Realtà e giovinezza, la sfida

La famiglia, il luogo naturale (186)

(da «Litterae Communionis», gennaio 1987, pag. 16-19)


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Tutto è luogo di educazione all’appartenenza (186)

La persona è rapporto con l’essere, è appartenenza al mistero, è relazione con l’infinito.

Al di fuori di questa appartenenza al mistero la persona non capisce più sé stessa, cade in balìa di tutto.

Al di fuori dell’appartenenza al mistero, la comunità si riduce ad una sorta di agglomerato di individui isolati.

È solo l’appartenenza che stabilisce l’unità della persona; e infatti tutto è convogliato e fluisce verso un destino per cui siamo fatti.

«Se io accetto la mia dipendenza, è perché essa costituisce per me un mezzo per significare la mia domanda».

Roland Barthes in Frammenti di un discorso amoroso

La famiglia è il luogo dell’educazione all’appartenenza. (187)

In essa risulta evidente come la persona fluisca da un antecedente che la trama tutta.

È evidente che l’elemento fondamentale per lo sviluppo della persona sta nell’appartenenza reciproca, coniugata, di due fattori, l’uomo e la donna.

L’appartenenza vera è libertà.

Il primo aspetto della libertà è affermare un legame che passa attraverso il momento della responsabilità, momento strano, estraneo in un certo senso, perché è proprio l’imitazione dell’infinito, è il tocco del rapporto con l’infinito.

La famiglia dunque è il luogo dell’educazione all’appartenenza perché in essa risulta evidente che l’origine dell’uomo è una presenza già esistente e che il suo sviluppo è assicurato dall’appartenenza a due fattori: appartenenza «coniugata», legame plasmato nella responsabilità.


Una condizione fondamentale. (187)

Il «riflesso esemplare»: questa educazione all’appartenenza accade se la coscienza di appartenere ad un altro è trasparente nei genitori.

Quando nei genitori è trasparente la coscienza che il proprio io è appartenenza, questa coscienza passa ai figli, non attraverso dei discorsi ma attraverso una «pressione osmotica».

Io non mi faccio da me. Perciò in questo momento io sono qualcosa-d’altro-che-mi-fa.

Perciò dire «io» con totale consapevolezza è dire «tu».

Senza abbordare questa esperienza, è come se uno non potesse comprendere che cosa è pregare.

Non c’è niente di più stimolante e di più affascinante: il fatto che ci sono implica la bontà originale, fondamentale e ineludibile dell’Essere, e perciò l’aspetto di dono, di ricchezza positiva, che l’Essere è per tutto ciò cui dà la vita.

È dentro questa esperienza della gratuità che quella «pressione osmotica» di cui si è parlato prima, quel «riflesso esemplare» può avvenire.

Un’esperienza di gratuità che ha come due flessioni.

La prima è

la gratuità verso l’essere,

verso Dio; la gratitudine – si badi – verso Colui che dà la vita.

La seconda flessione è

lo stupore,

la meraviglia in cui si traduce e quasi si concreta il senso della gratuità ultima del rapporto tra l’uomo e la donna.

Se il rapporto tra i due è appesantito perché privo di gratuità, se fra l’uomo e la donna manca questa percezione di gratuità della presenza dell’uno e dell’altro, allora il «riflesso esemplare» tarda o viene meno.

Ma c’è un altro aspetto della gratuità:

è il senso del compito comune.

Senza la gratuità data dal senso del compito umano il rapporto non tiene, tutto si disfa come foglie, o diventa ubris, violenza.

Il compito infatti è il confluire di tutto verso il destino comune.


Quale atteggiamento occorre avere verso il figlio? (189)

Gratuità, la parola dominante, assolutamente non astratta, per la quale ci sopportiamo a vicenda e per la quale ancora un po’ godiamo della vita.

Si tratta innanzitutto di una gratitudine per la generazione, cioè l’accettazione completa che quel figlio appartenga a sé.

In secondo luogo della riconsegna del figlio all’Altro, di Ciò di cui il figlio è costituito e a cui appartiene in modo totale sì che questa appartenenza ne costituisca la personalità.

Insomma è l’atteggiamento di adesione da parte dei genitori a

ciò che costituisce la persona del figlio, il rapporto con l’Essere, con Dio.

Il figlio se ne va, è uguale dire: «il figlio cresce», tanto appartiene ad un Altro.

In questo processo l’atteggiamento originale di gratuità può vivere la separazione come occasione di riconoscimento del proprio figlio come qualcosa di diverso.

Il figlio diverso è proprio il segno che appartiene a un Altro.

Se invece questo processo non si segue con gratuità, nasce il rancore.

L’appartenenza del figlio al genitore è reclamata, recriminatoriamente, imprigionata dentro uno schema immaginato.


Il metodo per educare all’appartenenza. (190)

Il metodo che rappresenta tutto il processo educativo, si può riassumere in una parola: esperienza.

Che il figlio realizzi l’esperienza del proprio vivere, del proprio io.

Questa traiettoria educativa, che si chiama esperienza ha un dinamismo.

  1. La tradizione assimilata. Il primo aspetto dell’educazione è la proposta, e questa è la propria tradizione assimilata.
  2. Il condurre per mano, cioè l’introduzione in una realtà concreta che il figlio possa assimilare.
  3. L’ipotesi di lavoro. Si tratta di un lavoro umano, perciò si intende una ipotesi di significato. È la tradizione come ragione: una tradizione non solo assimilata, ma assimilata nelle sue ragioni, senso e valori.
  4. Il rischio. Che aumenta, che è destinato ad aumentare sempre. L’ipotesi di lavoro come significato, deve essere offerto e realizzato con delicatezza, o con discrezione verso la libertà che si evolve, verso la responsabilità del figlio.
  5. La compagnia stabile, cioè fedeltà. Quindi compagnia stabile ai figli, fedeltà ad essi, discreta, sempre pronta ad intervenire, vigilante. Compagnia fino al perdono, infinito.

La compagnia fino al perdono, infinito


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