
Appunti della conversazione tra Tornielli e Carron
1 – Incontrare Dio oggi
Quando la secolarizzazione diventa un’occasione (pag.9)
Come guarda al futuro un cristiano di fronte ad un panorama come quello attuale? (pag. 9)
E’ la speranza che consente un autentico e radicale realismo. che come san Paolo, all’inizio della lettera ai Romani gli consentiva di non indietreggiare di fronte ai fati e ai problemi. Se un cristiano vive veramente un’esperienza di fede, la certezza che essa porta con sé si estende al futuro: fonda cioè una speranza che fa affrontare tutto con uno sguardo nuovo.
Il cristiano non è né pessimista né ottimista? (pag.10)
L’ultima parola sulla vita e sualla realtà è l’avvenimento di Cristo.
«Per sperare bisogna aver ricevuto una grande grazia»
Charles Peguy
Che significa “una grande grazia”? (pag.10)
E’ la grazia dell’incontro con Cristo. Il punto ultimo che definisce il reale, cioè, non più il male, la sofferenza, ma la vittoria di Cristo risorto. Chi riceve la grazia dell’incontro con Cristo e lo accoglie vive con la Sua presenza negli occhi, in ogni fibra del suo essere, ed essa plasma la modalità con cui guarda il reale.
La parola conversione significa questo….(11)
Sì è l’introdursi di un fattore nuovo, imprevisto – una presenza -, che è sorgente di una conoscenza nuova.
La fede cristiana che cosa può dire agli uomini e alle donne di oggi, in un mondo così flastagliato e problematico nel pieno del crollo delle evidenze?(10)
Può dire tanto se essi la incontrano incarnata nella vita, nell’esperienza di altre persone. Purtroppo non di rado i nostri contemporanei vengono in cntatto con una fede ridotta in senso moralistico o nozionistico: in questo senso non si può percepire la convenienza della fede per la vita di ciascuno.
Quando invece si incontrano persone che in forza di una fede vissuta affrontano le circostanze di tutti in modo diverso testimoniando “un di più” di intensità umana, un’ultima letizia, tutto cambia: scatta la curiosità e l’attrattiva.
In fondo il cristianesimo si è diffuso quando si è comunicato a poco a poco, come per osmosi, da persona a persona, da famiglia a famiglia, sopratutto grazie alle donne, alle madri. (13)
Nei primi secoli, storicamente, il cristianesimo ha avuto forse il più grande momento di diffusione grazie ai mercanti, agli schiavi, alle madri di famiglia. Avevano i limiti di tutti, ma era accaduto loro un incontro che li aveva trasformati.
«All’inizio nessuno ne afferrra la ragione. […] Poi qualcuno comincia a vederci chiaro. Comincia a capire cosa giova, ossia quanta gioia, quanta forza, quanta intensità guadagna la vita da quella condottoa apparentemente insensata. E allora non ha più che un unico desiderio, fare come loro»
Emmanuel Carrère
Probabilmente testimoniavano una capacità di volersi bene gli uni e gli altri….. (13)
E’ proprio questo il punto. Dicevo ai ragazzi di Madrid:«Cristo dovrebbe interessarvi proprio perché le cose più belle della vita possano durare». L’innamorarsi è una di quelle. MA chi può farlo durare? C’è una mancnaza di tenuta, cui non riusciamo porre argine.
«Dov’è la vita che abbiamo perduto vivendo?»
T.S.Eliot
Occorre qualcosa s’altro da noi, più grande. questo è, per l’uomo, Cristo presente.
Che cosa significa allora vivere l’esperienza cristiana in un contesto come quello della società occidentale? (14)
Proprio nel contesto della secolarizzazione, per contrasto, si può percepire con più nettezza, là dove accade, quella intensità umana. quel “di più” di capacità di affezione, di libertà, di possibilità di affrontare con speranza anche circostanze avverse, di usare la ragione in un modo non ridotto, che nasce dall’avvenimento cristiano: il cuore dell’uomo continua a desiderare
Come definirebbe il fenomeno della secolarizzazione? (15)
La secolarizzazione è un fenomeno molto complesso. Bisogna risalire alle soglie della modernità: nelle società di allora tutto era in qualche modo permeato e determinato dalla fede cristiana. Poi la riforma protestante creò le condizioni delle cosiddette “guerre di religione”. Se non si condivideva più la religione, che cosa restava come possibile collante? La ragione. Il titolo di un’opera di Kant, “La religione entro i limiti della ragione”, fa capire bene quale fosse la direzione intrapresa.
Il riconoscimento comune di questi valori permise di superare le divisioni e le contrapposizioni derivate dallo scontro tra le religioni.
Si è cioè cercato di separare i valori dalla loro origine? (16)
Kant lo chiarisce molto bene.
«Si può tranquillamente credere che, se il Vangelo non avesse insegnato prime le leggi etiche universali nella loro integra purezza, la ragione non le avrebbe conosciute [……] Sebbene adesso, dato che ormai esistono, ognuno può esser convinto della loro giusttezza e validità mediante la ragione»
Kant
Ma, oggi, i conti della storia, dicono un’altra cosa.
La ricerca di una tale rassicurante certezza, che potesse rimanere incontestata al di là di tutte le differenze, è fallita»
Ratzinger
Quei valori che prima erano condivisi e riconosciuti da tutti, oggi non lo sono più. E’ ciò che ho chiamato “crollo delle evidenze“.
Mi stupisce che alcuni grandi pensatori cristiani, sul finire degli anni quaranta e negli anni cinquanta del secolo scorso, avessereo già acutamente intuito quello che stava capitando.
A chi si riferisce? (18)
A Montini, de Lubac, Giussani, Guardini e von Balthasar.
«Conservavano spesso molti valori di origine cristiana, ma poiché avevano separato questi valori dalla loro sorgente, non sono stati in grado di mantenerli nella loro forza e nella loro originale integrità»
de Lubac in “Il dramma dell’umanesimo ateo”
Ragione, libertà, verità, fratellanza, giustizia ecc….
«Diventano forme vuote e ben presto si riducono ad un ideale senza vita»
de Lubac ibidem
Talmente senza vita che sembrano “irreali”: ciò che stiamo vivendo oggi.
E dunque, in questa situazione, di che cosa c’è bisogno? (19)
Che le forme vuote diventino di nuovo vita. Come è accaduto quando quell’infermiera ugandese ha cominciato a guardare le donne malate di aids con un interesse alla loro persona che ha fatto riscoprire loro che valevano, e che esse erano più grandi della loro vita.
L’incontro con lo sguardo di quell’infermiera aveva ridato carne a un valore (la vita) che era divenuto “irreale”.
Il cristianesimo può dare un contributo, ma solo se è testimoniato nella sua vera natura, se è vissuto nella sua essenzialità.
Dunque secondo lei la secolarizzazione può diventare un’occasione? (20)
Sì certamente.
Mi sta dicendo che non ha uno sguardo negativo sulla situazione che ci troviamo a vivere? (20)
E’ bene che in ogni caso si metta a nudo, come dice Guardini, la “slealtà” che si avuta tante volte nel considerare certi valori a una sorta di “evoluzione della natura umana”, e di progresso della storia tante delle cose che sono in realtà legate alla Rivelazione cristiana.
Stiamo aspettando che tale “slealtà” caratteristica dell’immagine dell’epoca moderna, si renda palese a tutti.
Non rischia così di essere una rivendicazione? (21)
Lo riconoscono perfino storici laici:
«Io non sono né credente né praticante, ma come storico e medievista devo essere consapevole [ …] del ruolo che ha giocato il cristianesimo come forza spitiuale e creatrice di valori nel determinare l’originalità dell’Europa»
J. Le Goff in “Perchè l’Europa“
Tanti pensano di conoscere il cristianesimo in base a un pregiudizio, ma poi quando si trovano davanti persone che, nella concretezza dei problemi e delle sfide, testimoniano il guadagno umano che viene dallo sguardo della fede, cominciano a nuovamente ad interessarsi al cristianesimo.
Il cristianesimo, in fondo, di comunica per “invidia”.
L’arcivesco Montini arriva a Milano a metà degli anni 50. Si rende conto che ci sono mondi impermeabili alla fede cristiana come la finanza, la moda, quello delle periferie. Non erano anticristiani, semplicemente la fede cristiana non interessava più. La secoralizzazione non viene dopo il Concilio, come sostengono tanti ideologi. Montini annotava che il cristiano non guarda al mondo come un abisso di perdizione, ma a un campo di messe. Ciò che cambia è lo sguardo positivo del cristiano. (22)
Montini si accorse precocemente dello svuotamento e degli smottamenti in corso, nella società e nel popolo cristiano. Fu molto significativo per noi l’atteggiamento che egli assunse di fronte alle difficoltà: uno sguardo pieno di compassione, di tenerezza e di simpatia.
Davanti alla secolarizzazione può sorgere un atteggiamento di intransigenza, uno sguardo assolutamento negativo, che vede il mondo come un “abisso di perdizione”, per usare le parole di Montni. Oppure si può vedere il mondo come un campo di messe, con lo sguardo testimoniato da Paolo VI e dal Concilio.
C’è una profonda analogia tra l’epoca dell’Impero romano e la nostra. Gesù venne e non trascorse i tre anni della sua vita pubblica a maledire la cattiveria dei tempi o a fare piagnistei.
«Egli tagliò corto. Oh, in un modo molto semplice. Facendo il cristianesimo».
C. Peguy “Lui è qui”
Abbiamo oggi la possibilità come cristiani di riscoprire e rivivere la modalità con cui Gsù ha guardato il mondo. Quante volte il Vangelo ci sorprende: «Vedendo le folle, ne sentì compassione perchè erano stanche e sfinite».
Il verbo greco parla di un amore viscerale per quanto riguarda la compassione di Gesù. (24)
Questo ci dice tutto del perchè il Mistero si sia fatto carne, sia diventato uomo. Dio si è incarnato perchè noi potessim perimentare, “vedere”, la sua Misericordia, il Suo amore infinito per noi, la Sua commozione davanti al nostro niente.
Perciò, vorrei dire, quello di cui hanno bisogno gli uomini e le donne del nostro tempo non è tanto la ripetizione verbale dell’annuncio cristiano, quanto piuttosto di ncontrare persone cambiate da Cristo, nelle quali quello sguardo sia carne.
Questo è anchelo sguardo che il cristiano si riscopre addosso, come un dono tanto desiderabile quanto imprevisto, in forza del quale egli può guardare qualsiasi circostanza, qualsiasi sbaglio, qualsiasi dolore, con speranza.
In effetti sant’Agostino diceva: “In manibus nostris sunt codices, in oculis nostris, facta”, cioè testimonianze reali e contemporanee. (26)
Quando insegnavo religione a scuola iniziavo a spiegare i Vangeli per parlare di Gesù, gli studenti mi dicevano: “Ciò che è descritto nel Vangelo è bellissimo, ma oggi non accade più”.
Questa è la grande sfida, che riguarda la natura stessa del cristianesimo.
Possiamo lamentarci della secolarizzazione, ma dovremmo anche domandarci che parte di responsabilità abbiamo in essa noi cristiani, per il modo con cui abbiamo vissuto e viviamo la nostra fede.
Incarnandosi, entrando nella storia come uomo, il Mistero ci ha conquistato suscitando in noi un’attrattiva senza paragoni.
Questa è l’unica modalità attraverso la quale il cristianesimo può suscitare interesse, intercettando i bisogni delle persone.
Lasciarsi ferire significa lasciarsi mettere in discussione, vuol dire che non sai tutto tu, che non hai pregiudicato tutto tu. Mi sembra che talvolta questo atteggiamento manchi anche in un certo mondo cristiano. (28)
E’ sopratutto questo atteggiamento che Gesù rimprovera nel Vangelo.
Egli non accetta di farsi intrappolare in un atteggiamento legalistico, si lascia colpire dalle ferite delle persone, testimonia un altro modo di concepire le cose: non l’uomo per il sabato, ma il sabato per l’uomo.
E’ la novità che Lui è venuto a portare.
Il Suo sguardo introduce una modalità nuova di rapporto all’uomo, alla sua fragilità e al suo bisogno:
«Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori».
Marco 2,17
Non è venuto per i sani, i giusti, coloro che sanno già; ma per malati, peccatori, coloro che soffrono la loro debolezza, la loro impotenza.
E’ cruciale per ciascuno di noi: il giorno in cui non ci rendessimo più conto della nostra infermità e della nostra miseria, non ci renderemmo nemmeno più conto della nostra miseria, non ci renderemmo nemmeno più conto della grazia di avere Qualcuno che possa guarire le nostre ferite.
Non avremmo più bisogno di Cristo.
E dunque questo lasciarsi ferire è prima di tutto una caratteristica di Gesù. Se un cristiano non si lascia ferire dalla realtà che incontra, è come se poi non potesse annunciare il Vangelo perchè si annuncia solo se uno partecipa della stessa umanità e della stessa ferita. (30)
Facciamo anzitutto attenzione alla nostra esperienza: noi siamo i primi ad aver avuto bisogno di qualcuno che si lasciasse colpire dalle nostre ferite.
E quanto più cediamo alla Sua presenza, al Suo perdono, tanto più siamo spinti ad abbracciare l’altro, a lasciarci colpire dalle sue ferite.
Consideriamo la samaritana e Zaccheo. Noi vediamo solo i 5 mariti e i soldi di Zaccheo. Gesù, per tutto il mistero che Lui è, vede la sete di infinito di entrambi seppellita sotto un cumulo di sbagli.
Anche noi in tutto quello che facciamo, inclusi tanti nostri sbagli, sono un tentativo di rispondere alla sete che ci costituisce: cerchiamo la risposta in ciò che non ce la può dare.
Gesù introduce uno sguardo diverso sull’uomo, rivela l’uomo come strutturale rapporto con qualcosa d’Altro, mostra che quella sete è la stoffa autentica dell’io, Gesù accetta la riduzione moralistica dell’uomo alle sue prestazioni e alla sua coerenza.
Ma la coerenza è una grazia: vine dall’incontro con Colui che mi comie, che è più di me stesso, e senza il quale io non sarei me stesso.
E’ soltanto questo che ci libera dal male? (33)
L’incontro con Colui che ci compie è l’unica possibilità di essere liberati fino in fondo, alla radice, da quel possesso di persone e cose che ci caratterizza.
“Guardate che il pane che ieri vi ha saziato non basta a soddisfare la vostra fame e la vostra sete. Io sono il pane della vita; che viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete. La vostra vita non può essere riempita da nient’altro”
Giovanni 6,35
Gesù non è solo una risposta al limite, agli sbagli umani, è anche una risposta alla sete di pienezza che è la stoffa dell’io, cioè al desiderio di felicità.
Se non si risponde a questo desiderio, non si può venire a capo del problema umano, non si può affrontare la questione del male.
Per questo è impressionante lo sguardo di Gesù sull’uomo.
” A che cosa ti serve guadagnare il mondo intero, se poi perdi te stesso? A che cosa serve all’uomo ottenere tutto quello che vuole, se poi perde sè stesso, cioè se quello che ottiene non è in grado di riempire la sua vita e non trova qualcosa che veramente lo soddisfi?”
Marco 8,36
Occorre che la Sua presenza mi raggiunga ora, nell’esperienza di un incontro reale e concreto.
L’unica possibilità di essere liberi dalla tirannia di possessi e progetti, e quindi del male, è infatti quella di fare esperienza talmente potente del vivere, di sperimentare una pienezza talmente grande, da non aver più bisogno di accapparrarsi quante più cose possibili o di legare a sé le persone per sentirsi vivi.
Nel dialogo con la samaritana c’è una preziosa indicazione di metodo su come si entra in contatto con le persone. La prima parola di Gesù alla samaritana non è un giudizio, ma una domanda. (35)
Strada facendo nella sua crescita un bambino compirà tanti errori, ma lo sguardo della madre rimarrà sempre quello iniziale.
Ecco, allo stesso modo Gesù guarda l’uomo: non secondo una riduzione al suo limite, ma secondo il vortice di desiderio che grida dentro il suo limite.
Perchè egli ci ha fatti per compiere quel desiderio. Ci ha fatti per un’esplosione di quell’amore che vive nel seno della Trinità, ha voluto condividere il proprio essere, la propria pienezza, con qualcuno.
“Ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te”
S. Agostino in “Le Confessioni”
L’uomo è definito da questo desiderio incìscritto nel suo cuore.
Quello in cui ci imbattiamo ha la natura di un segno, tutto porta scritto più in là.
La realtà appapre come promemoriadi un’altra realtà, di un volto verso il quale siamo condotti..
Se l’uomo non trova questo “volto” la sua vita si svuota, si appiattisce, o sprofonda in una irrequietezza disperata, che puà sfociare anche in violenza.
In una soscietà come la nostra, così spappolata, che cosa può nuovmente attrarre il cuore dell’uomo?
Il cuore dell’uomo può essere attrattao soltanto dall’incontro con persone che, per grazia, sperimentano una pienezza del vivere e rendono possibile toccarla con mano, per il modo con cui stanno nel reale, affrontano le circostanze, vivono i rapporti con una libertà prima sconosciuta.
Questa è la forza del cristianesimo: in esso contenuto e metodo coincidono.
Sopratutto oggi, in un contesto in cui il valore più caro è la libertà, solo una attrattiva può smuovere.
Gesù si è rivolto alla libertà dell’uomo, attirandola, e al suo desiderio, corrispondendovi.
Il cristianesimo non ha m ai avuto il pproblema di vivere in una società multiculturale, anzi ci va a nozze: in essa può emergere tutta la diversità e l’originalità della proposta cristiana, senza impostazioni verso nessuno.
Non c’è altra possibilità di comunicare la verità se non attraverso la libertà
Perchè il cristianesimo può interessare solo per l’attrattiva che suscita e nient’altro.
Gesù era ricercato da persone che non si sentivano a posto e spesso “borderline“, mentre era odiato da chi si considerava giusto. (38)
E’ proprio così. La questione è cogliere all’interno di una esperienza, lo sguardo che Gesù aveva sugli uomini.
Queste persone in travaglio, malgrado Gesù avesse detto che non voleva cambiare una virgola della legge mosaica, vedevano però che Lui aveva un altro sguardo sul loro bisogno e sulla loro debolezza, uno sguardo che accoglie, perdona e rigenera, consentendo all’uomo di fare un cammino per raggiungere l’ideale.
Seguendo l’attrattiva della sua persona, e per l’esperienza di pienezza che provavano si sono accorti di quanto il rapporto con Gesù fosse indispensabile per non soccombere al male.
(Episodio della donna che lava i piedi di Gesù in casa del fariseo – Luca 7,38-50) Lo sguardo di Gesù per quella donna in particolare, Lui legge nel suo cuore: c’è prima l’abbraccio di amore, c’è un Dio che innanzitutto ti vuole bene.
Il problema di quella donna era guardarla con quell’amore: solo così può nascere un cambiamento.
Ciò che sconfigge il male è questo amore, senza il quale tutti i tentativi saranno sempre fallimentari.
Chi è in grado di destare nell’uomo questo amore? L’unico ad avere quello sguardo veramente realistico sull’uomo che si chiama misericordia, un perdono senza limiti è Gesù che è misericordia e che investe e penetra la storia attraverso strumenti e persone cambiate dal suo amore.
2 – Il macigno del male e la misericordia
Quando la legge naturale non è più evidente (43)
Don Julian, perché è così difficile credere oggi?
Per una distanza da noi stessi. A chi interessa Gesù? A chi ne ha bisogno. E chi ne ha bisogno? Chi è cosiente delle proprie ferite, delle proprie malattie, del proprio male, della propria insoddisfazione, del proprio peccato.
Occorre andare fino in fondo a sé stessi
Tutte le persone che attraversano difficoltà, fatiche, contraddizioni – borderline, irregolari – e che vivono drammi di ogni tipo hanno bisogno di essere guardate come Gesù guardava, accoglieva e amava la gente.
Ma, attenzione, la loro risposta accade secondo un disegno che non è nostro: non è l’esito di un meccanismo o di una strategia di marketing.
Noi come cristiani abbiamo un compito: testimoniare che alle ferite e alle esigenze degli uomini, in qualunque condizione versino, c’è risposta.
A volte ci si convince di dover dimenticare l’incompiutezza del proprio desiderio e la ferita che essa comporta per poter sopravvivere…..(44)
Ecco questa è esattamente l’alternativa alla proposta cristiana.
Tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio
Leopardi – Pensieri
A motivo di ciò prima di Cristo gli uomini hanno tentato di ridurre il desiderio: desiderare era pericoloso.
Nel mondo greco la regola era pertanto quella di attenuare il desiderio: oggi si è tornati a temere il desiderio e a ridurlo (nel consumismo per esempio).
Duemila anni dopo ritorniamo al mondo classico.
Lontano dalla Presenza che prende sul serio tutto il suo desiderio, l’uomo non è in grado di guardare a se stesso e alla vita nella sua interezza. Si deve accontentare, riconoscendo di non essere equipaggiato per far fronte da solo alle grandi questioni.
La parabola del Figliol prodigo è parradigmatica. Ha una vita agiata, di successo si direbbe oggi, ma sente vibrare nel suo cuore l’urgenza di qualcosa di pi ù e ha cercato di immaginare che cosa avrebbe potuto rispondervi.
Alla fine delle sue disavventure torna a casa perchè scopre che l’unico “luogo” dove si può veramente salvare, dove può compiersi, è un “rapporto”: “Andrò da mio padre ….”
Gesù ci spiega che cosa salva il nostro desiderio, liberandolo dalle immagini in cui lo costringiamo: il rapporto con colui che ci ha fatti.
Al di fuori di esso la noia è il riconoscimento dell’insufficienza del tutto.
Un modo per anestetizzare il desiderio è di considerarlo soltanto una esperienza adolescenziale. (47)
Ma quando ci accorgiamo che le cose su cui abbiamo investito deludono, il desiderio riemerge. Non è in nostro potere impedirlo.
Quali sono le ragioni per le quli dovremmo credere all’esistenza di un Essere superiore che ci ha creati, ci ha voluti e che continua a volerci bene? (47)
E’ una domanda impegnativa.
Quando la vita urge, quando è provocata da un fatto, una situazione, da una incompiutezza, da un fallimento, certe domande esplodono e bruciano: «Perchè la sofferenza, il dolore, la morte?» – «Che senso ha la vita?».
Il problema religioso coincide con queste domande.
Pensavamo di poter vivere senza porci certe domande, di poterle censurare, ma la realtà delle nostre esigenze costitutive erompe quando meno ce lo aspettiamo dal di dentro dell’esperienza.
Quale è i punto di partenza? E’ il reale che bussa alla porta della nostra esperienza e fa emergere tutta la nostra esigenza di significato.
E’ infatti la realtà che ci pone la questione.
Come trovarsi di fronte a un mazzo di rose inaspettato sul tavolo della cucina. La prima domanda è: “Chi l’ha portato?”: la realtà come segno che rimanda ad altro.
La presenza delle cose, una presenza che non fccio io, che trovo che mi si impone. Sarebbe facile riconoscerlo se non fossimo presa dell’ovvietà.: il meglio dei fiori non sono i fiori con i loro colori ma il rimando a chi glieli ha donati.
Che cosa può rendere l’uomo capace di riconoscere un Essere superiore? La provocazione che li reale rappresenta per la sua ragione, per la sua libertà.
Sia l’uomo comune, sia lo scienziato, nella misura in cui si aprono a essa, non possono accontentarsi di spiegazioni parziali, che non soddisfano l’esigenza di totalità della ragione.
Einstein in una lettera a Solovine: «Anche se gli assiomi della teroia sono imposti dall’uomo, il successo di una tale costruzione presuppone un alto grado d’ordine nel mondo oggettivo, e cioè un qualcosa che a priori non si è per nulla autorizzati ad attendersi….il fatto curioso è che noi dobbiamo accontentarci di riconoscere il “miracolo”, senza che ci sia una via legittima per andare oltre». (51)
E il miracolo più grande è l’esistenza dell’io. il cosmo giunge a un punto dell’evoluzione in cui prende coscienza di sé: l’io è l’autocoscienza del cosmo.
Un importante scienziato ateo mi ha detto:«Con la mia ragione scientifica c’è qualcosa che non posso spiegare: l’io dei miei figli», un io non rronducibile agli antecedenti biologici e storici.
L’intuizione dell’esistenza di Dio è l’implicazione ultima a cui rimanda l’esistenza dell’io. Ma accettarla è una decisione della libertà e comporta sempre, quindi, l’esperienza del rischio.
Accettare l’implicazione ultima dell’io – ammettere che sio sono “tu chem i fai”, diceva don Giussani con riferimento a Dio, al Mistero che fa tutte le cose – è forse la decisione più vertiginosa della libertà e richiede di usare la ragione in tutta la sua ampiezza.
Qualcosa di analogo accade di fronte all’amore: noi non “vediamo” l’amore, ne scorgiamo i segni. La sua presenza è troppo evidente per essere negata: ci si impone attraverso dei segni. Pensiamo per esempio all’more dinostra madre.
Forse una delle maggiori difficoltà oggi, più ancora che credere in Dio, in un Essere superiore, è quella riguardante l’esistenza del male, del dolore. E in modo particolare del dolore innnocente. (53)
Per questo si è cercato di spiegare il grande problema del male con il dualismo dei principi originari: uno buono e uno cattivo, che si riverberano in una creazione buona e una cattiva.
il popolo di Israele ha sfidato questa concezione segnando un punto di assoluta discontinuità.
«E Dio vide che [ …. ] era cosa buona [ …] era cosa molto buona»
Genesi 1,4,10,12,18,21,
Se il dualismo metafisico, l’affermazione dei due principi del bene e del male, non ha prevalso, è per l’esperienza che il popolo di Israele ha fatto di Dio.
La realtà è positiva, e il male è una mancanza di benem di un allontanarsi dal bene, è una conseguenza della libertà dell’uomo, che ha coluto trovare la sua pienezza al di fuori del rapporto con Dio.
Giobbe ha potuto stare davanti alle domande sul dolore innocente dal di dentro di questo rapporto con Dio che salva.
Che cosa significa questo? Potrebbe fare un esempio? (54)
Se un estraneo ti da una sberla reagisci, se te la dà la tua mamma ti chiedi il perchè.
Perchè? la ragione è ovvia: il rapporto che tu hai da anni con tua madre.
Avere alle spalle una storia di rapporto con Dio ci consente di guardare tutto, perfino il male, con la Sua presenza negli occhi, senza fuggire e senza soccombere alla recriminazione.
Se tale legame diventa costitutivo del nostro modo di affrontare tutto, possiamo stare anche davanti al male senza disperare.
Come ci documenta il popolo di Istraele che loda Dio durante il periodo dell’esilio.
Chi ha familiarità con Dio gli può rivolgere le domande più scioccanti, come fa Giobbe, senza che prevalga un sospetto su Dio.
In Gesù il male non è riuscito a spezzare il legame con il Padre: è significativo che il dialogo nell’orto degli ulivi non sia stato una lamentela su Pilato, Erode, il Sinedrio, il sommo sacerdote e i farisei.
Proprio lì, in quel momento, Gesù rivela la vera ragioe della sua consegna: «Bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre».
La vittoria di Cristo, la Sua resurrezione, è l’unica risposta adeguata al male, alla sofferenza, alla morte.
Tutto l problema della vita è come permanere nella certezza di questo rapporto. In ultima istanza, infatti,c iò che è messo alla prova nelle malattie, nelle disgrazie, nelle situazioni che ci sovrastano e ci inquietano, è proprio tale certezza.
Di fronte alla sofferenza l’unica cosa umana che puoi fare non è parlare, ma è abbracciare e sentirti abbracciato che è in fondo quello che ha fatto Dio: la risposta che ha dato Dio alla sofferenza umana è che Cristo l’ha condivisa, non l’ha eliminata. (59)
Questo è cruciale. Ricordo per esempio quante sofferenze abbiamo avuto nella Chiesa per la questione della pedofilia. E’ come se ai nostri occhi qualsiasi risposta fosse assolutamente insufficiente…..
Il tema del male richiama il tema della giustizia. Quale giustizia è possibile di fronte al male? (59)
Niente sembra bastare alle vittime di fronte al male subito, neanche una condanna.
Non c’è risposta all’abisso della sofferenza patita e non c’è risposta nemmeno all’esigenza di giustizia che suscita.
Alle vittime tutto sembra poco, insufficiente a riparare il male subìto,. chi, che cosa renderà loro giustizia?
Qual’è il rapporto tra misericordia e giustizia? (60)
L’esigenza di giustizia non può essere soddisfatta da risposte parziali, essa reclama la totalità.
Perciò senza la prospettiva di un “oltre” non ci può essere giustizia.
Se insomma il carnefice e la vittima finiscono entrambi nel nulla, se tutto finisce con questa vita, non c’è giustizia.
L’esigenza di giustizia, come tutte le esigenze umane fondamentali, è senza limiti, porta in sè un’urgenza di totalità.
Nessuna delle nostre immagini di giustizia riesce a compiere fino in fondo l’esigenza di giustizia.
Che cosa può allora soddisfare questa sete di giustizia? (61)
Solo Dio fatto uomo, Cristo – quell'”oltre” che è entrato nella storia -, con la sua misericordia, croce e resurrezione, può soddisfare la sete di giustizia.
Ecco qui il nesso tra misericordia e giustizia: senza Cristo il problema è insolubile.
Niente può soddisfare la sete di giustizia che ci troviamo addosso. Si manifesta qui tutto il mistero dell’uomo.
Serve alle vittime e ai carnefici l’imporsi della presenza di Cristo, lo sguardo carnale di Cristo storico attraverso delle persone. E’ questo che alla fine vince il male.
Un carcerato: «Non è che io mi rallegri del male che ho fatto commettendo un delitto, ma sono grato perchè attraverso questo mio male ho potuto conoscere Cristo»
un carcerato
«Per anni, quando mi svegliavo al mattino, mi venivano sempre in mente tutte le scene di orrore che avevo visto e che mi portavo negli occhi. Ma da quando vi ho conosciuti, quello che mi si impone al risveglio sono i vostri volti lieti»
Donna ferita in un attentato
Così si recuperano le persone e si reinseriscono nella società.
Abbiamo la risposta fondamentale, che non è una spiegazione teorica, ma una compagnia, una presenza, la presenza di Cristo.
La risposta unica che è la presenza di Cristo che ci abbraccia,c he riempie la vita di speranza.
La vittoria sul male non comincia dopo la morte, comincia qui, su questa terra, quando uno vive l’esperienza cristiana
Come Massimiliano Kolbe, che ha posto gesti di speranza e di rinascita, offrendo la vita al posto di un padre di famiglia che stava per essere ucciso per rappresaglia (63)
Che cosa ha reso possibile quel gesto?
La fede di Kolbe, il riconoscimento di una Presenza che riempiva talmente la sua vita da far germogliare in essa il fiore di una inconcepibile gratuità.
Questa è la testimonianza di Cristo nella storia
Raramente si prende in considerazione il fatto che l’uomo è incapace di vivere all’altezza di se stesso se non è guardato con misericordia, se non incontra un abbraccio reale alla sua vita.
Senza quello sguardo non c’è salvezza dal male, ma neanche vera capacità di non commetterlo? E come la mettiamo con le cosidette evidenze, con la legge naturale inscritta nei nostri cuori? (64)
«I precetti della legge naturale non sono percepiti da tutti con chiarezza ed immediatezza. Nell’attuale situazione, la grazia e la Rivelazione sono necessari all’uomo peccatore perchè le verità religiose e morali possano essere riconosciute da tutti e senza difficoltà, con ferma certezza e senza alcuna mescolanza di errori»
Catechismo della Chiesa Cattolica – n° 1960
Quindi ancor più nell’attuale situazione, la grazia e la Rivelazione sono necessarie all’uomo: solo con esse le verità religiose e morali possono essere riconosciute da tutti in maniera compiuta.
Il cristianesimo non è un nuovo moralismo, ma è l’introdursi di un fatore n el reale, che rende possibile un significato nuovo per la vita di tutti, per affrontare il male e la sofferenza; un fattore che è la risposta al bisogno del cuore, all’esigenza di significato, di affezione: i valori, le cosidette evidenze, sono legate ao fatto di Cristo.
Solo facendo di nuovo esperienza dell’inizio, allora, quelle “grandi cose” possono tornare a essere reali.
Benedetto XVI Fatima 13 maggio 2010: “Quando nel sentire di molti la fede cattolica non è più patrimonio comune della società e, spesso, si vede come un patrimonio insidiato e offuscato da “divinità” e signori di questo m ondo, molto difficilmente essa potrà toccare i cuori mediante semplici discorsi o richiami morali e meno ancora attraverso generici richiami ai valori cristiani. Il riciamo coraggioso e integrale ai principi è essenziale; tuttavia il semplice enunciato del messaggio non arriva fino in fondo al cuore della persona, non tocca la sua libertà, non cambia la vita. Ciò che affascina è sopratutto l’incontro con persone credenti che, mediante la loro fede, attirano verso la grazia di Cristo, rendendo testimonianza di Lui”.(67)
Noi cristiani sembriamo spesso aver perso la consapevolezza del “valore conoscitivo” dell’incontro cristiano, cioè del fatto che solo in forza di ciò che abbiamo incontrato possiamo guardare la vita, la famiglia, il rapporto con gli altri, il dolore, nel senso indicato dai “valori”, dalle “leggi naturali”.
Se noi non partiamo da lì, dall’esperienza dell’incontro, gli altri non potranno capire quello che facciamo: per capire occorre fare esperienza.
Solo perchè ha incontrato Cristo, san Paolo ha potuto capire quello che prima non capiva, anche se aveva davanti a sé tutto gli elementi.
Se allora non partiamo da ciò che ci è capitato, dall’incontro che per grazia abbiamo fatto, cadiamo noi stessi nel rischio dell’illuminismo.
Il problema è che spesso noi cristiani abbiamo finito per accettare questo pensiero illumminista, come se le evidenze fondamentali potessero essere affermate e tenute vive con la sola forza della ragione, anche al di fuori del rapporto con il fatto storico che le ha fatte compiutamente emergere nella realtà.
Si ha talvolta l’impressione che anche nella Chiesa non ci sia la reale percezione di quanto distanti risuonino certi discorsi autoreferenziali o certe dispute interne rispetto al deserto che si trova fuori dalle aule dove si discetta di teologia. (68)
«Un crisi ci costringe a tornare alle domande; esige da noi risposte nuove o vecchie, purché sscaturite da un esame diretto»
Hanna Arendt, Tra passato e futuro
In questa situazione di deserto da dove si riparte?
Per salvare l’uomo, per farsi conoscere da lui e fargli comprendere la Sua novità, ha mandato Suo Figlio, è diventato un avvenimento nella storia.
Una enunciazione o un richiamo etico soltanto non sarebbero bastati perché l’uomo capisse.
Solo attraverso l’intima connessione di parole e di gesti si può raggiungere la persona, qualsiasi sia la situazione in cui si trova.
Gesù ha posto sé stesso, la Sua presenza, il Suo modo di agire, il Suo modo di guardare, di abbracciare di accogliere.
Questo ha destato interesse per Lui.
«Il mondo di oggi è riportato a livello della miseria evangelica; al tempo di Gesù il problema era come fare a vivere e non chi avesse ragione; questo era il problema degli scribi e dei farisei»
Don Giussani
Ecco, “come si fa a vivere?” è la domanda che pervade il nostro tempo
Partire dalle condanne o partire dalla dottrina, è come se non si facesse più breccia nel cuore degli uomini e delle donne del nostro tempo. Anzi rischia di allontanarli sempre di più. Per questo, credo, gli ultimi papi hanno insistito così tanto sulla misericordia. E’ il modo di evangelizzare oggi: mostrare il volto di un Dio che prima di giudicarti ti abbraccia, ti accoglie, ti dice che ti vuole bene. (71)
Se il cristianesimo non è la testimonianza di una pienezza possibile e di uno sguardo alla vita che rilancia, a che cosa serve? A chi può interessare oggi? A nessuno.
Le etichette non servono a nulla, la vera questione che rimane è: c’è qualcosa nel reale che possa costituire una risposta adeguata al problema del vivere?
E’ come se la misericordia fosse la risposta a questa domanda: “Che cosa può veramente toccare il cuore dell’uomo?” (72)
Che cosa fa Gesù? Comincia ad attrarre coloro che erano, paradossalmente, i più lontani, piegandosi sulle loro ferite.
Loro possono cambiare vita proprio perché Lui li attira a sé, proprio perché loro sono attratti da Lui, proprio perché sperimentano una misericordia assolutamente unica, inaspettata, sovrabbondante. E’ la misericordia che introduce la prospettiva del cambiamento della loro vita.
Gesù comincia dunque facendo gesti che sconvolgono la mentalità comune.
Egli non scandalizza però soltanto per una familiarità con gli ultimi, scandalizza anche perché stravolge una mentalità religiosa radicata.
HA mandato in frantumi gli schemi, le tradizioni religiose, le prescrizioni. (73)
Lui allora, unendo gesti e parole, spiega il suo atteggiamento con le parabole della misericordia: la moneta perduta, la pecora smarrita e il figliol prodigo.
Il paragone tra i due figli era attuale all’epoca e serve ancora oggi: il primo peccatore che torna ed è abbracciato, il secondo, simbolo dei farisei, che invece si scandalizza della misericordia.
Anche a noi la parabola del figliol prodigo ci sembra ingiusta. (74)
Sì, “misericordia” è la parola che ai farisei sembra ingiusta. Gesù presenta un’altra parabola, anch’essa difficile da accettare per lo stesso motivo, quella degli operai della undicesima ora.
I primi sono quelli che hanno cominciato subito a rispondere alla chiamata di Dio. Gli ultimi sono invece coloro che se ne sono disinteressati per tanto tempo solo quando è arrivato Gesù si sono sentiti toccati.
Chiunque si imbatta in un simile sguardo, in una proposta come la sua, per quanto lontano o smarrito, non può non sentire che si apre per lui uno spiraglio che prima era chiuso.
Ciò significa tornare all’origine, alla natura originale del cristianesimo, a come Gesù ha cominciato a farsi capire roprio da coloro che erano apparentemente i più lontani.
Papa Francesco potrebbe essere definito il “papa della misericordia”. E’ d’accordo con questa affermazione? (75)
Penso che il papa passerà alla storia proprio per questo suo atteggiamento.
Egli ha uno sguardo talmente irresistibile da far sentire attratte anche le persone più lontane.
Francesco ha voluto un giubileo straordinario della misericordia per dire: “Guardate che le porte sono aperte ancora per tutti, qualsiasi sia la situazione che state vivendo”.
A me ha stupito molto che dopo l’attentato alle Torri Gemelle Papa Giovanni Paolo II insisteva sul perdono come elemento fondamentale per la vera giustizia. (77)
Questo già avviene nella nostra esperienza per esempio con l’associazione APAC in brasile che ha fondato carceri senza sbarre e senza vigilanti. (a pag. 77 un racconto)
Il tema della giustizia impone interrogativi potenti. e come vediamo già in essere, quando si va al fondo dell’esigenza di giustizia, si inizia a comprendere l’importanza della misericordia, in mancanza della quale tutti i nostri tentativi risultano essere fallimentari.
Dunque, secondo lei non c’è il rischio, oggi, che la misericordia venga scambiata per buonismo? Alcuni dicono del magistero del papa. (78)
Gesù di è fermato sotto l’albero su cui Zaccheo, il pubblicano, era salito, lo ha guardato e lo ha stimato come mai nessuno aveva fatto, è entrato in casa sua disarmato, senza avergli sbattuto prima in faccia tutti i suoi errori, senza avergli chiesto prima di cambiare.
Questo gesto di misericordia ha cambiato la vita di Zaccheo.
Né l’eventuale nitidezza del giudizio sul male che aveva commesso, né il richiamo o la riprovazione di coloro che lo circondavano, dei farisei innanzitutto, erano serviti a fargli modificare la rotta.
Al gesto inaudito di Gesù, che va a casa del pubblicano Zaccheo, le persone reagiscono.
Lo odiavano tutti, era la persona più odiata in tutta la città di Gerico. (79)
Zaccheo era circondato dal giudizio sul suo peccato, che gli veniva da ogni parte ricordato.
Ma quel giudizio non lo aveva fatto cambiare. Solo lo sguardo di Gesù, il gesto di andare a mangiare a casa sua, è stato in grado di farlo.
Allora chiediamoci: Quello sguardo è buonismo o è la radice della possibilità del cambiamento?
Non c’è sfida più grande al cuore dell’uomo che l’essere amati gratuitamente, immeritatamente.
Quando diciamo che la misericordia è buonismo, è perché ci dimentichiamo dell’esperienza nostra e altrui, dell anovità della vita che fiorisce in un io toccato dalla misericordia.
Dentro l’anima degli altri non possiamo guardare ma nella nostra sì. Se abbiamo il coraggio di sporgerci nell’abisso del nostro io, l’unica anima che possiamo vedere è la nostra. Noi invece siamo sempre abituati a giudicare gli altri. (80)
Che cosa ha fatto saltare per aria la misura con cui san Paolo guardava sé e gli altri? un fatto, l’incontro con Cristo.
«Fu guardato e allora vide»
Sant’Agostino di Zaccheo – discorso
Cominciò a vedere la realtà secondo tutte le dimensioni, a vedere se stesso e ciò che veramente desiderava per sé; cominciò a vedere anche quello che aveva fatto.
Se uno non si sente guardato, amato gratuitamente, accolto, difficilmente potrà riconoscere con verità il male compiuto.
Avendo ricevuto la grazia di uno sguardo finalmente umano, quel carcerato sa qual’è la chiave perchè l’uomo possa cambiare e può guardare con misericordia e amore la guardia che l’ha trattato ingiustamente.
3 – Un esegeta tra i ciliegi dell’Estremadura
Dalla parrocchia allo studio sull’aramaico dei Vangeli (83)
Don Julian, lei non ha mai avuto dubbi di fede? (83)
Tante domande sì. Dubbi tali da mettere in discussione il dono della fede che ho ricevuto, sinceramente no.
Ho avuto la grazia di sperimentare una familiarità con Cristo.
I dubbi si sono sempre collocati in questo contesto.
Intende un contesto di familiarità con Cristo? (83)
Sì una familiarità con Cristo, che mi trovavo addosso e che non è mai venuta meno.
Poi, ero già prete da 10 anni ed è subentrato un altro fattore: l’incontro con don Giussani che mi ha educato a dare uno spessore umano maggiore a tutto questo.
Se esisti è perché un altro ti sta facendo adesso, ti sta donando la vita, l’essere, ora.
Nel battesimo Cristo ti ha detto: “Tu sei mio, io ti voglio bene, e tutto quanto farai non potrà mai spostarmi neanche un millimetro da questo amore per te”.
Il battesimo imprime un “carattere” che segna per sempre la vita della persona.
Si può capire benissimo quello che dice la Chiesa: è come, per la mamma, il bambino che ne combina di tutti i colori: rimarrà sempre figlio.
Se noi che siamo cattivi, dice Gesù, possiamo comportarci così con i figli, tanto più Lui che è figlio di Dio.
E’ un esempio che ha citato anche papa Francesco nel dialogo sulla misericordia: Dio rimane fedele perché non può non rimanere fedele. (85)
E allora ogni dubbio, ogni difficoltà, ogni crisi diventa l’occasione per arrivare a una certezza più grande.
Gesù dopo aver parlato di mangiare la sua carne si ritrova solo con i discepoli.
Gli altri potevano andare via, ma i discepoli no, erano pieni di ragioni per rimanere anche se non capivano.
Il momento di difficoltà diventava così una occasione per acquistare una certezza maggiore.
Di fronte ai dubbi e alle crisi bisogna reperire nella propria esperienza la ragione adeguata per mantenersi nella fede.
Ragioni non astratte, ma quelle che emergono dai fatti che portano a credere, come i gesti quotidiani che rendono certi dell’amore della propria mamma.
Posso chiederle com’è il suo raporto con la morte? Le fa paura? (87)
Io ho visto Cristo vivo. Non posso pensare chela morte sia la fine, non posso gurdarla senza avere negli occhi la mia esperienza di fede.
Può raccontare brevemente in quale contesto familiare è nato e quali sono i ricordi della sua prima infanzia. (88)
Sono nato a Navaconcejo, in una bellissima valle dell’Estremadura, in Spagna. Mio papà era contadino e vivevamo nel clima di religiosità che era normale negli anni 50.
Ho fatto il chierichetto e la mia religiosità ha cominciato a emergere senza che io facessi niente di particolare.
E’ da questo clima falmiliare che è sgorgata la mia vocazione.
Inizialmente mi ero rivolto al seminario della mia zona, quello di Plasencia.
Avevo 10 anni. Un giorno d’estate mio padre, mentre lo aiutavo a raccogliere le patate, mi chiese: “Ma tu vuoi ancora andare in Seminario?” Risposi si.
Allora i miei nonni che abitavano vicio al seminario di Madrid chiesere se potevo fare qualche giorno di convivenza. Mi hanno accettato e così mi sono trasferito a Madrid, dove sono diventato prete.
Quali figure di scerdoti e maestri sono sttate importanti per la tua formazione? (90)
Quelli che hanno segnato di più la mia vita sono stati don Francisco José Pérez y Fernandez-Golfin e don Luigi Giussani.
Don Francisco era il direttore spirituale e averlo avuto vicino nel momento del passaggio alla maturità fu decisivo .
L’epoca post conciliare aveva generato qualche confusione e molti seminari si erano svuotati.
Che cosa si ricorda di don Francisco? (90)
La sua profonda religiosità. era un uomo affascinato da Cristo. Io gli sono debitore di aver incrementato in me la passione per Cristo; e inoltre di aver favorito una amicizia tra compagni.
Ci diceva: “Cominciate a diventare amimci durante lo studio della teologia, così potrete accompagnarvi anche quando diventerete preti”. Così è stato.
Negli anni abbiamo mantenuto un appuntamento settimanale per vederci, leggere e commentare qualcosa insieme.
Fino a quando ho incontrato don Giussani: p er me è stato sconvolgente, p erchè ho trovato in lui le risposte a certe sfide che stavo vivendo, a certe difficoltà,che con la mia educazione precedente non ero stato in grado di affrontare.
Come si chiamava il paese dov’era stato m andato dopo l’ordinazione? (91)
Casarrubuelos un villaggio di 600 abitanti dove sono rimasto tre anni bellissimi.
Ma allo stesso tempo, percepivo tutto lo sconvolgimento che mi provocavano certe situazioni sociali, culturali per le quali non ero attrezzato. E questo mi metteva in soggezione.
Quando ho incontrato don Giussani ho trovato un m etodo che mi permetteva di affrontare a viso aperto ogni situazione, poiché mi invitava a paragonare ogni cosa che accadeva, gni cosa che provavo, con le esigenze del mio cuore.
Avevo ricevuto tutto ma mi mancava la verifica nell’esperienza di quanto appreso in seminario.
Il cammino della verifica ha generato in me una certezza della fede pienamente consapevole delle sue ragioni.
Iniziai a fare il professore di religione nel mio seminario, su invito del vescovo.
Dopo aver conseguito il dottorato in studi biblici, avevo le conoscenze necessarie per poter parlare di Gesù e dei Vangeli, ma era come se tutto quello che sapevo non riuscisse a far breccia, a incidere sulla mentalità dei miei studenti.
Dopo l’incontro con don Giussani le cose sono radicalmente cambiate: ho cominciato a sfidarli, perchè avevo imparto a giudicare tutto a partire dall’esperienza. e questo ha generato in loro una partecipazione del tutto diversa durante le ore di lezione.
Può raccontare come ha incontrato don Giussani? (92)
Tutto nasce da quel gruppo di seminaristi che si trovavano ogni tanto che intanto aveva creato un piccolo movimento.
Uno di noi era andato in Germania e là aveva conosciuto CL e ci aveva portato il libretto “Da che cosa nasce Comunione e Liberazione”.
Andai ad ascoltarlo nel 1980. l’ho incontrato una seconda volta nel 1984.
Nel 1985 lo invitammo a un corso estivo ad Avila.
Don Giussani colpì molto i giovani che partecipavano al nostro gruppo che nel frattempo si era dato un nome: Nueva Tierra.
Nel settembre del 1985, visto il comune riconoscimento, Nueva Tierra confluì in CL.
Da quel momento don Giussani diventò l’altro prete fondamentale per la mia vita. questo incontro ha determinato il mio cammino più di qualsiasi altra cosa.
C’è infine una terza figura di sacerdote che vorrei citare: don Mariano Herranz, mio professore di sacra scrittura, che ha risvegliato in me un grande interesse sulla lingua dei Vangeli.
Che ricerca ha condotto insieme al gruppo accademico conosciuto come la Scuola esegetica di Madrid? (94)
In quel momento veniva introdotto una specie di sospetto su tutto quello che era arrivato fino al presente ed era considerato come acquisito.
Invece noi affrontammo quegli argomenti applicando il metodo storico-critico, paradossalmente, arrivavamo ad una certezza più grande della fede.
Dicevo sempre ai miei studenti quando insegnavo Sacra Scrittura: “Il problema della critica è che è stata troppo poco critica”, perchè erano stati assunti dei presupposti che non erano stati provati, verificati nella loro ragionevolezza.
Sta dicendo chela critica storica era diventata critica su tutto tranne che sui suoi presupposti diventati quasi dogmatici? (95)
Sì potremmo dire così, semplificando. Perchè la critica deve essere veramente “critica”. Noi, infatti, grazie agli studi sulla lingua evangelica, ci siamo trovati di fronte a ragioni ancora più profonde e a certezze ancora più solide circa i fondamenti storici della nostra fede.
i Vangeli non sono un racconto campato in aria, un’invenzione senza fondamento nella realtà.
I nostri studi contribuiscono a mostrare l’irriducibiità del fatto cristiano. Un’irriducibilità che permaneva quanto più critica era critica.
Le indagine prendevano le mosse dal greco del Nuovo Testamento e si appuntavano sull’influsso che la lingua aramaico-palestinese, parlata in Palestina al tempo di Gesù, aveva avuto su di esso .
Alcuni di questi testi greci erano stati per così dire contagiati da un influsso dell’aramaico.
Gesù si esprimeva in aramaico, la lingua comune della sua gente, ma ad un certo punto le sue parole furono riportate in greco.
Ora se presupponinamo l’esistenza di parole aramaiche con i relativi usi grammaticali e sintattici, si spiegano certe incongruenze e certe difficoltà presenti nel testo evangelico in greco.
Ma la vostra tesi è che ci fosse un contesto di lingua parlata aramaica o che ci fossero dei veri e propri testi di riferimento scritti in aramaico che poi sono stati tradotti? (97)
La difficoltà fondamentale è che testi scritti in aramaico non ne abbiamo trovati, e questo è il primo dato con i quale fare i conti.
Ma nella civiltà aramaica molti racconti si tramandavano oralmente ed erano testi fissati.
Che differenza c’è tra una formula, una tradizione tramandata oralmente, ma già fissata, e la forma scritta? Praticamente nessuna.
Possiamo ben supporre, dunque, che alcune espressioni siano state trasmesse oralmente. Così si spiegherebbe come mai tre evangelisti usino, per riportare le stesse parole o la stessa scena, tre diverse congiunzioni greche.
Significa che essi hanno attinto a qualcosa di già fissato e si sono imbattuti in una congiunzione aramaica che poteva essere resa in greco con tre particelle diverse.
Questa linea di ricerca porta come conseguenza un avvicinamento dell’originale narrazione evangelica ai fatti accaduti? (98)
Sì questo è uno degli aspetti fondamentali.
Questo ci viene confermato dalle Lettere di san Paolo scritte intorno al 50/60.
Quando Paolo le ha redatte dava per scontati i convetti che esse contenevano, cioè riteneva che le prime comunità cristiane alle quali egli si rivolgeva giàli conoscessero.
Aveva già annunciato e spiegato loro questsi contenuti e così nelle Lettere gli basta ricapitolarli.
Non si vede, infatti, una evoluzione della teologia di San Paolo. dunque arriviamo, secondo alcuni autori , molto vicini all’epoca della morte di Gesù.
Le ricerche sulla lingua dei Vangeli ci portano alla stessa conclusione.
Quello che voglio sottolineare è che la creazione letteraria non è invenzione, non nasce dalla mente degli evangelisti, ma attesta la memoria di quella personalità storica unica che i discepoli avevano incontrato, Gesù, e che loro hanno descritto con uno stile sobrio e chiaro.
In effetti a me colpisce molto quanto sia difficile far accettare questo. Sembra quasi che si tocchi un dogma di fede. Ma come la mettiamo però con le discrepanze e le differenze tra i racconti degli evangelisti? (99)
Ma è un dato evidente: sempre, quando noi raccontiamo un fatto, lo raccontiamo nel modo in cui lo abbiamo visto e percepito; e se mettiamo per scritto il racconto, ciascuno lo farà con il suo stile letterario.
La difformità letteraria non implica che all’origine dei racconti evangelici non ci sia un fatto reale.
«(L’autocomunicazione di Dio agli uomini) deve essere letta e interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta»
Dei Verbum, 12
Perciò solo quando una persona incontra la comunità cristiana che prolunga nel tempo l’avvenimento iniziale e nella quale vede riaccadere quello che raccontano i Vangeli, può veramente riconoscere la ragionevolezza di quei racconti.
Per citare nuovamente sant’Agostino, “nelle nostre mani i codici, nei nostri occhi i fatti”, fatti che accadono nel presente…. (101)
Origene diceva che la ragionevolezza del cristianesimo è qualcosa di presente oggi.
Ciò che viene narrato nei Vangeli ha evidentemente un valore storico. Ma se solo a uno capita qualcosa nel presente, che documenti nella carne quello che viene lì annunciato, può veramente accostarsi a quei testi senza il sospetto che siano stati inventati.
Il sospetto sull’autenticità di ciò che leggo è vinto soltanto se il contenuto che mi viene comunicato è qualcosa che accade nel presente, di cui faccio esprienza.
Il punto di partenza è sempre il presente, altrimenti rimane il sospetto.
Il fossato può essere superato solo in forza di qualcosa di presente, di un avvenimento che accade ora.
Incontrare la novità cristiana significa infatti imbattersi in una diversità umana che non ci si riesce a spiegare.
Senza questo avvenimento presente noi leggeremmo quelle pagine come storie belle, ma non reali.
Quando si trattò di scegliere il sostituto di Giuda l’unico criterio adottato era aver partecipato come testimone oculare alla vita di Gesù e questo ci dice che erano i fatti che si volevano raccontare. (104)
Il cristianesimo si comunica attraverso i fatti
Ma un avvenimento tanto è imprevedibile prima di accadere, quanto è preciso, concreto, determinato, quando avviene: è quello che è, è lì, sperimentabile, visibile.
Per questo il requisito fondamentale per diventare uno dei dodici apostoli è l’aver partecipato a quell’avvenimento lì, in quel momento e in quel luogo lì.
Questo è determinante per la continuità nel tempo di quanto è iniziato.
E’ incredibile come nel Credo in mezzo a tutte le verità di fede ci stia anche Ponzio Pilato. (104)
Nel “Credo” ci sono tutte le verità della Chiesa compresa la sua realtà originaria certificata proprio, nonostante il suo male, da Pilato.
Il cristianesimo insomma è un fatto, un avvenimento della storia.
E’ inevitabile che possano esserci sempre altre interpretazioni.
Che cosa ci permette di riconoscere la verità? E’ in forza di una certa esperienza del vivere che noi ci rendiamo conto di dove stia la verità, del fondamento della nostra fede.
«Non c’è altro vangelo se non quello che vi ho predicato, per gli effetti che voi vedete accadere tra di voi»
Galati, 1,8
Gesù ci ha dato un criterio per riconoscerlo, quello del centuplo quaggiù.
Questa esperienza (del cambiamento) ognuno l apuò vivere nel presente, nel momento in cui incontra Gesù attraverso il segno umano di cui Egli si serve.
E’ l’esperienza che hanno fatto quei primi due, quel pomeriggio sulle rive del Giordano, quando hanno incontrato Gesù…(106)
Nell’incontro con Gesù hanno vissuto un’esperienza di corrispondenza alle esigenze del cuore senza precedenti.
La corrispondenza che avevano sperimentato dimostrava palesemente a loro stessi la verità di Gesù.
Gesù vuole che i discepoli non credano semplicemente per quello che Lui dice, ma per quello che vedono accadere.
«Se non credete a me, credete alle mie opere… Le opere parlano di chi sono io e ciò che accade in voi dice di me più di quello che p osso dire io di me stesso»
Giovanni 10, 37-38
Questo è grandioso, perchè nel rimando all’esperienza viene data fiducia al cuore dell’uomo, alla sua capacità di riconoscere il vero.
Per grazia viene poi donata all’uomo la possibilità di cogliere tutta la portata di Gesù.
E anche il dono della testimonianza. Don Giussani sempre ci ripeteva che il priomo incontro di Pietro con Cristo è stato il volto del fratello Andrea che gli dice: “Ho trovato il messia”. Prima ancora di vederlo e di incontrarlo, Pietro vede i volto cambiato del fratello…(107)
Anche noi siamo colpiti e cambiati da un incontro, da volti che rendono presente Gesù: Cristo mi raggiunge adesso attraverso il volto cambiato di una persona,
Duemila anni dopo posso fare esperienza del Verbo che si è fatto carne.
Senza questa presenza di Cristo nel presente l’esperienza cristiana non sarebbe possibile.
Quello che siamo non è l’esito di una organizzazione, di una bravura, di una sapenza o di una tecnica umana, ma della contemporaneità di Cristo.
Ci sono cose che non crollano: come lo stupore che proviamo davanti a una persona che vive diversamente il quotidiano in cui tutti siamo ugualmente immersi.
Sarà sempre questo ad attrarre, a conquistare la nostra ragione e la nostra libertà: on innancitutto una dimostrazione della storicità di Gesù o dei Vangeli, ma una presenza umana diversa, che trova il suo riscontro nei fatti raccontati dagli evangelisti.
E’ questa la prima conferma che Cristo è risorto.
La dimostrazione della verità che Cristo è morto e risorto è la novità di vita che voi vi trovate addosso, è quello che sta succedendo tra di voi.
L’annuncio passa attraverso l’umanità che vediamo riverberare nei volti di chi segue Gesù.
C’è però il rischio che l’organizzazione, le strutture, le forme istituzionali della vita della Chiesa, movimenti compresi, non facciano emergere questa vita. (110)
Il punto è se la Chiesa, cioè ciascuno di noi, testimonia questa diversità. Perchè non si tratta solo di un compito della Chiesa “istituzionale”.
E’ l’ordinario, la quotidianità a diventare l’occasione per testimoniare una luce che non ci appartiene e che non viene da noi, ma che per grazia abbiamo ricevuto.
Pio XII, nel 1034 nella “Mistici Corporis Christi”, ricordava che l’annuncio della fede oggi passa, ancor più di un tempo, attraverso la testimonianza dei padri e delle madri. (111)
Se non passano attraverso i fatti della vita, le grandi parole della fede non riescono a intercettare le persone.
Lo stare a tavola, l’essere a tavola è qualcosa che mi sembra in profonda sintonia con i racconti evangelici. (111)
La cena, il mangiare insieme, è il sinonimo di condividere, essere presenti all’altro, mettersi accanto all’altro senza pretendere.
Può capitare che uno, per caso, inviti un altro a cena e si scopra a fare un’esperienza del vivere totalmente nuova.
Come mai hai lasciato l’insegnamento e sei venuto da don Giussani? (113)
Me lo ha chiesto don Giussani. Ci volle un pò di tempo per decidere al mio vescovo che non riuscì a rifiutare l’invito di Giovanni Paolo II a cui don Giussani si era rivolto.
Era il 19 marzo del 2004 quando il mio arcivescovo me lo comunicò.
Nel settembre del 2004 mi sono trasferito a Milano, p resso l’Istituto Sacro Cuore, dove abitava don Giussani, che in quel periodo era molto malato.
Sarebbe morto qualche mese dopo, il 22 febbraio 2005.
Stava già male, ma era ancora presente? (114)
Riusciva ad essere presente quando il male non era in una fase difficile. Quando stava meglio lo vedevo tornare come tanti anni prima, con quel suo sguardo caratteristico che ti attraversava, carico di uno stupore profondo e di una vertiginosa simpatia.
Uno sguardo che è rimasto tale sempre, fino alla fine, nei nostri momenti di convivenza, anche se ti tante cose non abbiamo potuto parlare.
Ha capito perchè don Giussani ha voluto che gli fosse vicino nell’ultima fase della vita? (114)
Questo è un mistero per me e lo rimarrà fino a quando me lo spiegherà lui stesso in Cielo. L’unica cosa che non potevo fare era dirgli di no.
E’ stato lui a indicarla come suo successore alla guida della Fraternità? (115)
Sì, era il 27 marzo 2004, don Giussani lo ha comunicato di persona al consiglio nazionale di CL che si era radunato presso il collegio Guastalla di Milano. Da anni lo aveva espresso pubblicamente.
I membri della diaconia potevano essere d’accordo o non con queta indicazione, ma l’hanno assecondata, per una sequela di don Giussani.
Hanno accolto il suo suggerimento e sono stato eletto il 19 marzo 2005.
E questo è stato il primo segnale per me sconvolgente: le persone non hanno soltanto ascoltato quello che diceva don Giussani, ma anche aderito alla proposta.
La mia elezione, insomma, è passata attraverso la loro libertà.
E’ avvenuta all’unanimità.
4 – Il movimento “percepito” e quello “reale”
Carismi e rischi di autoreferenzialità (117)
Che cosa è un movimento nella chiesa?
Un movimento è una unità di persone, una compagnia, creata da un carisma, cioè da un dono fatto dallo Spirito Santo a chi Lui sceglie, per rinnovare continuamente la Chiesa, così da raggiungere persuasivamente gli uomini di ogni tempo e condizione, nelle situazioni sempre diverse in cui essi vivono.
E’ un fenomeno accaduto tante volte nella storia.
San Benedetto con il suo non anteporre alcunché a Cristo, ha generato attorno a sé un grande “movimento”, rigenerando attraverso di esso la vita della Chiesa e ricostruendo ‘intera civiltà europea.
Poi lo Spirito a suscitato san Francesco, sant’Ignazio … e così lungo tutta la storia.
Anche il nostro movimento, nella sua piccolezza è un segno dello Spirito Santo.
I monaci non avevano un progetto culturale, non avevano pensato di combattere una battaglia per la rinascita cristiana, non intendevano neppure rifondare una civiltà. volevano solo amare Dio e pregarlo, vivere di Lui. E questo ha permesso che l’Europa nascesse. (118)
San Benedetto ha voluto solo vivere e testimoniare ciò che lo aveva affascinato.
Fu per l’irradiarsi di questa novità che intorno ai monasteri rifiorì il tessuto umano e materiale, fino alla costruzione delle città.
La ragione fondamentale di un carisma è sotlanto questa: rendere viva la Chiesa, perchè Cristo sia conosciuto; è un bene donato a qualcuno a vantaggio della totalità della Chiesa.
E’ il metodo usato da Dio fin dall’inizio.
Dopo l’esperienza della torre di Babele, in cui tutto era riventato confuso, arriva la chiamata di Abramo.
Dio risponde al caos che si era prodotto scegliendo un singolo uomo.
Questo a noi pare sproporzionato. Così come ci sarebbe apparso sproporzionato scegliere san Benedetto per incidere nella storia. Invece è proprio così che accade: Cristo suscita in lui una novità tale che colpisce e attire altri, i quali si sentono chiamati a condividerla, rinnovando la propria vita e questo cambiamento si propaga fino a costruire una civiltà.
E’ stupefacente, tanto più se pensiamo a quanto risulti improbabile ai nostri occhi tale metodo.
Come è possibile che Dio scelga ciò che è fleble, fragile, per condondere i potenti?
Questo è e sarà sempre il paradosso della fede cristiana: dio usa un metodo che ci sfida radicalmente, per la sua diversità rispetto a come noi vorremmo fare, a come noi avremmo fatto.
Riconoscere questo metodo così “altro”da noi implica quotidianamente una lotta: innanzitutto a sé, e poi attorno a sé, perchè la mentalità comune va nella direzione opposta.
Che cosa è i movimento di Comunione e Liberazione? (119)
Lo racconto come è nato e nella storia si capisce che cosa è.
Don Giussani era proiettato verso una carriera accademica.
Ad un certo punto si rende conto di una improrogabile urgenza: comunicare la fede come un avvenimento di vita.
La maggior parte dei ragazzi che don Giussani incontro proviene da famiglie cattoliche, è andata all’oratorio e ha frequentato il catechismo per ricevere i sacramenti, ma tanti di loro non sono più interessati alla fede.
Lo muove allora il desiderio di comunicare la fede come pertinente alle esigenze del vivere.
Lo fa attraverso la sua genialità pedagogica, la sua profonda passione per la ragione e anche la sua capacità letteraria.
Annuncia la fede ai giovani che sono già fuoriusciti dall’ambiente ecclesiale, li intercetta nella scuola e poi all’università, prendendo sul serio tutte le loro domande, stimolando in loro una presa di posisione critica e consapevole.
«Non sono qui perchè voi riteniate come vostre le idee che ho io, ma per insegnarvi un metodo vero per giudicare le cose che io vi dirò»
Don Giussani “Il rischio educativo– pag. 20″
Intende risvegliare nei giovani il criterio di giudizio, le esigenze di verità, di giustizia, di felicità che costituiscono il loro cuore, così che possano verificare in modo maturo la proposta della fede.
Giussani mira a mettere in moto la soggettività della persona, non la vuole passiva e dedita solo a ricevere una serie di insegnamenti e tanto meno delle parole d’ordine.
In questo modo capovolge una certa mosdalità di comunicare la fede, rendendola adeguata all’uomo moderno, con la sua istanza di razionalità e libertà.
Provoca i giovani ad essere protagonisti, proponendo il cristianesimo nella sua natura originale di avvenimento che entra nella vita dell’uomo e la compie: chi segue Gesù sperimenta il centuplo quaggiù e si troverà addosso un’esplosione di vita che nemmeno si immagina.
Che cosa può persuadere infatti a seguire Cristo e a rimanere cristiani? Il fascino di un incontro e il fatto che la bellezza dell’inizio non cessi di accadere nella propria vita: il problema è non perdere la vita vivendo.
Don Giussani era convinto he una fede che non sia confermata dall’esperienza, che non s mostri utile a rispondere alle esigenze della vita, non sarebbe in grado di resistere in un mondo in cui tutto diceva e dice l’opposto.
La fede può resistere solo se è scoperta come necessaria a non perdere la vita vivendo.
I movimenti nella chiesa hanno sempre comportato scosse di assestamento, insieme a polemiche e anche a qualche divisione all’interno delle diocesi. (123)
E’ stato così e sarà sempre così perchè introdurre qualcosa di nuovo nello status quo provoca sempre qualche sconvolgimento, qualche scossa di assestamento.
La sfida però riguarda entrambe le parti: tutti siamo chiamati a capire sempre di più che quello che ci è stato donato ci è stato donato per tutti.
Istituzione e carisma hanno bisogno l’una dell’altra.
Ogni movimento deve capire che la grazia ricevuta è data per la costruzione della Chiesa, che ha nel papa e nei vescovi in comunione con lui il punto di riferimento.
Lo sguardo all’altro che don Giussani ci ha testimoniato e a cui ci ha sempre educato era definito da queste parole:
«Si sottolinea il positivo, pur nel suo limite, e si abbandona tutto il resto alla misericordia del Padre»
Don Giussani “Generare tracce nella storia del mondo”
Se dovesse sintetizzare im poche parole essenziali in che cosa consiste l’appartenenza al movimento di Comunione e Liberazione, che cosa direbbe? (127)
Partecipare ad una amicizia, nella quale si fa esperienza di un’intensità di vita mai provata prima, frutto della presenza di Cristo: è un’intensità che non può venire da nessun altra parte se non da Lui.
Come diceva don Giussani, il movimento è un “avvenimento di vita” più che un’organizzazione, un avvenimento a cui la persona è invitata a partecipare con tutta sé stessa, generando rapporti di amicizia che si dilatano fino a fare storia.
Ma ciò non dovrebbe essere di per sé l’esperienza comune della Chiesa? (127)
Don Giussani ha detto e ripetuto chiaramente di non aver mai inteso fondare niente, ma di aver sentito l’urgenza di ritornare agli aspetti elementari del cristianesimo, affermando la passione del fatto cristiano come tale nei suoi elementi originali, e basta.
Quando Giovanni e Pietro sono portati davanti ai membri del Sinedrio li stupiscono e vengono ammirati che avessero una istruzione così grande malgrado fossero persone senza istruzione.
Nell’amicizia con Cristo fioriva una umanità tale che perfino gli avversari non potevano evitare di rilevarla con sorpresa.
Questo è ciò che fa dire a don Giussani, con una delle sue più tipiche espressioni, che il cristianesimo è una modalità sovversiva e sorprendente di vivere le solite cose, quelle che tante volte ci annoiano e ci appesantiscono.
A che cosa è tenuto chi frequenta il movimmento di Comunione e Liberazione? (129)
Innanzitutto, ogni membro del movimento è invitato a partecipare alla liturgia e alla preghiera della Chiesa. Allo scop abbiamo un piccolo libro dei salmi con alcune preghiere tradizionali come l’Angelus.
Gli adulti che riconoscono la strada del mivimento come una proposta adeguata per la loro vita sono invitati a far parte della Fratrnità di CL, con la possibilità di aderire o costituire liberamente quello che chiamiamo “gruppo di Fraternità“.
- Tra i gesti propri del movimento, il primo è la Scuola di Comunità. Si tratta di una sorta di catechesi in cui è a tema la natura del cristianesimo e tutto lo sviluppo della vita che nasce dall’incontro cristiano.
- La caritativa: le persone dedicano liberamente una parte del loro tempo , nella fedeltà a una cadenza stabile, esclusivamente per condividere la vita degli altri a partire da un loro bisogno.
- Vi è un terzo gesto, il “fondo comune“: tale gesto permette di sostenere la vita del movimento senza dipendere da alcun aiuto esterno. Il fondo comune costituisce una chiave fondamentale per capire da dove vengono i soldi per la vita ordinaria del movimento.
- Gli Esercizi spirituali a cui sono invitati a partecipare tutti i membri di CL una volta all’anno, o le vacanze per le comunità.
Per lungo tempo al movimento di CL è stata associata la parola “integralismo”. Perchè? (132)
« Nell’esperienza di un grande amore [ …] tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito»
R.guardini, “L’essenza del cristianesimo”
E’ come quando ci si innamora: le solite cose diventano diverse.
Se uno è in Cristo, è una creatura nuova, un essere nuovo, il quale trova necessariamente espressione in ogni azione: Cristo diventa l’orizzonte globale entro cui si vede e si affronta tutto.
E’ l ‘integralità della fede
La fede invesste il mio soggetto, il quale cercherà nell’esperienza e con l’intelligenza gli strumenti e i metodi necessari per affrontare il problema secondo la sua oggettività.
Sta dicendo che Giussani non ham ai negato l’autonomia delle cosidette realtà temporali?(134)
«Tutto ciò che il cristiano compie ha a che fare con la sua relazione a Cristo. L’autonomia delle realtà terrestri è una ovvietà se con essa si intende che ogni cosa deve essere trattata secondo la sua propria natura e secondo la finalità intrinseca alla sua natura.
Ma essa non si accorda affatto con la fede cristiana se con essa non si intende che ci sono ambiti in cui l’uomo può prescindere dalla sua fede.»
Don Giussani
Quale è il rapporto del movimento di CL con la politica e con il mondo economico? (134)
Una comunità cristiana viava ha una incidenza “politica” in primo luogo per la sua stessa esistenza, in quanto occupa un certo spazio e implica un’espressività pubblica che incide nel tessuto sociale in cui è inserita.
Pensiamo alla sfida edicativa, alla famiglia, all’emergenza lavorativa, alla povertà e alle diverse forme di emarginazione, tutti temi sui quali la Chiesa è oggi in prima linea, in continuità con la dottrina sociale della Chiesa.
Ma quando, dalla sollecitazione e dall’animazione politico culturale , si passa alla militanza politica in senso stretto, l’azione diretta della comunità cristiana si ferma.
I laici cattolici, in forza dell’educazione ricevuta, si assumono una responsabilità personale, utilizzando gli strumenti propri della politica.
Don Giussani ha stimolato la partecipazione alla vita politica dei membri del movimento, ma le scelte partitiche appartengono ai singoli, che ne rispondono personalmente.
Per questo Giussani ha insistito con forza sul fatto che ci fosse sempre una “irrevocabile distanza critica” rispetto a qualsiasi scelta partitica.
Nonostante ciò, sinceramente, non crede che ci sia stata troppa commistione come a Milano per esempio? (137)
E’ normale che chi lavora sul campo vada incontro a rischi. Ci possono essere stati errori o atteggiamenti non sufficientemente adeguati da parte nostra.
Nessuna istituzione umana ed ecclesiale, politica o sindacale può evitare il rischio della libertà delle persone.
Ciascuno è personalmente respondabile di quello che fa.
Mi riferivo anche all’idea, molto diffusa in vari ambienti, secondo al quale si pensa che CL o gli appartenenti a CL agiscano in qualchemodo come una lobby, favorendo amici e cercando di occupare spazi. (138)
Questa è una tentazione permanente per ciascuno.
Don Giussani non ha inteso insegnare ai suoi studenti una volontà egemonica, bensì a perseguire una presenza gratuita.
Egli scorgeva in questo atteggiamento il cedimento alla tentazione di identificare l’avvenimento cristiano, che è frutto di una grazia sempre immeritata, con un progetto che vede noi come protagonisti.
Ciò non significa che il movimento non sia una realtà presente nella vita pubblica e che in quanto tale non possa dare il suo contributo in tante situazioni. Ma sempre senza alcuna pretesa egemonica.
«E’ l’ingenuità dell’uomo che dice:”Adesso vengo io a mettere a posto le cose. [ …] Che malinconia! [ .. ] Che malinconia abbiamo subito provato di fronte alla volontà di cambiamento della società»
Don Luigi Giussani 2008
Buttandosi così a capofitto in uno sforzo e in una pretesa di cambiamento delle cose con le proprie forze, esattamente come gli altri.
Il cristianesimo veniva ridotto così a moralismo.
Non possiamo tornare ad una posizione reattiva, cercando un qualunque tipo di egemonia, attraverso cui pensare di cambiare le cose.
Il cambiamento avverrà, se Dio vuole, con tempi che non sono nostri, se viviamo l’avvenimento che ci è accaduto e testimoniamo nel mondo una presenza originale, attraverso gesti di umanità reale, cioè di carità.
Non c’è quindi nessun rimpianto per il tempo in cui questa egemonia esisteva da parte della Chiesa, da parte del cristianesimo? (140)
In Giussani questo tipo di nostalgia non c’è mai stata.
Già prima del Concilio riteneva che la Chiesa non avesse bisogno di nient’altro se non dell’attrattiva potente di Cristo, riverberata in una vita vissuta nel fascino in Lui.
Questo è ciò che può realmente sfidare la ragione e la libertà dell’uomo.
Che cos’è la moralità in politica e nel mondo degli affari? (141)
La moralità nella politica e nel mondo degli affari non è diversa da quella necessaria in qualsiasi altra attività umana: una tensione a vivere secondo verità.
Ma appena uno dice questo, si rende conto di quella sproporzione o contraddizione che san Paolo ha genialmente espresso:
In me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio ma il male che non voglio
Romani 7, 18-24
Stabilito questa vrità il moralismo è il tentativo prometeico di risolvere questo dramma con le proprie forze.
Un’altra questione è servirsi di questa incapacità umana per giustificare i propri sbagli.
Per questo quando sono accaduti fatti pubblici dolorosi, ho voluto chiarire che non erano giustificabili per nulla.
Certo è che chi non fa nulla non può sbagliare, mentre chi fa corre sempre un rischio.
Ma che cosa è meglio, correre il rischio di sbagliare facendo qualcosa o non sbagliare facendo nulla?.
Di fronte a tanta distruzione il cristiano non può rimanre a guardare la realtà dal balcone.
La politica rimane una delle forme più alte di carità.
Da questo punto di vista, per spirito di equità, occorre ricordarsi anche dei tanti tentativi positivi che hanno giovato al bene comune.
E’ sempre importante impegnarsi e rischiare, ma è anche fondamentale riconoscere i propri sbagli. (143)
Per questo ho chiesto scusa a tutti quando ho scritto la lettera pubblicata su “Repubblica”.
I nostri errori diventano un potente richiamo alla purificazione.
Il cristiano avverte la sua assoluta inadeguatezza rispetto al dono ricevuto, e la Chiesa lo invita sempre a compiere il gesto più importante all’inizio della liturgia: chiedere perdono.
Il peccatore è colui che riconosce di esserlo, e si rialza chiedendo perdono. E’ colui che non si autogiustifica. il corrotto invece fa diventare il suo peccato un sistema, una mentalità, e alla fine lo giustifica, non lo considera più peccato. Così l’immoralità viene giustificata in tutti i campi. (144)
E’ la presunzione dell’uomo di ogni epoca: erigere il proprio limite a misura, con se stesso, con gli altri e con tutta la realtà.
Per questo ho ricordato che prendere coscienza del proprio peccato è decisivo per la vita cristiana.
Che cosa è la compagnia delle Opere?. (145)
La CdO mi sembra un tentativo per aiutarsi e sostenersi come uomini e come cittadini cercando di promuovere un bene prezioso che tutti desideriamo: il lavoro.
Mi risulta che tante persone che non provengono dall’esperienza di CL siano associate alla CdO e trovino nelle sue attività e iniziative un aiuto per far fronte ai problemi legati alla sopravvivenza e allo sviluppo delle loro imprese.
Il fatto che delle persone che hanno incontrato la fede abbiano voglia di creare imprese che diano occasione di lavoro sopratutto ai giovani e si sostengano nell’affrontare il peso dei rischi e delle incertezze che questo comporta, non mi sembra uno svantaggio per la società.
Mi pare ingiusto guardare a questa realtà solo con sospetto.
Comunque ripeto sempre: se il Mistero ci dà la possibilità di fare tre, non accontentiamoci di fare due e mezzo.
E se ci consente di non fare più di tre, non cerchiamo di fare cinque o sei, perchè diventeremmo presuntuosi e sbaglieremmo.
Dunque l’idea che la CdO sia il braccio economico di CL è sbagliata? (147)
Niente è più lontano dalla realtà e questo ci tengo a ribadirlo: la responsabilità delle opere è dei singoli.
Il movimento non ha sue opere e nessuna opera è sotto la sua diretta responsabilità.
Sotto il profilo giuridico la CdO è una libera associazione i cui responsabili a livello nazionale e locale sono eletti e rispondono solo ai loro soci.
Come si regge economicamente il movimento? (147)
Il movimento vive esclusivamente grazie al fondo comune, come ho già detto, cioè ai contributi volontari liberamente versati dai suoi aderenti.
Di fatto il movimento possiede soltanto la sede centrale dell’Istituto Sacro Cuore di Milano (l’unica scuola voluta da don Giussani per offrire un esempio di educazione secondo l’ideale cristiano), la sede del centro internazionale di CL a Roma e la struttura che ospita il Seminario della Fraternità sacerdotale dei missionari di san Carlo Borromeo sempre nella capitale. Punto.
Giussani non ha avuto alcun desiderio di incrementare il patrimonio del movimento. Non abbiamo nulla e non chiediamo nulla: questa è la nostra libertà.
Oggetto di tante polemiche è stato il rapporto fra la parrocchia e la presenza di nuovi movimenti. Che valore ha la parrocchia? (148)
Come dice la parola stessa, l’essere situata sul territorio, vicino a dove abitano le persone.
Ma le persone ormai non si incontrano più solo in parrocchie come avveniva fino ai primi anni 60.
L’ambiente è cruciale, perchè lì non possiamo barare. Lì la gente ci vede tutti i gioni, quando nevica, quando fa caldo, quando cìè una difficoltà, quando siamo tristi, quando la vita pesa, e tutti possono constatare se il nostro modo di vivere è più umano ed eventualmente domandarsi che cosa lo rende tale.
Il problema che si pone è se gli ambiti di appartenenza costituiscono luoghi di generazione di adulti che vivono in modo diverso la vita di tutti, perchè il cristianesimo ppuò diventare interessante solo per la testimonianza di tale diversità.
Per questo ci conviene “uscire”, affrontre le situazioni, andare incontro agli altri.
“Uscite fuori”, quante volte ce lo ha ripetuto papa Francesco.
Bisogna mostrare che cosa c’entra la fede con la vita: questa è la grande sfida che ci troviamo di fronte.
Come diceva don Giussani, infatti, si può capire che qualcuno non sia interessato alla vita eterna, perchè non ha fantasia, ma tutti siamo interessati a vivere meglio, ad essere felici e realizzati, al centuplo quaggiù che Gesù ci ha promesso e che precede l’eternità.
E’ con papa Wojtila che i movimenti diventano protagonisti. L’essere considerati le “truppe scelte, le truppre avanzate, l’élite”, non ha rischiato talvolta di far sentire i ovimenti un pò “i primi della classe”? (150)
Questo rischio c’è. Ma è anche vero che Dio ha sempre scelto: sceglie Abramo, non si rivolge a tutti.
E non sceglie i migliori. Zaccheo, Matteo, Pietro ecc… sono scelti: sanno di essere un nulla che è chiamato.
Altro che atteggiarsi al primo della classe! Sì è piuttosto come gli ultimi della fila, che accolgono la scelta per quello che è: una grazia immeritata.
E’ quando si perde questa consapevolezza che si soccombe al pensiero di essere i primi della classe, finendo in questo modo per non essere una proposta per nessuno.
Lei vede in Cl e negli altri movimenti ecclesiali il rischio dell’autoreferenzialità? Mi riferisco sopratutto al fatto che talvolta si constata la difficoltà a fare rete tra le diverse realtà ecclesiali. (151)
Per sua stessa natura ogni carisma è in funzione della totalità della vita ecclesiale.
La riprova di carisma vero è dunque che apre a tutto, non chiude.
Il cristianesimo, quando è vissuto nella sua autenticità, è uno sguardo positivo a tutti e a tutto.
Un carisma spalanca alla totalità. Dunque soltanto la mancanza di fedeltà a esso può farci chiudere nella autorefrenzailità.
Se non vogliamo scadere nella autoreferenzailità dobbiamo richiamarci costantemente alla verità del carisma, il quale è per sua natura totalizzante e cattolico: totalizzante, in quanto tende a determinare tutti i rapporti, e cattolico, in quanto si apre ad abbracciare tutto e tutti.
Che cosa significa oggi essere na presenza? C’è chi vi accusa di fare una “scelta religiosa” e non una scelta sufficientemente militante. (153)
Occorre capire se il cristianesimo è semplicemente qualcosa che riguarda un aspetto del vivere e la sua totalità.
Se un avvenimento è veramente significativo per la vita , coinvolge tutto: «Sia che vegliate, sia che dormiate» dice san Paolo.
Questa mi sembra la questione.
Forse la polemica attuale riguarda la dialettica fra una testimonianza che passa innanzitutto dalla persona e una testimonianza che finisce per affidarsi alla struttura, alla organizzazione, alla militanza. (153)
Per essere una presenza non abbiamo bisogno di alcuna forza, di alcun potere, di alcun tipo di egemonia.
Il cristianesimo si comunica per lo splendore di una testimonianza personale e comunitaria, in cui si documenta la novità di vita che nasce dalla fede.
L’altro capitolo decisivo è il rapporto fra la libertà e la verità.
Il Concilio nella Dignitatis Humanae afferma che non verità non si impone se non per la forza della verità stessa.
Non si può forzare nessuno. La fede si può solo testimoniare, e l’altro può riconoscere l’avvenimento di Cristo incarnato nell’esistenza di persone che vivono tutto a partire dalla fede.
Questo riconoscimento non può avvenire se non attraverso la libertà.
Il riconoscimento e l’adesione al fatto cristiano sono una grazia che passa attraverso la libertà.
Se in una scuola ci fosse anche un solo studente non cattolico, l’asociazione si sarebbe dovuta ispirare a valori umani accettabili anche dalui, rispettando ed accogliendo la su posizione
Anche uno soltanto non cattolico….(155)
Sì anche uno soltanto.
La verità, che è Cristo, non ha bisogno d’altro, per comunicarsi, che dello splendore e dell’attrattiva della verità stessa.
In una società che fa della libertà la sua cifra, la verità può affermarsi solo se diventa convinzione personale, cioè se passa attraverso il libero riconoscimento di ciascuno.
La sola forza è quella della sua interna verità.
Lo vediamo nei santi, persone che, irradiando attraverso la loro vita la bellezza del cristianesimo, hanno cambiato l’esistenza di tanti e quindi anche della storia.
La verità è infatti diventata un avvenimento di vita, si è resa visibile nella vita di un uomo: questo è l’annuncio cristiano, che si rinnova negli stessi termini oggi, attraverso coloro che sono già stati investiti dal fatto di Cristo.
Papa Ratzinger ha detto che “la Chiesa non è al mondo per cambiare i governi” e che la via del dialogo è l’unica via possibile. Quale chiave di lettura offre tale sguardo per la vita di un movimento come Cl? (157)
Cristo ha messo sul tavolo della storia la più grande promessa che l’umanità abbia mai ricevuto: chi Lo segue vivrà il centuplo quaggiù, un’intensità cento volte maggiore in ogni aspetto del vivere, e poi speirmenterà la vita eterna.
La sfida di oggi non è appena cambiare un governo.
La vera sfida è il nichilismo che attanaglia giovani e meno giovani, cioè il credere che in fondo non ci sia una risposta adeguata al proprio desiderio.
Ma quando la vita urge si accorge del senso di distruzione che lo abita, di tutta la mancanza di speranza.
Può forse rispondervi un cambiamento di strutturre o di governi.
Ratzinger diceva che i non credenti hanno bisogno dei credenti per essere interrogati sul fatto che può esistere un Aldi là, che può esistere una verità. Ma allo stesso modo, i credenti hanno bisogno dei non credenti, del loro dubbio, della loro domanda, per non rischiare mai di trasformare la loro fede in ideologia. (158)
Questa possibilità costante di scambio, per cui ti trovi persone che ti fanno domande di fronte alle quali non puoi barare.
E nel tentativo di rispondere, prendi consapevolezza delle ragioni per credere.
Con le sue domande, egli ci aiuta a non ridurre ciò che ci è capitato a qualcosa di acquisito, a un possesso.
Cristo non è l’oggetto di una nostra conquista.
Siamo noi che, per grazia, senza alcun merito, siamo stati attratti da Lui. Siamo noi che, per grazia, apparteniamo a Lui.
Il dubbio dell’altro, il dubbio di chi non crede, resta comunque come una ferita aperta,c ome una domanda su di me. (159)
Certo, perchè l’altro, con i suoi dubbi e le sue domande, mi richiama a vivere la fede con come punto di arrivo, ma come ferita mai rimarginata, rendendomi compagno di cammino di chiunque trovo per strada.
Trovare non spegne la ricerca, la infiamma
Non si può rimanere a galla senza nuotare.
La fede perciò non è una questione risolta una volta per tutte, grazie a Dio.
Perchè io voglio poter dire di sì a Cristo ogni mattina, non meccanicamente e non per modo di dire, un sì che diventi mio ogni volta di più.
Don Giussani negli anni 50 si mostrava insofferente verso certi schematismi che erano in vigore nelle associazioni di allora, come l’Azione Cattolica. Come CL ha vissuto e vive il Concilio Ecumenico Vaticano II? (160)
(L’annuncio cristiano deve raggiungere)«I molteplici campi dell’attività umana, che toccano le persone singole, le famiglie e la vita sociale»
Giovanni XXIII – discorso di apertura del Concilio 11/10/1962
Non solo parole quindi, ma parole e gesti intrinsicamente, intimamente legati insieme.
Gesù comunicava la sua identità non solo quando parlava, ma anche quando agiva, quando guardava Zaccheo, quando entrava in casa sua; con il suo modo di essere, introduceva nella realtà sociale e culturale del suo tempo una novità senza paragoni.
Giussani si era accorto che tanti giovani non percepivano piùil cristianesimo in questi termini.
«Il cristianesimo non è un sistema intellettuale, un pacchetto di dogmi, un moralismo, ma [ …] è un incontro; una storia d’amore; un avvenimento»
Ratzinger ai funerali di don Giussani
Da questo nascono un’amicizia, una cultura e un’azione nuove.
- Il Concilio ha rimesso sotto gli occhi di tutti che il cristianesimo si comunica come attrattiva.
- La seconda grande intuizione conciliare ha riguardato l’aspetto comunitario della fede. la LUMEN GENTIUM comincia così: «Cristo è luce delle genti: questo santo Concilio, adunato nello Spirito Santo, desidera dunque ardentemente, annunciando il Vangelo ad ogni creatura, illuminare tutti gli uomini con la luce del Cristo che risplende sul volto della Chiesa».
- L’intuizione contenuta nella Costituzione conciliare GAUDIUM ET SPES, testimonia l’interessamento e la passione per il mondo, la stima per i tentativi umani, pur nella tristezza della loro tristezza ultima per l’incomiutezza di cui soffrono.
«Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione»
GAudium et spes – Paragrafo 22
«Vivemmo dunque il Concilio senza alcuna retorica celebrativa, con grande speranza e come un’autorevole conferma di alcune intuizioni che già prendevano corpo anche nella nostra esperienza
Savorana – Vita di don Giussani pag. 307
Come si pone CL rispetto al tradizionalismo? (163)
Il tradizionalismo, per don Giussani, rimane fermo a una concezione della religione puramente intellettualistica. Per don Giussani, il cristianesimo è solo un avvenimento.
Per lui il cristianesimo è un avvenimento che ha la forma di un incontro è dunque qualcosa di cui si può fare esperienza.
I tradizionalisti considerano la parola “esperienza” come fumo negli occhi. (164)
Per i tradizonalisti il nesso con l’esperienza è un rischio inaccettabile; per don Giussani è l’unica possibilità.
Sottolinea con forza la necessità che ogni porposta passi al vaglio delle esigenze del cuore, e in questo è profondamente moderno, ma tali esigenze rappresentano un criterio oggettivo e “infallibile”, vale a dire una struttura originale di cui ogni uomo è dotato e che gli permette di riconoscere il vero.
«Possiamo riconoscere solo ciò per cui si dà in noi una corrispondenza
ratzinger – presentazione del nuovo catechismo
I discepoli hanno incontrato uno che rispondeva come nessun altro alle attese del loro cuore e lo hanno riconosciuto.
La tradizione non è tradizione, se non si rinnova. E’ il contrario rispetto a chi pensa che qualsiasi novità metta in discussione la tradizione.
Cercare di rispondere alle sfide del presente è stata in ogni epoca un’occasione per approfondire la fede. Ciò ha permesso alla fede di continuare a essere se stessa.
Per “tradere””, cioè perchè vi sia comunicazione, trasmissione della tradizione, occorre che questa si rinnovi.
La chiesa prende coscienza di sé sempre più approfonditamente nel tempo, proprio in forza della sua stessa vita, grazie alla luce e all’energia dello Spirito che vi abita
«Non c’è veramente continuità senza sviluppo»
Newman – Lo sviluppo della dottrina cristiana
E per quanto riguarda il tradizionalismo in ambito liturgico? (167)
Giussani ha sempre vissuto la liturgia con essenzialità, proprio per la natura di quello che accade nella celebrazione.
Educava le persone a vivere la liturgia come il rapporto con Cristo presente nel sacramento, non aveva bisogno di ulteriori ornamenti per farla diventare “digeribile”: tutto il necessario era giàpresente nel gesto liturgico.
Ha inteso dimostrare, in tutto quello che ha fatto,che la liturgia è parte della comunicazione della stessa fede.
5 – In compagnia dei papi
Il movimento di Cl e l’autorità della Chiesa (169)
Puòò descrivere quale è stato il rapporto del movimento ci Comunione e Liberazione con Giovanni Paolo II? (169)
CL conosceva Giovanni Paolo II prima che diventasse papa, per il rapporto che aveva con il movimento aveva coltivato fon i cattolici di alcuni paesi al di là della Cortina di Ferro.
Don Francesco ricci aveva incontrato l’arcivescovo di Cracovia Karol Wojtyla nella secon metà degli anni 60. Don Giussani lo conobbe nel 1979.
Una grande occasione per apprfondire il rapporto con il papa fu l’enciclica Redemptor Hominis che costituisce veramente una pietra miliare per il nostro cammino.
Don Giussani ne fece stampare una edizione speciale, impegnando tutto il movimento a studiarla per un anno intero, perchè in essa trovava descritta la natura del cristianesimo e della Chiesa.
La frase iniziale dell’enciclica, “il redentore dell’uomo, Gesù Cristo, è centro del cosmo e della storia”, divenne una sorta di manifesto.
Il rapporto con il papa si fece sempre più stretto.
Direi che all’origine di tutto c’è l’intesa profonda che il papa viveva con don Giussani, una sintonia che è continuata fino alla fine.
Disse in uno dei suoi primi incontri, nel gennaio 1980: “Il vostro modo di affrontare i problemi è simiile al mio; o meglio, è lo stesso”.
Qual’è il rapporto tra il movimento e i vescovi, che specialmente durante il pontificato di Wojtyla, sono stati scelti tra i preti di CL? (171)
Quando una persona del movimento diventava vescovo, la scelta di don Giussani era quella di liberarla da qualsiasi preoccupazione relativa a responsabilità del movimento.
Dal momento della nomina a vescovo, un sacerdote di CL doveva dunque solo rispondere a ciò a cui la Chiesa lo aveva chiamato.
Quale è stato il rapporto fra CL e il card. Martini, arcivescovo di Milano dal 1981 al 2002? si parlato di relazioni non facili….
Don Giussani sottolineava sempre la paternità del cardinale Martini, che aveva abbracciato e accettato il movimento nella sua diocesi.
Martini aveva una grande stima di don Giussani per quel suo sottolineare il fatto dell’Incarnazione.
Di Martini don Giussani apprezzava la costante preoccupazione per la pace e sopratutto la sua sottolineatura del valore dell’ecumenismo.
Un altro aspetto che lo colpiva era l’idea di carità come condivisione dei bisogni.
Anche in questo si sono trovati d’accordo.
Su altre questioni ci sono state divergenze, per esempio sul modo di intendere il rapporto tra il carisma e istituzione, tra il movimento e parrocchie, ma sempre nella comounione, per quanto mi è dato di sapere.
Qual’è stato il rapporto tra il movimento e Benedetto XVI?. (173)
Tra i due vi furono vari incontri, dei quali don Giussani approfittò anche per sottoporre al vaglio del cardinare alcune sue intuizioni e formulazioni su cui voleva sentirsi del tutto tranquillo: “Mistero e segno coincidono”, ” Se il Verbo si è fatto carne, è in una carne che noi Lo troviamo, identicamente”, “Il carisma viene prima del dogma” e così via.
(di don Giussani) “Ho conosciuto la sua fede, la sua gioia, la sua forza e la ricchezza delle sue idee, la creatività della fede. E’ cresciuta una vera amicizia“
Ratzinger – Saluto agli esercizi dei sacerdoti 6 febbraio 2013
Quale è stato e qual’è il suo rapporto personale con il papa Benedetto XVI?. (174)
Mi ha fatto sentire subito parte della sua amicizia, che continuava attraverso il legame con la mia persona.
La rinuncia al pontificato: è stato il fatto più eclatante, la riprova della sua libertà rispetto a qualsiasi ruolo.
La sua certezza in Cristo, che ha sempre testimoniato, gli ha consentito un passo di questo genere.
Mi piace rileggerlo spesso.
Non c’è soltanto la compagni personale, ma anche la compagnia profonda che è il suo magistero, l’opera che ci ha donato come ricchezza per la vita di tutta la Chiesa e di tutti noi.
Durante il Vatileaks venne pubblicata una lettera su un quotidiano una lettera firmata da lei dove criticava Martini e Tettamanzi. Si è pentito di averla scritta? (175)
Il mio era un appunto riservato e confidenziale richiestomi esplicitamente dal nunzio apostolico in Italia. Avevo espresso alcune osservazioni, non era mia intenzione creare uno scandalo e quella lettera doveva rimanere segreta.
Del resto qualche difficoltà c’erano state e alla morte del Card. Martini sul Corriere della Sera ho scritto: “Ci rincresce e ci addolora se non abbiamo trovato sempre il modo più adeguato di collaborare alla sua ardua missione e se possiamo aver dato pretesto per interpretazioni equivoche del nostro rapporto con lui, a cominciare da me stesso”.
E comunque ci sono molte persone del movimento coinvolte nei consigli parrocchiali, nel catechismo, negli oratori e in una miriade di oepre di carità.
Ci sono diverse polemiche a proposito della rinuncia di papa Benedetto XVI. Secondo lei ha rinunciato perché sottoposto a pressioni? (177)
Non lo penso affatto.
Parlo di ciò che credo abbia colpito tutti: unapersona al massimo del suo “potere” che decide di rinunciare, c on piena coscienza e con profonda pace.
Per fare questo occorre una pienezza di vita che rende liberi.
Come ha spiegato egli stesso in una intervista a Peter Seewald, “Ultime conversazioni”, egli ha sempre concepito il suo ministero come un servizio e il suo gesto di rinuncia è nato, in un dialogo di fede con il Signore, dalla coscienza chiara della decisività di quel servizio e da una sovrabbondanza che lo rendeva libero.
Come ha accolto, nel marzo 2013, l’elezione di Bergoglio? (178)
Con grande sorpresa. Mi erano noti i rapporti di amicizia con persone della comunità di Roma.
Ma al di là di quello che poteva apparire a prima vista, tutto il magistero di Francesco rappresenta una radicalizzazione di quello di Benedetto XVI.
La modalità della sua presenza, i suoi gesti e le sue parole intecettano infatti immediatamente i bisogni e le ferite dell’uomo contemporaneo.
Per la sua indole pastorale, per il suo temperamento, per la sua personalità di fede, papa Bergoglio riesce a testimoniare il volto dell amisericordia con una semplicità, con un0immediatezza, con un abbraccio all’altro che raggiunge di schianto le persone più diverse e più semplici allo stesso tempo.
Lasciamoci colpire e provocare da lui
Tra le critiche, alcune decisamente forti e sprezzanti arrivano da gornalisti, sacerdoti ed esponenti storici del movimento di Comunione e Liberazione. A che cosa sono dovute secondo lei? (179)
Ci troviamo di fronte a un cambiamento d’epoca, come lo definisce papa Francesco, e se non lo si coglie non si riesce a comprendere il suo modo di agire.
Non è possibile rispondere alle sfide attuali con le stesse modalità con cui si affrontavano quelle epoche passate.
Queste non hanno niente a che vedere con l’atteggiamento di don Giussani che ripetutamente ne scrive: “Il volto di quell’uomo [Cristo] è o ggi l’insieme dei credenti, che ne sono il segno nel mondo, o -come dice san Paolo – ne sno il Corpo, corpo misterioso, chiamato anche popolo di dio, guidato come garanzaia da una persona viva” (Il senso di Dio e l’uomo moderno”.
Può essere che non si capisca ma che si sia arrivati alla irriverenza lo considero un danno per la vita della Chiesa.
Il discorso di papa Francesco nel marzo 2015 è stato considerato una strigliata a CL. Come ha accolto lei quel discorso? (181)
Non siamo andati a Roma per un formalismo, ma con una domanda precisa, che ha chiunque appartiene alla vita del movimento: come mantenere la freschezza del carisma?
E Papa Francesco ci ha risposto in modo sconvolgente.
L’esperienza che abbiamo vissuto quel giorno è stato il riaccadere dello sguardo di Cristo nella nostra vita.
Il richiamo a non essere chiusi, a non essere autoreferenziali mi sembra qualcosa che riguarda ogni cristiano, ogni esperienza ecclesiale, tanto è vero che il papa lo ha ripetuto e lo ripete a tutti: solo rimanendo legati a Gesù, solo lasciandoci incontrare da Lui, possiamo non soccombere al pericolo della autoreferenzialità.
L’udienza del 7 marzo è stata una esperienza stupefacente, la porteremo sempre con noi, come memoria e come richiamo costante a vivere l’autenticità del carisma.
«Il cristianesimo non si realizza mai nella storia come fissità di posizioni da difendere, che si rapportino al nuovo come pura antitesi; il cristianesimo è principio di redenzione, che assume il nuovo salvandolo»
don Giussani, “porta la speranza” pag. 119
Qual’è a suo avviso il cuore del messaggio della Evangelli guadium? E’ stata messa a tema nel movimento? (183)
Tutto il messaggio è già contenuto nel titolo e nella prima frase:
«La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che incontrano Gesù [ … ]. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia»
Francesco – Evangelii guadium 1
In chi ha incontrato Cristo, ciò che prevale come sentimento di sé. come atteggiamento rispetto a tutto, è la gioia, una contentezza che pervade la vita.
L’intensità del vivere generata dall’incontro con Cristo coincide con il “centuplo quaggiù”, con l’esperienza del compimento che l’uomo desidera.
«All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con ciò, la direzione decisiva»
Benedetto XXVI – Deus charitas est
Il cristianesimo non si comunica per proselitismo, ma per “attrazione”
Il cristianesimo è un avvenimento che attrae la vita e la riempie di gioia.
«Sarebbe un errore intenderla come un eroico compito personale, giacché l’opera è prima di tutto Sua
papa francesco – Evangelii gaudium 12
«L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri»
paolo vi – Evangellii nuntiandi
Secondo lei questo è stato messo a tema e compreso nel movimento e nella Chiesa? (185)
Penso che un documento come questo richieda del tempo; esso sottende r propone una impostazione che non si assimila dal giorno alla notte.
Ci sono segni, magari ancora iniziali, di qualcosa che comincia a farsi strada e che io penso rappresenti un punto di non ritorno per gli anni a venire.
Qual’è il messaggio principale dell’esortazione Amoris laetitia su matrimonio e famiglia? (186)
E’ come se vedessimo applicata alla famiglia la Evangelii Gaudium.
Si trova in Amoris laetitia quello sguardo che Gesù documenta nel Vangelo: «Ebbe compassione di loro, perchè erano pecore senza pastore», erano cioè sconcertati, disorientati, intrappolati nelle proprie difficoltà, bloccati nei propri ingranaggi.
Servono testimonianze che documentino a quanti sono innamorati, a coloro che vivono un’esperienza così bella come l’innamoramento, che il matrimonio costituisce la grande promessa che la bellezza di quel momento può durare e maturare, senza che il rapporto invecchi, diventando formale, trasformandosi in una gabbia.
Il matrimonio non è la foto di un momento, ma un cammino dinamico di crescita e di realizzazione.
Se il cristianesimo non si propone come un fatto che accompagna la vita e permette di affrontare anche questa difficoltà, si finisce per pensarla come i discepoli: «E’ meglio non sposarsi», come se il matrimonio avesse come prospettiva quella di essere la tomaba dell’amore.
Se lasciamo entrare Cristo nella nostra vita, Egli renderà possibie una pienezza che noi soli non riusciremmo a raggiungere.
Chiunque voglia veramente bene a un’altra persona non può desiderare qualcosa di meno di questo compimento.
Don Giussani: «Accostarsi alla Comunione è un grido di un povero, il grido di un derelitto, che non capisce e non sente più nulla, eperciò ricorre alla forza, al Mistero, alla potenza che fa tutto e che lo convertirà. Un giudizio e un desiderio del bene, un grido verso il bene: questo è la Comunione. Non è uno stato d’animo, un sentimento, un piacere, una sincerità da commerciante». (188)
Per don Giussani il sacramento, la Confessione, l’Eucarestia sono la forma più semplice di preghiera, che non dipende dallo stato d’animo che uno ha.
Egli dice che i tradimento più grande è quello verso il proprio desiderio che permane nel cuore dell’uomo nonostante tutte le situazioni e condizioni.
Il sacramento non è per i sani, è l’aiuto per i malati.
Quando uno guarda sè stesso solo dal punto di vista della sua capacità, a un certo punto si scoraggia, finisce col dire: «Questo traguardo non è fatto per me, mi è chiesto troppo».
Zaccheo, prima di salire sull’albero, ci appare soltanto curioso, non in preda a una crisi esistenziale di pentimento per i suoi peccati. (191)
Pensiamo ancora a come Gesù si avvicina alla peccatrice che deve essere lapidata o alla donna che gli lava i piedi con le lacrime o alla samaritana.
Che cosa Gesù valorizza in loro? Egli vede oltre i limiti, gli sbagli, i peccati che pure hanno commesso; è come se non si lasciasse ingannare, distrarre, condizionare da tutto il male.
Sotto i detriti del male e del peccato Gesù riconoscela presenza di un desiderio di bene inestirpabile, di compimento e la afferma.
E quando le persone si ritrovano guardate a quel modo, accolte, amate, il loro desiderio si ridesta in tutta la portata che ha.
Essere guardati e accolti con questa misericordia spalanca il cuore, ridesta la speranza.
Non dobbiamo scoraggiarci di niente, non dobbiamo cadere nel moralismo, bensì affidarci sempre di nuovo all’Unico che ha il potere di cambiarci la vita.
«Il tempo e l’esito non è nostro e la potenza di Dio è più grande di tutta la nostra debolezza; siamo, in qualsiasi caso, anche quando sbagliamo, sereni, lieti. Se uno, perchè ha sbagliato, non è lieto, sbaglia lì, perchè rivela che si affidava a sè stesso. Invece no, è a Gesù che ci si affida»
Giussani – L’attrattiva di gesù – pag. 267
Perciò il papa, nell’Amoris laetitia, insiste sulla n ecessità di accompagnare le persone con lo stesso sguardo di misericordia che riceviamo, senza lasciarci scoraggiare da chi sbaglia, continuando ad essere aperti all’infinita misericordia della quale grazie a Dio siamo destinatari.
Persone che stavano insieme, ma non si erano volute sposare, perchè avevano avuto esperienze travagliate con i loro genitori o avevano assistito a storie negative di amici, sono rinate quando hanno trovato sul loro cammino famiglie che vivevano la vita con pienezza.
E senza che nessuno avesse detto loro nulla, pian piano hanno deciso di sposarsi.
Non per un moralismo, non per aderire a una regola, non perchè “dovevano” rimettersi in sesto, ma per non perdersi la bellezza di una vita che vedevano riverberata e testimoniata nelle famiglie che avevano incontrato.
Già solo il desiderio di fare un passo verso Dio è una crepa dentro la quale la grazia di Dio può iniziare ad agire. (194)
Certo perchè il desiderio è l’espressione più grande dell’uomo.
Niente esprime più senticamente l’umanità dell’uomo del suo desiderio.
Don Giussani identificava la moralità con queste due parole: memoria e desiderio.
Il desiderio diventa preghiera e la preghiera altro non è che l’espressione continua del desiderio dell’uomo di vivere all’altezza della pienezza per la quale è stato creato e alla quale è chiamato.
L’Eucarestia non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli. Che cosa significa? (195)
E’ prevalsa a tal punto la riduzione del cristianesimo a etica, a moralismo, che facciamo fatica a comprendere che l’Eucarestia è proprio per gente come noi, per l’unico uomo e l’unica donna che esistono nella storia, l’uomo e la donna peccatori, che sbagliano, che cadono, che hanno bisogno di rialzarsi e di una mano misericordiosa cheli sollevi.
“Senza di me non potete far nulla” ci aveva avvertito. Per rispondere a questo bisogno Lui ha voluto rimanere presente nella sua Chiesa in questo segno sacramentale unico.
Tutto il tentativo umano non riesce a realizzare quello cheil nostro cuore desidera, la pienezza a cui asperia.
L’alternativa allora è semplice: o l’uomo, non arrivandoci con le proprie forze, si arrende e fa così prevalere lo scetticismo oggi così diffuso.
Oppure si apre ad altro da sé, ricerca, domanda e – nella misura incui gli si fa incontro – accetta Colui in compagnia del quale la vita può giungere alla pienezza sperata.
L’Eucarestia è questa Presenza – la presenza di Cristo che permane nella storia – che diventa alimento, nutrimento, sostegno, indipendentemente dal nostro stato d’animo e dai nostri sbagli.
E’ una Presenza che continua a essere offerta a ciascuno di noi, poveracci, perché possiamo camminare nella vita.
C’è il irischio di dimenticare questo primato della grazia che agisce in noi. (196)
Il rischio è enorme e continuo, perché nella mentalità comune l’ideale è l’uomo che si autoproduce.
La torre di Babele è un emblema di ciò a cui conduce il tentativo dell’uomo di costruire qualcosa di risolutivo con le proprie energie.
Penso in questo senso alle vicende del secolo scorso, ai vari tentativi, messi in atto per rivolusionare la storia, che si sono rivelati fallimentari, e in molti casi hanno finito per peggiorare la situazione che volevano cambiare.
Tanti miti sono crollati.
La Chiesa, con il suo ripartire sempre dalla grazia di Cristo, con il suo lasciarsi invadere e riempire da questa grazia oeprante, fa sì che gli uomini, anche se zoppicanti e peccatori, possano sempre rialzarsi, camminare.
La Chiesa permette che noi ci rimettiamo in corsa e costruiamo non più secondo certe pretese prometeiche, ma con la nuova energia sprigionata dalla grazia di Cristo.
Vorrei parlare del “metodo” del movimento, che è quello dell’incontro, cioè di una realtà che si incontra e che cambia la vita. Non vale però la pena di ricordare, a scanso di equivoci, che questo non è mai un automatismo? (197)
Nell’umano non c’è mai niente di automatico. La grandezza dell’io è nella libertà tanto che con tutta l’attrattiva che uno sperimenta, può sempre dire di no.
Quando dice sì è sempre attraverso la libertà.
Perciò don Giussani, agli studenti che stavano compiendo il passaggio dalla scuola superiore all’università diceva: «Aspettatevi un cammino, non un miracolo che eluda le vostre responsabilità, che elida la vostra fatica» che sembri rendere superflua la vostra libertà.
Spesso si sente usare l’espressione: un cristiano è libero dall’esito. che cosa significa? e’ d’accordo? (200)
Certamente.
E non perché l’esito non sia desiderabile, ma perchè l’esito che interessa alla nostra umanità c’è già, lo abbiamo già, ci è dato nell’incontro con Cristo.
E allora si può essere liberi dal resto, senza per questo essere indifferenti.
Il decimo lebbroso ha capito che la cosa più importante non era la guarigione, ma l’aver incontrato Uno che era in grado di portare la vita al suo autentico compimento.
Ricordo ancora come fosse oggi il giorno in cui a messa della mia parrocchia mi colpì moltissimo la lettura di questo brano. Mi colpì tantissimo perchè mi accorsi che io ero come gli altri 9 lebbrosi. Avevo tutto, vivevo in una situazione di bene ma non riuscivo ad esprimere nessuna gratitudine. (201)
Un ragazzo può attendere la soddisfazione di un giorno di festa, tanti adulti la attendono dal successo lavorativo, dai soldi, dal potere, dal prestigio.
Ma ci sno momenti di silenzio, o di calma, quando la confusione intorno scompare, in cui emerge con evidenza un senso di incompiutezza.
Ecco, il problema è che entri nella vita un avvenimento che possa dare a ogni giornata il senso del fine settimana (utilizzato qui come simbolo di espereinza di autentica pienezza).
Altrimenti dovremo sempre aspettare e rimandare tutto a domani che poi nn ci soddisferà, per quanto “forti” siano le esperienze che faremo: viaggi nei paesei esotici, sport estremi, adesso questo terribile gioco del selfie davanti al treno che arriva.
Riflettendo sul metodo e l’automatismosi può dire che uno viene aiutato a tenere viva una domanda perchè possa riaccadere, senza alcun automatismo, la capacità di stupirsi, la capacità di lasciarsi mettere in discussione, la capacità di lasciarsi affascinare e toccare il cuore dall’incontro con Cristo oggi. (203)
Niente può essere più conveniente per l’uomo di una presenza come quella della Chiesa.
Una presenza che ci ridesta incessantemente, che ci disincastra dagli ingranaggi opprimenti dei nostri pensieri o stati d’animo, riapre la porta della gabbia in cui ci rinchiudiamo, per rimetterci di nuovo in cammino, per farci ricominciare la grande avventura.
Nella Chiesa si rende sperimentabile una Presenza che abbraccia la nostra vita in tutta la sua incapacità, fragilità, debolezza.
Quando qualcuno perde il lavoro si uò ricominciare dalle proprie ceneri, dal proprio male, dal proprio sbaglio, dal proprio fallimento, dalla propria sconfitta, solo per una Presenza all’altezza del dramma umanno.
In Sua compagnia si può sempre ricominciare da capo.
Perché secondo lei papa Francesco parla così spesso del rischio pelagiano? (204)
Perché è una tentazione costante dell’uomo quella di pensare di bastare a sé stesso, di poggiare sui propri meriti, sulla propria capacità di riuscita.
Il pelagianesimo è la grande tentazione: per non dipendere dal rapporto con un altro, l’uomo cerca di poggiare su sé stesso.
Con tutti i suoi prometeici tentativi, con tutta la grande spinta che un uomo può dare alla sua vita, alla fine prevale la disperazione.
Se una persona consiste nella performance che riesce ad ottenere, come potrà evitare la rabbia, il disappunto, la delusione?.
La grande alternativa è che l’uomo consista in un rapporto.
Con tutta la sua tradizione farisaica alle spalle, San Paolo ha scelto di poggiare se stesso su Cristo.
Il fatto di Cristo lo ha a tal punto conq uistato che ha dovuto ripensare a tutto, e quello che prima stimava un guadagno lo ha considerato spazzatura.
Il modo di testimoniare la fede del papa è un’apertura a 360°, un magistero che passa attraverso i gesti e le immagini non soltanto attraverso le parole, come invece siamo abituati noi europei eredi di visioni i ntellettualistiche e dottrinalistiche. Quanto pesa l’intellettualismo e il dottrinalismo per noi europei? (206)
Più di quanto si pensi.
Francesco non comunica soltanto con le parole, ma anche con i gesti.
Ed è attraverso di essi che le persone più semplici, come anche gli intellettuali più lontani, sono immediatamente raggiunte e interpellate dalla novità cristiana.
Tante volte abbiamo cercato di comunicare definizioni invece che favorire la conquista nell’esperienza, del loro contenuto di verità.
Gesù doveva comunicare una novità che non poteva essere sempicemente spiegata: gli uomini non l’avrebbero capita se fosse stata soltanto spiegata.
Doveva prima essere esperienza. Solo a questa condizione le parole potevano acquistare tutto il loro spessore.
Le parole spiegavano i gesti e i gesti aiutavano a capire le parole.
Per comunicarsi nella sua novità, il cristianesimo deve essere in grado di spalancare la misurra della nostra mente, di generare una paertura più grande in chi lo riceve, deve essere cioè un avvenimento.
Non possiamo mettere vino nuovo in otri vecchi, vale a dire il cristianesimo non può essere ridotto a un intelettualismo o a un pelagianesimo, a un’etica, a una serie di pratiche, seppur buone.
Che ci sia uno come il papa che comunica al mondo la natura originale del fatto cristiano è un dono grande e prezioso per tutti, nessuno escluso.

