L’educazione come comunicazione di sé (172)
«L’educazione non è una questione di strumenti che la comunità dà, ma è questione di verità di vita dell’individuo che ha la funzione dell’educatore».
Brousier nel suo volume Il senso della morte, conclude affermando:
«Solo la vita comunica la vita».
Se si paragona l’educazione alla vita, se ne facciamo un sinonimo di vita allora è proprio vero che solo la vita può comunicare la vita.
In questo titolo la parola da sottolineare è quella finale: «sé».
Si tratta dell’io umano, cioè di quella sete di infinito che ha un inevitabile impatto con la realtà, nel senso che è toccata, è provocata dalla banalità della circostanza.
Perciò l’attenzione alla circostanza diventa fondamentale, come è fondamentale la sete del destino, il rapporto con l’ideale.
Qui nasce l’idea di verifica: attraverso il suggerimento delle circostanze, il tentativo di creare un passo verso il proprio destino trova il paragone che lo giustifica oppure lo chiama a correzione.
L’io, come sete di infinito di fronte alla circostanza più irriducibile che si possa concepire, vale a dire: davanti ad un altro sé, ad un altro uomo, è eccitato ad amarne il destino così come si ama il proprio destino.
Perciò gli comunica la coscienza che ha della sua nobiltà.
Contagiare l’altro di sé.
Contagiare l’altro non è possibile se non nella libertà, nel rispetto della libertà dell’altro, e tale rispetto implica almeno due fattori fondamentali.
Il primo luogo la libertà dell’altro è sete di verità, perché la libertà è per prima cosa sete di verità e nasce come passione di ragione.
In secondo luogo la libertà dell’altro implica veramente il mistero, il mistero di contraddizione che noi non possiamo riassorbire.
C’è una contraddizione per cui uno vede e capisce che una cosa è bene ma non la fa, non la vuole, reagisce in senso contrario.
Ma ho tralasciato una parola per cui non sono solo al mondo, per cui qualsiasi uomo che incontro diventa parte di me: è la parola incontro.
L’educazione come comunicazione di sé è un incontro, è l’esito di un incontro.
Intervento – «Rileggendo “Viterbo ‘77” sono rimasto estremamente colpito come il discorso fatto in quell’occasione, proprio perché toccava la persona, toccasse anche me, che pure non faccio né l’educatore di professione né l’insegnante, come qualcosa di estremamente pertinente. La ripresa un po’ stentata all’invito fatto in quella occasione e ripetuto in questi ultimi tredici anni non dipende forse dall’aver messo a tema de «L’educazione come comunicazione di sé» una certa qual specificità dell’insegnante come educatore e non la persona stessa?» (174)
«L’educazione non è una questione di strumenti…»
Se non è una questione di strumenti, non è questione neanche del modo di gestire o di fare l’attore da parte dell’individuo che si chiama insegnante.
La sorgente di una comunicazione di vita, la comunicazione di un aiuto a sviluppare la vita, viene dalla mia vita, non dal mio essere insegnante.
Per questo anche uno che non è insegnante, leggendo «Viterbo», leggendo l’espressione di una simile posizione, un simile richiamo si sente implicato.
Se non parte da questo livello, l’educazione è tutta falsità.
Se non è volontà di comunicazione, di aiuto a vivere, a camminare verso il proprio destino, è l’affermarsi di un grande pretesto per poter sbarcare il lunario, per poter sfogare il proprio temperamento o per dominare l’altro.
È una realtà politica. insomma.
Parlando di un insegnante si parla di un essere umano che ama l’altro essere umano, come un compagno di cammino ama il compagno di cammino, di un cammino pericoloso: perciò ama molto, come quando si è in cordata insieme e si è legatissimi, non solo con la corda.
«Le generazioni precedenti comunicavano la propria cultura, iniziavano l’educazione con strumenti tecnici quasi inesistenti, mentre la nostra società ha strumenti comunicativi altamente sofisticati, ma on ha più cultura. Il totalitarismo è l’affermazione che la politica è la realtà. Può essere molto democratico o demagogico, ma lo stato totalitario si pretende la fonte della verità». (176)
Il totalitarismo identifica l’essere con sé stesso, con il proprio criterio, chi perciò non aderisce al suo contenuto è come un pazzo.
Il totalitarismo fissa che cosa è la verità.
Mentre il dispotismo è un abuso di potere, è rubare un diritto che hanno gli altri,
è entrare nel campo dei diritti altrui, il totalitarismo identifica la verità con il contenuto che esso stesso le da.
La cosa più grande che ho avuto nella vita è che mio padre e mia madre
mi hanno educato perché mi hanno voluto bene.
Voler bene significa aver coscienza che la vita ha un destino,
che la vita dell’altro ha un destino, lo stesso mio destino, e che allora siamo compagni di cammino.
«La comunicazione riguarda il proprio modo di rapportarsi con il reale, perché l’uomo è «una modalità vivente di rapporto con il reale». che cosa determina questa modalità, in quanto modo di rapportarsi con il reale? questo punto è veramente decisivo, perché fa cadere tutte le pretese e presunzioni di competenza o di tecnica: infatti un certo tipo di preparazione non surroga mai la modalità di colui che educa».(177)
Non c’è nessun tipo di preparazione che sia educativo per sé stesso.
Ciò che educa è l’atteggiamento in cui un insegnante dimostra la sua «modalità vivente di rapporto con il reale».
La prima coordinata riguarda direttamente l’insegnante.
La modalità religiosa con cui uno vive incide sul modo con cui impatta con il reale di cui deve trattare, di cui tratta: si impatta con la lealtà, con passione e con attenzione.
Il gesto che uno fa è inscritto inevitabilmente dentro un orizzonte che, con la coda dell’occhio, egli ha presente.
Così la modalità è definita dalla coscienza presente dell’orizzonte totale del vivere cui l’insegnante è abituato.
La religiosità dell’insegnante lo fa essere devoto, adoratore dell’oggetto, poiché l’oggetto che deve trattare è la circostanza in cui emerge contingentemente il mistero dell’essere.
Una seconda coordinata: non riguarda più il contenuto che l’insegnante deve comunicare, ma la persona a cui parla, lo scolaro, il discepolo, che è una persona fatta per lo stesso destino, per la stessa verità.
La passione per la comunicazione è sostenuta da tale considerazione:
è a una persona libera che noi ci rivolgiamo.
Debbo comunicare senza arrabbiarmi perché l’altro non capisce, poiché vuole essere distratto.
Si chiama pazienza il rispetto della libertà come possibilità di una contraddizione con il vero, che in qualche modo vige in ognuno di noi e quindi vige anche nei ragazzi che abbiamo davanti.
Significa che l’insegnamento è un paragone con l’infinito, l’infinito che emerge in una fattispecie provvisoria, ma che contiene una realtà permanente: la faccia del ragazzo.
L’insegnamento, da qualsiasi punto di vista lo si prenda, è sempre un paragone tra noi e l’infinito.
Non è concepibile a mio avviso, un insegnamento che non sia un atto di religiosità.
Invece la pazienza come virtù, questa sì è riassuntiva: senza coscienza dell’infinito, senza senso del destino, perché essere pazienti? Ma chi me lo fa fare, se non c’è speranza?
«Le osservazioni che don Giussani fa in proposito sono attraversate da una rischiosissima lama, da una oscillazione continua: da una parte esiste la possibilità che tutto degeneri in «espressioni di sé», il negativo dell’espressione di sé, cioè, secondo quanto detto: l’espressione di uno che, quando agisce, non ha rapporto cosciente con il destino, sta sospeso al filo della propria immaginazione di sé; dall’altra c’è invece la comunicazione di sé come compito. Questa esperienza si si comunica, per così dire, muta, come nella musica delle parole, e può essere percepita solo da un ascolto che, in All’origine della pretesa cristiana, è definito “morale“». (179)
Nell’Attimo fuggente l’insegnante comunicava per pressione osmotica, ma non c’era un’esperienza che comunicava, tanto è vero che non dava ragioni.
È la ragione, infatti che fonda la dignità dell’esperienza, e ne è l’ossatura.
Il cuore dell’esperienza è affettivo, ma la struttura dell’esperienza è data dalla ragione.
(Quell’insegnante) propalava un sogno.
Dico questo perché da qualche tempo continua a ritornarmi in mente la differenza tra sogno e memoria.
Il sogno è come un impeto di energia che in un modo affascinante si pone e velocemente si riassorbe e si dissolve.
Invece la memoria è tutta costituita di fatti del passato, che come tasselli si uniscono in un organismo che crea il presente.
Il presente è costruito tutto da tasselli del passato, ma li eccede, ha dentro qualcosa di eccedente la somma dei dati del passato, diventa un grido: è l’uomo che grida la sua felicità.
Il brano di realtà che si affronta e ogni modalità con cui si assume una responsabilità, sono parte di un compito, sono funzioni di un compito, che è unico, ed è quello di aiutare il proprio alunno a crescere verso il suo destino.
L’insegnamento come espressione di sé può dare l’intenso gusto dell’attore, il gusto dell’artista, e ognuno di noi conosce l’intensità di tale gusto.
Non che sia condannabile l’espressione di sé, ma non può essere la regola.
Anche l’espressione di sé deve diventare funzione del compito.
«C’è la tentazione di un tipo di potere: il potere sulle anime. È quel gusto anche inutile, di far dipendere le persone da sé».
«Che cosa fa sì che l’educazione incrementi, faciliti la libertà dell’altro come posizione di fronte alla realtà, salvaguardando autorità e autorevolezza? E qual è il nesso tra libertà e ragione? Cioè: come questo maturarsi della libertà fa capire di più la vita e la fa amare di più»? (181)
La tentazione del potere sulle anime è una tentazione che abbiamo proprio tutti. È la tentazione dei genitori.
Il potere sulle anime: possederli per il bene loro; strappare loro la libertà per assicurare la loro felicità.
Cristo è morto per lasciare la libertà a noi!
La libertà non è fare ciò che si decide di fare: la libertà è l’adesione all’infinito, la libertà è come dice il Senso religioso, l’adesione al destino, è la coincidenza con la felicità, è il possesso del fine, è l’essere realizzati.
La scelta è il segno di una libertà non ancora formulata, è una libertà in cammino, in divenire.
Quanto più prepotentemente si desidera la libertà dei nostri alunni, tanto più dolorosamente e miracolosamente si approfondisce il rispetto della loro decisione.
Non ci può essere per loro una felicità non scelta da loro.
Ma quello che ci placa, che proprio ci dà pace, è che c’è Uno, un altro, che li ha voluti, che ha stretto alleanza con loro.
Per questo voi avete un compito religioso, il compito supremo che un uomo può avere verso un altro uomo, verso la società.
«L’educazione non è una cosa da insegnanti», non è una cosa da insegnanti nel senso che è una cosa da uomini. In che modo l’insegnante deve adoperarsi perché non sia ulteriormente ricattato, anche nella scuola libera, dall’inquinamento statale della cultura? (183-4)
Non potete farlo se non insieme. E poi quando c’è un’azione da fare insieme, occorre un certo organismo, altrimenti diventa disordine.
Ci deve essere una guida, si deve fare insieme seguendo una guida che funge da ipotesi di lavoro, anche continuamente da cambiare.
Come contenuto deve essere valorizzata la parola tradizione.
Questa è la prima norma, senza della quale non c’è e non può nascere l’autorevolezza.
Senza fedeltà alla tradizione, il presente è falsato, il presente non ha contenuto e forza, il presente è già mancipio (proprietà) dei rivoluzionari, dei violenti.
La scuola libera è lo strumento più grande della libertà: non per nulla tutte le rivoluzioni vanno a finire nel cambiamento della scuola e della concezione scolastica.
La trincea della libertà è la scuola.
Bisogna avere il coraggio di lasciarsi guidare: l’autorità è il fattore che valorizza la totalità del passato.
L’autorevolezza è rendere ragione delle modalità con cui si definiscono le cose, ossia rendere ragione di ogni nostra posizione; rendere ragione della speranza che è in noi.
Rendere ragione non vuol dire persuadere,
perché il problema della persuasione è un problema della libertà dell’individuo, ma soprattutto della libertà di Dio.
Perciò la tentazione del potere sulle anime è evitabile nell’uso della autorità, come l’ho intesa – valorizzazione della tradizione totale, tutto ciò che Dio ha permesso nel mondo – e nell’autorevolezza: comunicazione della ragione per cui il significato dello sguardo sul passato, fino ad un istante fa, per me è speranza, cioè indica con certezza la felicità ultima, la positività dell’essere.
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