Crisi e possibilità della gioventù studentesca (148)
(Lezione tenuta alla XI settimana di spiritualità promossa dall’Università Cattolica del S. Cuore su «La gioventù attuale e i problemi della spiritualità», Vita e Pensiero 1961)
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Mai come oggi l’ambiente, inteso come clima mentale e modo di vita, ha avuto a disposizione strumenti di così dispotica invasione delle coscienze.
Oggi più che mai l’educatore, o il diseducatore, sovrano, è l’ambiente con tutte le forme espressive.
Perciò la crisi degli educatori si profila in primo luogo come inconsapevolezza che rende gli educatori stessi collaboratori magari incoscienti delle deficienze dell’ambiente.
La situazione critica della gioventù, mi pare che si possa ricondurre facilmente a due capi: assenza di reali convinzioni e assenza di eticità adeguata.
Assenza di convinzioni (149)
La responsabilità fondamentale dell’assenza di convinzioni si riduce al modo dell’insegnamento: il giovane non è sufficientemente aiutato a compiere l’esperienza tra il reale e la sua coscienza, fra la realtà e se stesso; il giovane non è sufficientemente aiutato a compiere l’esperienza della verità (Adaequatio rei et intellectus).
(A)
Innanzitutto
l’insegnamento non si cura di offrire aiuto per la scoperta di una ipotesi esplicativa unitaria.
La predominante analiticità dei programmi abbandona lo studente di fronte ad una eterogeneità di cose e a una contraddittorietà di soluzioni che lo lasciano, nella misura della sua sensibilità, sconcertato e avvilito d’incertezza.
Il giovane studente manca, normalmente, di una guida che lo aiuti a scoprire quel senso unitario delle cose, senza del quale egli vive una dissociazione, più o meno cosciente, ma sempre logorante.
Lo scetticismo, più o meno larvato, o clamoroso, diviene l’atmosfera dell’anima dello studente,
aura sottile e rabbrividente, o nei più sensitivi bufera dispersiva o tempesta che schianta.
Una delle ambiguità più nemiche del sereno e solido sviluppo della giovane coscienza, è la classica affermazione del laicismo contemporaneo che la visione unitaria, il significato sintetico, deve emergere spontaneamente allo spirito dell’individuo nel confronto, come dicono, libero e oggettivo.
Nulla a me pare più contrario al metodo oggettivo della natura la quale getta l’uomo nell’essere, nell’essere preciso in una positività perfettamente enucleata, e con questa precisa positività già enucleata lo fa incontrare e paragonare con il tutto.
È questa positività originale che si deve svolgere.
Quell’affermazione laicista mi pare gravemente ambigua, proprio perché un vero confronto esige una consapevolezza di sé, uno sviluppo intenso di quell’ipotesi originaria che ci costituisce.
Senza di questa, l’individuo non giudica per confronto, ma si abbandona ad una reazione:
non sceglie veramente, ma reagisce ad un’impressione e ne è prigioniero.
Qualsiasi ricerca deve svilupparsi da una ipotesi, e mentre questo è stato così ben scoperto per gli astri e le stelle viene invece spesso dimenticato per la natura umana.
L’accendersi di questa ipotesi è segno del genio; l’offrirla ai discepoli è l’umanità del maestro; l’aderirvi come a luce nell’avventura del proprio cammino è la prima intelligenza e la saggezza.
L’assenza di una ipotesi come criterio esplicativo unitario implica addirittura per noi insegnanti cristiani,
l’assenza della figura di Cristo come chiave di volta di tutto il reale.
(B)
L’insegnamento oggi, da un punto di vista educativo, manca per quel razionalismo di impostazione che dimentica l’importanza dell’impegno esistenziale come condizione inevitabile per una genuina esperienza di verità e quindi per una convinzione.
Non si può capire la realtà se non «ci si sta».
Anche l’evidenza più geniale non diviene convinzione, se l’«io» non familiarizza con l’oggetto, non gli dà del tempo, non convive con esso: cioè non lo ama.
Il razionalismo moderno dimentica o rinnega la fondamentale dipendenza dell’io, dimentica o rinnega la grande e originaria sorpresa che è l’evidenza che è l’accorgersi di una inesorabile presenza.
La mentalità moderna insegna, purtroppo, ai giovani a seguire le cose fino a una misura ad esse comunque gradita, e poi basta.
Per cui quella presenza è affrontata come spunto per affermare proprie preoccupazioni, propri schemi.
Ecco allora quella diffusa paura, quella strana incapacità nei giovani di affermare l’essere.
Questa paura di affermare l’essere sorge proprio da una mancato impegno con l’essere.
È naturale che i ragazzi si fermino subito, prima ancora di cominciare, se non sono aiutati ad aderire sinceramente all’esistenza.
Psicologicamente la convinzione sorge dalla scoperta che l’intelligenza propone come ipotesi unitaria, ma che l’amore verifica nella dedizione all’esistenza.
Perciò, per aiutare l’avvenimento della convinzione, un’educazione deve da una parte proporre chiaramente, decisamente, un unitario senso delle cose, e dall’altra instancabilmente spingere il giovane a confrontare con quel criterio ogni incontro,
ad impegnarsi cioè in una personale esperienza, in una verifica esistenziale.
Proviamo a pensare all’importanza enorme che tutto ciò deve avere per una convinzione religiosa.
Possiamo elencare allora alcune gravi manchevolezze che spesso si trovano nel cuore stesso della nostra educazione religiosa.
- Innanzitutto l’assenza di Cristo dall’incontro con le cose, con tutte le cose, in quanto la sua profonda pertinenza non viene neanche proposta. Il discepolo preferisce arzigogolare con l’intelletto anziché accettare il mistero.
- In secondo luogo: il voler comprendere prima di impegnarsi.
- In terzo luogo: l’incuria con cui si segue il cambiamento di una certa età nella quale le idee ricevuto, i gesti devotamente ripetuti, la discrezione obbediente, tutto deve diventare come una ipotesi sperimentata nelle esperienze nuove. Se il ragazzo non è aiutato a vedere la connessione tra il dato (la tradizione) e la vita, le sue esperienze creano le premesse perché egli assuma uno dei tre atteggiamenti nemici del cristianesimo:
- L’indifferenza per cui sente come astratto tutto ciò che entra in contato con l’esperienza
- Il tradizionalismo dove si rifugia la gente più buona
- L’ostilità perché un dio astratto è certamente un nemico.
Il metodo decisivo per impedire ad una certa età tali atteggiamenti, sta nella sperimentazione di ciò che è stato dato, e che deve essere posto a confronto con ogni cosa.
Assenza di eticità (154)
Evidentemente l’impostazione di ciò non è l’insegnamento, ma piuttosto l’imposizione che al richiamo morale danno le famiglie oppure gli ecclesiastici.
È soltanto nella famiglia o nella libera carità degli ecclesiastici che l’influsso della situazione ambientale può essere qualificato, limitato o addirittura cambiato.
- La parola «GESTO» appartiene solo all’uomo. È la moralità che rende gesto ogni azione dell’uomo. Perché? Perché l’uomo, nel suo agire, ha la coscienza del nesso che passa tra l’emergere della sua situazione contingente e l’ordine del tutto. La moralità è proprio ciò che stabilisce la posizione di un determinato momento dentro il «tutto» di cui fa parte. La prima condizione, quindi, perché una azione possa essere sollecitata in senso morale, è che la prospettiva in nome della quale essa viene compiuta sia grande come deve essere, sia totale, sia universale. Il giovane moralizza l’istante solo perché ama il tutto, e il desiderio di infinito gli farà segnare di eternità anche le quattro mura di una cella. La prima cosa che lasciamo troppo mancare è dunque proprio questa prospettiva universale come motivo di qualsiasi richiamo etico.
- Il vero concetto di tradizione è quello di rappresentare un valore universale da riscoprire in esperienze nuove. Chi deve compiere tale scoperta? L’adulto? Il padre? Il maestro? No, perché allora sarebbe tradizionalismo. L’esperienza deve farla il giovane, perché questo rappresenta la libertà – il rischio e il coraggio della libertà. E questo amore alla libertà fino al disprezzo del rischio non è soltanto una difficoltà enorme da parte del giovane, ma è soprattutto una preoccupazione che l’educazione deve imparare a superare.
- Il senso dell’universale genera inesorabilmente, il senso della comunità. La comunità è l’unità profonda che nasce dalla convivenza. La comunità è un modo di concepire le cose, è un modo di affrontare il problema dell’essere, come quello dello studio, della storia, dell’amore. È insomma un modo con cui mi accosto alle cose.
- Mancando il vero concetto o la vera esperienza di comunità, di carità, di convivenza, non si ha più il concetto di autorità. Sul piano naturale, l’autorità e l’esperienza dell’autorità è l’incontro con una esperienza evidentemente più forte della mia, nella quale io mi ritrovo, io scopro me stesso. L’autorità è allora la prova, la strada per l’universalità. L’autorità è in un certo senso il mio io più vero.
CONCLUSIONE
- Proporre Cristo come principio risolutore di ogni cosa.
- Impegnare i ragazzi in un fare cristiano, unico modo per verificare vitalmente la proposta che è Cristo.
- Ridestare prospettive di responsabilità universali, perché la prospettiva senza responsabilità è una astrazione.
- Instillare il profondo senso della comunità.
Uno sforzo educativo che rispetti queste direttive, offre immediatamente, per esperienza già fatta, risultati insperati.
È necessario però tener presente sempre che quanto più il male è umano, tanto più la terapia deve essere un tentativo umile, illuminato dalla speranza di un grazioso incontro con una forza e un ordine che non sono in nostro potere.
Le possibilità di ripresa, quindi, saranno date assai più da una penitenza per i nostri errori, che da nostre genialità innovatrici o profetiche scoperte.
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