Realtà e giovinezza, la sfida

Un luogo dove dire “io” con verità (31)

(Incontro con gli studenti di Comunione e Liberazione, Rimini, 13 settembre 1992)


Indice linkato dei singoli paragrafi

  1. Punto di fuga
  2. Desiderio di felicità
  3. Dire «io»
  4. Fedeltà al cuore
  5. Come vincere la paura
  6. L’avvenimento di Cristo
  7. Avvenimento presente
  8. Siamo un popolo
  9. I due orfani

(Ascoltando un disco in cui …) Tito Schipa con voce potente e piena di vibrazioni ha incominciato a cantare un’aria del quarto atto de La Favorita di Donizetti: «Spirto gentil de’ sogni miei, brillasti un dì ma ti perdei. Fuggi dal cor lontana speme, larve d’amor fuggite insieme».

Dalla prima nota a me è venuto un brivido.

Che cosa significasse quel brivido l’avrei capito lentamente con gli anni che passavano;

solo il tempo, infatti, fa capire che cosa è il seme,

come dice l’omonima, bella canzone, e cosa ha dentro.

Uno può capire cos’è un seme se ne ha già visto lo sviluppo; ma la prima volta che vede il seme non può capire che cosa contenga.

Io, in quella prima liceo, nel canto di Tito Schipa avevo proprio percepito il brivido di qualche cosa che mancava; qualcosa che mancava non al canto bellissimo della romanza di Donizetti, ma alla mia vita: qualcosa che mancava e che non avrebbe trovato soddisfazione, appoggio, compiutezza, risposta, da nessuna parte.


Punto di fuga (32)

Questo era appena appena adombrato e trattenuto dentro nell’inconsapevole brivido che ho provato.

Ma quando l’anno dopo, il mio bravissimo professore di filosofia ci lesse Leopardi, avvenne un passaggio di conferma improvvisa che dilatava l’impressione che avevo ricevuto da La Favorita di Puccini.

Mi ricordo la lettura della poesia Ad Aspasia di Leopardi, dove il poeta rivolgendosi alle tante donne di cui si era innamorato – dice (cito parafrasando):

«Non è la tua faccia che io desidero, è qualcosa che sta dentro la tua faccia, non è il tuo corpo che io desidero, ma qualcosa di cui il corpo è segno, che sta dietro di te, e io non so arrivarvi».

È come se – e qui l’idea mi fu chiara – ciò che afferriamo con la mano bramosa non lo potessimo stringere, perché il confine di ciò che afferriamo ci sfugge.

C’è come dire un punto di fuga, c’è qualcosa che sfonda l’oggetto che afferriamo, per cui non lo prendiamo mai a sufficienza e per cui c’è sempre come un’intollerabile ingiustizia, che cerchiamo di celare a noi stessi, distraendoci.

Il buttarsi nell’istinto è il modo più bieco di chiudersi a questa apertura che tutte le cose reclamano, cui tutte le cose spingono.


Desiderio di felicità (33)

La dignità dell’io vero è la parola felicità.

C’è una cosa più densa da sperimentare, più intensa da provare, che la parola «felicità» detta sul serio?

C’è un solo luogo dove la parola «felicità» è detta sul serio.

Forse che il cibo o il vestito vale più della vita?


Dire “io” (34)

Che cos’è, dunque, questo «qualcosa» che vale più del cibo, più del vestito. Io!

Uno che dice «io».

Togliete la parola «io» dall’universo, che cosa rimane? Una cappa, un’oscurità totale, un senza-senso, solo per un filo distinto dal puro niente.

Questa è la grandezza dell’uomo: la parola felicità può essere pronunciata, può essere sentita, presentita, desiderata, vissuta solo dall’io.


Fedeltà al cuore (34)

Ecco perché rimane un solo luogo dove la parola «felicità» e, perciò, la parola «io» è presa sul serio; è presa sul serio più che da noi stessi.

Questo luogo si chiama «religione», autentica religiosità.

Non è religiosità autentica se non è definita dalla serietà con cui si usa la parola «felicità»; e non c’è religiosità autentica se non si prende sul serio la parola «io».

Dice una preghiera del rito ambrosiano:

«Custodisci sopra ogni cosa il tuo cuore [Il cuore è l’io in quanto esigenza di felicità]; fluisce dal cuore la vita».

Il cuore è quel fenomeno della natura in cui la natura arriva a dire «io».

Il cuore è questo seme; esso è costituito da una sola cosa, da una sola carne, da una sola materia: esigenza di felicità.

Tale esigenza è presa sul serio solo nella Chiesa di Cristo.

Dobbiamo essere fedeli al cuore del nostro io, perché è dal cuore che nasce il gusto della vita e la fecondità, la produttività della vita.

Essere fedeli al cuore, perché dal cuore fluisce la vita, è la cosa più grande che ci tocca.

La fedeltà è a qualcosa che già c’è, dunque al cuore.

Il cuore: o tu non lo guardi perché sei stordito, o se lo guardi, capisci che è esigenza di felicità.

La fedeltà a quello che per natura sentiamo è un segno di intelligenza (comprendere quello che c’è) e di amore (aderire a quel che c’è).


Come vincere la paura? (36)

A questo punto c’è un passaggio da compiere.

Come faremo a vincere il panico e la paura?

Viviamo in mezzo ad un guazzabuglio di richiami e di parole: appena un giornale parla di una certa cosa, tutti parlano della stessa cosa e tutta la gente che legge pensa la stessa cosa.

Che razza di mortorio, di cimitero di umanità è la vita di oggi!

Infatti nessuno più costruisce.

Non dando più una goccia del nostro sangue per la loro vita, anche noi cadremo, in un modo o nell’altro, nella stessa situazione; è una legge inevitabile questo concatenamento di cause della storia.


L’avvenimento di Cristo (37)

Chi dunque ci darà sicurezza e certezza?

(A questo punto Giussani fa il racconto dell’uomo che arriva in un immenso cantiere dove si cerca di costruire il ponte tra il punto in cui siamo e l’Eterno e dice che Lui è destino).

L’uomo dice: «Io sono il Destino a cui voi cercate di arrivare con le vostre costruzioni di pensiero, con i vostri ponti di mille e mille archi.

Abbandonate tutta la vostra fatica, tanto nobile quanto inutile.

Abbandonate questa vostra fatica e seguitemi, venite con me! Io vi dico la strada perché io sono la via, la verità e la vita».

C'è stato un momento della storia in cui un uomo ha detto proprio così.

Così è accaduta l’avvenimento più grande della storia.

La parola «avvenimento» indica qualcosa che accade; se accade è una cosa nuova, una cosa nuova in senso assoluto.

Quanto più uno ha vivo il senso religioso, tanto più percepisce la distanza dall’Infinito e non pretende di essere l’Infinito.

Questa è invece la pretesa di quell'Uomo.


Avvenimento presente (38)

Quell’avvenimento deve essere presente.

Disse infatti Cristo: «Io sarò con Voi tutti i giorni fino alla fine del mondo»

Matteo 28,20

Quell’avvenimento sta fino a quando il mondo ci sarà e non ci sarà possibilità per nessuno di eliminarlo.

Noi siamo definiti dal nostro desiderio di felicità, siamo affrontati continuamente dalla insoddisfazione, per cui la vita sembrerebbe non valer la pena di essere vissuta, invece non si può rendere zero quello che c’è.

Rendere zero quello che c’è è contro ragione, contro natura, contro tutto.

Quello che dobbiamo chiederci è: «Dove sei? Dove sei ora?».

Voi teoricamente sapete bene la risposta: la «compagnia»; ma occorre la stessa fatica che serve per rendere seria la parola «io».

Cristo è dentro la compagnia di coloro che lo hanno udito e gli hanno detto «sì», lo riconoscono e sono insieme perché c’è Lui.


Siamo un popolo (39)

Tra noi c’è una unità più grande di quella che avevo con mio padre, mia madre, mio fratello e le mie sorelle;

una unità per cui il tuo Destino, amico, è desiderato con la stessa identica passione con cui desidero il mio.

In questa unità di compagnia, Colui che ha detto: «Io sono la via, la verità e la vita», c’è, sta; e sta per sempre, fino alla fine del mondo.

Ognuno è chiamato a far nascere questo popolo, a dilatare questa compagnia, a comunicarla agli altri.

Ognuno è chiamato a questo perché la gente, che è sempre sola anche quando impazzisce nelle feste, trovi la pietà di una fraternità, trovi un amore.

Siamo dunque costruttori di popolo innanzitutto per pietà verso gli uomini, per pietà verso coloro che incontriamo e poi per la passione, per una stima appassionata verso quell’Uomo dal cui avvenimento tutto è nato e che starà fino alla fine della storia: per la gloria di Cristo perché Cristo sia conosciuto.

Più che l’attaccamento a me stesso e più che l’attaccamento dell’uno all’altro tra di noi, siamo invitati ad essere dominati dall’attaccamento a Cristo, Dio fatto uomo.

Là dove c’è una compagnia di gente che sta insieme perché c’è Lui, Lui è realmente presente.

Questo diventa il compito della vita.

È questa la vita che diventa missione, la vita che diventa compito da svolgere.


I due orfani (41)

Impotenti e soli.

Impotenti (perciò pieni di paura per tutto) e soli (perciò sull’orlo di ricadere nel niente).

È una situazione descritta in un poemetto di Pascoli: I due orfani.

(Nell’episodio dei due orfani di Pascoli è espressa la impotenza e la incapacità di creare e di costruire).

Impotenza, incapacità di costruire con certezza.

Oppure solitudine, quando uno sta solo senza amore o, che è peggio, con il male fatto.

La nostra compagnia è l’opposto di questo; dobbiamo dilatarla, ci è stata data per dilatarla.

C’è una missione da compiere: bisogna portare questa umanità piena di creatività e di compagnia, piena di amore e di perdono a tutto il mondo, a tutta la gente che troviamo in scuola e fuori scuola, a tutti.

La vita è come una ondata positiva senza freno, che arriva al bordo ultimo delle cose finite, che è l’orizzonte oltre i quale, come soglia,si spalanca l’immortalità, ciò per cui siamo nati.


Indice linkato generale dei capitoli