apparteneva alla communio e poteva quindi ricevere l’Eucarestia.

Si comprende allora, notiamolo per inciso, il significato originale che nella storia della Chiesa ha il termine di “scomunica”, vale a dire “fuori dalla comunione” che segnava chi non essendo riconosciuto dal vescovo non veniva ammesso all’Eucarestia.

(247s) E il gesto che rende possibile il cammino di questa nuova creatura, rifatta dalla potenza di Dio e capace di cose nuove, è l’Eucarestia, viatico, cibo del cammino, alimento vero della persona, della sua speranza.

Continuamente in questo gesto, Cristo, donandosi, perfeziona l’uomo in sé stesso.

Questa è l’Eucarestia: Cristo ci restituisce una umanità capace di giustizia, di gioia e di accoglienza, un’umanità vera, e la fa venendo a casa nostra.

Anche noi, come Zaccheo, vorremmo essere riacciuffati dagli alberi dei nostri vari progetti e sentirci dire; “vengo con te”.

Oppure si potrebbe desiderare la familiarità del discepolo più giovane che, nell’ultima cena, appoggiava la testa sulla spalla di Gesù.

Ma senza paragone più profondo è il tipo di familiarità di cui Cristo mi rende capace dandomi sé stesso come cibo e bevanda.

Dentro il segno della materia realmente avviene quello che il segno indica: Egli diventa unità con me.

In un segno realmente si comunica alla nostra vita un rapporto ontologico, inimmaginabilmente profondo.

(258) Così il sacramento.

Non c’è alcun bisogno di saper riflettere, di trovare espressioni adeguate, di provare emozioni consoni all’avvenimento.

Lo diceva bene il vecchio catechismo, con la sua acuta sinteticità, quando chiariva che, per esempio, per accostarsi all’Eucarestia occorre “sapere e pensare chi si va a ricevere” vale a dire essere coscienti della “Grande Presenza”.

Perciò uno può compiere quel gesto partendo da una animo carico di risentimento, esasperato, con il cuore freddo e la mente bloccata.

Ciò che conta è il “libero andare a” portando sé stessi come domanda, ciò che conta è la presenza di sé a Cristo, consapevole, che si fa domanda, come quel giovane contadino in piedi, muto, davanti al suo padrone.

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