Perchè il cuore viva (54)
(esercizi spirituali degli universitari di CL 12/12/1992)
Lo stupore di un incontro veramente personale, hai detto, non si traforma in stabilità e in fecondità se non attraverso un sacrificio, che è distacco e distanza dentro un possesso. vorrei fosse più chiaro che cos’è il sacrificio. (54)
Con la parola “sacrificio” si indica una modalità che sembra far perdere qualcosa.
Ma il sacrificio, come tale, non fa perdere: è una paradossale condizione per mantenere.
Se mi domandi perché il sacrificio ci sia, non c’è risposta eccetto questa: è un dato di fatto che con il sacrificio una cosa la possiedi meglio, in modo stabile e fecondo; senza il sacrificio la possiedi peggio, cioè la perdi.
Dio per rendere felice l’umanità per salvare l’uomo, è morto in croce.
È morto! Ci ha persi? No. Ci ha guadagnati!
Così un padre e una madre verso il figlio: senza rinunciare a certi risultati immediati, sconforterebbero la familiarità, la fiducia, l’apertura del figlio, lo farebbero “arrabbiare”.
Il sacrificio ha uno scopo positivo.
Il sacrificio per il sacrificio è una cosa irrazionale, in quanto è positivo lo scopo del sacrificio.
Si tratta di una lontananza o un distacco per avere quello che si desidera in modo vero o più vero.
Comunque sia il sacrificio è una condizione. Non si può spiegare.
Perché l’uomo è fatto così e ha certe determinazioni? Perché è fatto così! Analogamente il sacrificio è una condizione per il bene dell’uomo.
Dio stesso muore per noi, muore per noi, cioè ci perde. Per averci è come se ci perdesse.
La gente, sotto la croce gli lanciava la sfida.
Ha ottenuto il suo scopo non facendo quello che gli chiedevano, pur potendo farlo.
Ma tra amici o tra ragazzo e ragazza – Dio mio – come è evidente che il rapporto matura soltanto a prezzo di “mandar giù”, di saper tacere, saper rimandare, aderire al tempo dell’altro!
A proposito della moralità hai detto che quanto più uno è cosciente della propria debolezza, tanto più non si chiude, ma mendica la verità e quindi domanda. Io invece spesso mi chiudo in me stesso. (55)
Se riconosci veramente che una cosa è giusta per te e la desideri per te, è contro ragione, è irrazionale chiuderti per la difficoltà che senti in te:
fatti aiutare!
Quanto più sei teso a una cosa come giusta, quanto più desideri una cosa, tanto più la tua impotenza non solo non ti chiude, ma ti spalanca più vivacemente a domandare aiuto.
Ritirarmi malinconicamente in me stesso è una posizione irrazionale, disumana.
Perciò quando hai la tentazione di ritirarti datti un “colpetto”; anche se fai fatica, anche se ti ripugna, parla, cioè grida.
Chiedere aiuto non è un’umiliazione, è una completezza di sguardo,
di giudizio e di affettività, è una completezza del giudizio razionale, del giudizio positivo che dai sulla cosa, e dell’affettività verso di essa.
Chiedere aiuto di un altro ti compie, non ti avvilisce.
Questa mattina hai parlato di “appartenenza” e di “emozione” in contrapposizione. Ma che cosa è l’emozione? Dicevi anche che l’emozione porta alla solitudine, e ti chiedo: ciò che nasce da noi porta sempre alla solitudine? (56)
Quello che nasce da noi non porta alla solitudine solo se si tratta di qualcosa che nasce da noi secondo il disegno e il progetto di cui siamo fatti.
Da noi nasce il desiderio di essere aiutati, per cui dico all’altro: “aiutami”.
Invece quell’emozione che porta al vuoto fa svanire la nostra consistenza e non porta alcuna produttività, è una reazione, una reazione che non è funzionale al progetto che siamo, a cose cioè che abbiamo ricevute da ciò cui deriviamo, da ciò cui apparteniamo.
Un bambino cresce appartenendo a sua madre e suo padre: quanto più appartiene veramente e vive veramente l’appartenenza a suo padre e sua madre, tanto più cresce.
Se vi abbandonate alla vostra reattività, a quello che vi viene voglia di fare, non crescete.
Perciò vivere l’appartenenza, fa crescere.
L’appartenenza è ciò da cui deriviamo, da cui abbiamo l’organico progetto del nostro sviluppo.
L’organico progetto del nostro sviluppo è contenuto nel seme iniziale, il disegno per cui siamo fatti.
Tu hai detto che il rapporto tra uomo e donna diventa il paradigma di ogni tipo di compagnia. Come è possibile l’appartenenza all’altro come segno dell’appartenenza al Mistero senza ricadere nella menzogna? (57)
Siamo in un rapporto giusto con una persona quando ci ricordiamo e rispettiamo il fatto che quella persona ha un destino.
Guardare l’altro nella prospettiva del suo destino.
Questa è la dignità dell’altro, dignità che non ha il cane o l’animale e non ha qualsiasi altra cosa: la dignità dell’altro è nel suo destino.
L’altro non può essere considerato totalmente mio.
C’è qualcosa che mi eccede nel rapporto che ho con lui: se rispetto questa eccedenza, l’altro si sente trattato meglio, l’amicizia ha più possibilità di attecchire e l’aiuto vicendevole diventa più immediato.
Tanto più che il destino comune lo abbiamo riconosciuto, ce ne è stata data notizia: il destino comune è tra di noi, Egli ci ha riuniti, siamo riuniti nel Suo nome.
Stamattina lei ha detto: «Per poter domandare occorre appoggiarsi sulla misericordia». In che senso? (58)
Per poter domandare devi essere certo che l’altro abbia simpatia verso di te, che l’altro ti sia amico.
Così come sono, come fa ad essermi amico Dio? Come fai Tu, o Cristo, a sopportarmi, tanto da corrispondermi, da rispondermi – se Ti domando è perché aspetto la risposta?
E’ perché sei misericordioso, hai una tenerezza verso di me come io non ho verso me stesso.
Tutto quello che ci diciamo del rapporto con Cristo e con Dio ha una analogia nel rapporto tra il bambino e i suoi genitori, che è il primo modo con cui il Mistero dell’essere si comunica alla nostra vita.
Che cosa significa che il rapporto con Dio determina il mio io? E, secondo, perché tristezza e letizia convivono? (59)
Quanto più vivi l’appartenenza tanto più cresci.
È un altro modo per dire che non ci facciamo da soli, nasciamo da «qualcosa».
Quanto più io ho rapporto con questo “qualcosa” da cui nasco, quanto più lo ricevo, lo guardo, lo amo, lo abbraccio, lo accetto, tanto più sono:
quanto più accetto tanto più sono.
Prima non c’eravamo, ci siamo, a un certo punto esistiamo.
Quanto più appartengo e quanto più questa appartenenza è consapevole, fedele, continua, stabile, tanto più è ricco il mio io.
Questa non è la felicità – e qui c’è la risposta alla seconda domanda – ma può essere contentezza, letizia – la letizia non è la felicità – o pace:
perché la pace è il bene del cammino, così come la felicità è il bene della dimora ultima, del destino.
Tu hai detto che bisogna rispondere alla realtà, aderire agli stimoli positivi della realtà; ma se la realtà è negativa che stimoli positivi mi può dare? (60)
Un avvenimento, quanto più è grave per noi, tanto più ci sollecita, ci urge ad aggrapparci, come giudizio e affettivamente, alla sicurezza suprema che abbiamo: la sicurezza suprema è il Destino, ciò da cui traiamo origine, ciò cui apparteniamo.
Se tu nel fare una casa trovi un terreno instabile, vai più sotto, scavi più sotto per trovare il fondamento, e sul fondamento giusto costruisci.
Perciò, chi ha vissuto il dolore della vita, se l’ha accettato, è perché dal dolore si è fatto condurre più sotto, nella profondità più vera del cuore.
E così risulta un uomo a cui uno ricorre con più fiducia, che gli altri che lo conoscono stimano, ha una figura, una faccia più potente, ha un viso più umano.
Qualsiasi impatto con la realtà non ha altro scopo che sollecitarci a una più profonda conoscenza, coscienza e affezione a ciò da cui deriviamo e, perciò, al nostro Destino.
Qualsiasi impatto con la realtà è destinato così a rendere più energica, più ricca, la nostra personalità.
Qual è la differenza tra il “sentimento”, che è il passo per andare incontro alla realtà, e la “emozione”, che è uno slancio nel vuoto? (61)
Il passo per andare incontro alla realtà non è il sentimento; il sentimento è lo stato d’animo che subentra al passo che tu fai verso la realtà.
Il passo che fai verso la realtà si chiama “ragione” come origine e «volonta’» come attuazione.
Il “sentimento” è lo stato d’animo che si sviluppa e accompagna il tuo giudizio e la tua libera scelta della realtà.
Mentre la “emozione” è una reazione senza motivo adeguato, senza scopo adeguato, è pura reazione.
Quanto più tu vivi consapevolmente il contatto con la realtà, tanto più il sentimento della realtà diventa grande in te perché il sentimento, come dice il senso religioso, è lo stato d’animo che subentra a ogni gesto della tua ragione e a ogni gesto del tuo amore, della tua affettività, della tua libertà.
Ho paura di spersonalizzarmi vivendo l’esperienza di una compagnia. (62)
È “compagnia” perché ti aiuta nella consapevolezza di te e nel fare quel che è giusto.
Altrimenti non è compagnia, ma è una realtà nemica: è estraneità.
Vuol dire che non gli interessa niente del tuo destino, dei desideri che ti sospingono verso la “grande scadenza”, e perciò ti è ostile.
La compagnia è tale – e si definisce come tale – proprio per il fatto che
ti aiuta a camminare, a comprenderti e a camminare, altrimenti non è compagnia.
E vi aggiungo il termine “vocazione” – compagnia vocazionale.
Non è compagnia se disperde la tua personalità.
E ciò può accadere o perché gli altri, in fondo, ti sono estranei, o perché tu pretendi da loro quello che non ti possono dare.
Qual è il limite fra l’emozione e il sentimento? E come è possibile capire il legame tra l’emozione e la solitudine? (63)
L’emozione che favorisce un’ultima solitudine e un’ultima inanità, un ultimo smarrimento, un ultimo vuoto, è quella reazione, dettata da un impatto con la realtà che non è sollecitazione alla ragione e non è sollecitazione alla gratuità, alla capacità effettiva.
Quel tremore dell’animo che ti viene senza che vi corrisponda una ragione adeguata, senza che vi corrisponda una possibilità di comportamento e di azione, proporzionata al Destino, è qualcosa che ti centrifuga, è qualcosa che ti svuota: alla fine resti svuotata e tristissima.
Perciò la parola emozione non necessariamente e sempre è negativa.
L’emozione può essere un modo con cui la realtà ti chiama a un certo giudizio.
L’uomo è quel livello della realtà in cui la realtà diventa cosciente di sé stessa.
E diventa cosciente pienamente di sè stessa quando si accorge di essere un dinamismo teso ad un destino di compimento, di felicità.
Non mi è chiaro il passaggio dalla prima caratteristica (la mancanza di coscienza) alla seconda (la mancanza di moralità). In che senso la seconda è una conseguenza della prima? (64)
Che cosa abbiamo detto della prima caratteristica, la mancanza di coscienza?
Mancanza del nesso fra ciò che si fa e la realtà nel suo orizzonte
L’assenza di moralità come l’abbiamo definita?
Come l’assenza di responsabilità di fronte a tutto e a tutti.
Vale a dire: nel tuo modo di agire non tieni conto del rapporto che c’è tra la tua azione e l’esigenza, l’utilità del tutto, rimanendo chiuso in te stesso, egoista.
All'azione sei sollecitato per essere utile alla totalità, utile al disegno totale.
Perciò la seconda caratteristica dipende dalla prima: se non hai coscienza del nesso, come fai, nell’agire, a essere responsabile verso la totalità?
Non è automatica quindi la responsabilità?
Non è automatica nel senso che, senza coscienza del nesso, tu sei irresponsabile automaticamente.
Ha detto che, per sua natura, la misericordia è infinita. Però contemporaneamente hai parlato di una misericordia finita di un genitore e quindi dei genitori. Non è contraddizione? Non riesco a concepire come un genitore, che è il mezzo per il quale mi trovo su questa terra, possa avere una misericordia “finita”. (64/65)
Ha una misericordia finita nel senso che
il partecipare dell’uomo all’infinito è sempre finito.
Un genitore è misericordioso per natura fino a un certo punto.
La partecipazione all’infinito non può essere infinita: è finita.
Ora questa è la sorpresa del messaggio cristiano:
che l’uomo piccolo, finito, se accetta il Mistero e vi aderisce con la sua libertà, è chiamato a partecipare all’Infinito direttamente.
C’è una infinitezza di destino sproporzionata a quello che siamo naturalmente.
Stamattina hai citato la frase di Kafka: «Anche se la salvezza non viene, voglio vivere in un modo tale da esserne degno ogni istante». Hai definito questo atteggiamento insufficiente perché non si piega alla domanda del vero. (65)
Il desiderio del vero non può non diventare domanda, se è desiderio autentico.
La domanda inevitabilmente consegue un desiderio autentico.
Se il desiderio non si compie in domanda, non è un desiderio vero. Sotteso alla frase di Kafka c’è questo giudizio secondo me: «Non può essere vero».
Hai detto che non bisogna desiderare “prevenendo” la realtà; diversamente il desiderio si imporrebbe alla realtà. Lo vorrei capire concretamente. (66)
È una frase di Abelardo:
«Non bisogna prevenire la realtà col desiderio»,
nel senso che non puoi andare alla realtà con l’immagine di ciò che deve accadere, perché sarebbe un tentativo di importi alla realtà.
Altra cosa invece è andare alla realtà colmi di desiderio.
Ora, quanto più vai incontro alla realtà con un grande cuore, ardente, con esigenze consapevoli e vive, tanto più vai con ricchezza, una ricchezza che ti permetterà di accettare la realtà per quello che ti dà.
Se ti dà poco, valorizzerai quel poco, se ti dà tanto valorizzerai quel tanto, non pretenderai da essa.
Si chiama vocazione: indica la modalità esistente, storica, con cui Iddio chiama te, svolgendo quello che ti ha dato in rapporto alla realtà in cui ti fa imbattere.
È lui che stabilisce come l’impatto deve avvenire e qual è la risposta che questo impatto ti dà.
Rispetto alla mia vita avverto che tutto, a partire dalla mia famiglia, spinge a che la realizzazione di me sia nel possedere quante più cose possibili, come la laurea oppure i soldi. […] uno tende ad affidare la felicità di sé alla realizzazione di questi obbiettivi. Come è possibile evitarlo? (67)
È possibile evitare un equivoco usando della propria ragione.
La ragione identifica dove sta il bene, il vero.
Tutta la spinta a un certo possesso, ad una identificazione della tua contentezza con un certo possesso – che non è vero perché una volta raggiunto quel possesso, sei da capo, hai altri lamenti da tirar fuori.
Perciò il modo per evitare questo inconveniente grave, in cui la nostra vita si affossa e si intristisce ….è usare l’intelligenza, la quale ha come suo compito proprio quello di percepire e di riconoscere i valori reali, veri, e l’affettività, che è l’energia per escludere ciò che tentano di importi o che tenderesti a far prevalere come reattività, come emozione tua, e per aderire invece a ciò che è più vero, più nobile, più dignitoso, più realmente costitutivo della tua crescita, più corrispondente alla tua personalità di essere umano.
Usa intelligenza e libertà.
Senza una compagnia non si può prolungare la domanda, non si può confermare l’intelligenza, non si può scoprire il vero, non si può aumentare la contentezza dell’affezione.
È nella compagnia che il cammino si snoda.
È miserabile l’uomo senza una intelligenza del vero che si sviluppi e senza una affettività lieta che si sviluppi.
La compagnia è la strada.
Per questo Dio ci ha fissato una compagnia, una compagnia vocazionale, una compagnia al destino.
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