Libro “Generare tracce nella storia del mondo” di don Luigi Giussani
Capitolo terzo
IL POPOLO NUOVO nella STORIA per la GLORIA di CRISTO (137)
Links ai singoli titoli e sottotitoli
- Un protagonista nuovo nella storia
- Per la gloria umana di Cristo
- Un popolo continuamente disfatto e ricostruito
- Missione ed ecumenismo. La cultura nuova
- Entrare nella totalità della realtà
1 – Un PROTAGONISTA NUOVO nella STORIA
Un avvenimento dà inizio a un popolo facendo emergere un legame stabile di appartenenza tra le persone fino a quel momento estranee, così come l’avvenimento di un bambino dà inizio compiuto ad una famiglia.
La vita di un popolo è determinata da un ideale comune, da un valore per cui vale la pena esistere, faticare, soffrire se necessario, anche morire: da un comune ideale per cui valga la pena tutto.
«Il popolo è l’insieme degli esseri ragionevoli associato alla concorde comunione delle cose che ama»
sant’agostino (de civitate dei)
In secondo luogo, la vita di un popolo è determinata dalla identificazione degli strumenti e dei metodi adeguati a raggiungere l’ideale riconosciuto, affrontando i bisogni e le sfide che emergono viva via nelle circostanze storiche.
E, terzo, essa è determinata dalla fedeltà vicendevole in cui uno aiuta l’altro nel cammino verso la realizzazione di quell’ideale.
Per questo senza amicizia, cioè senza affermazione gratuita e reciproca del comune destino, non c’è popolo.
Il popolo ebraico può essere il simbolo di tutti i popoli.
Il popolo ebraico è nato da un avvenimento nella storia.
In misteriosa continuità con questa storia, nasce da Cristo il Popolo nuovo, che si rende visibile per le strade di Gerusalemme e sotto il portico di Salomone.
L’idea di appartenenza, di essere proprietà di Dio, che definiva l’autocoscienza del popolo ebraico, si ritrova come contenuto della coscienza di primi cristiani.
Tuttavia, l’appartenenza alla Chiesa comporta una bruciane novità: i cristiani sono il Popolo di Dio, ma il criterio di appartenenza a esso non è più stabilito da una origine etnica o da una unità sociologica.
Il nuovo Popolo è formato da coloro che Dio HA SCELTO e ha messo insieme nella accettazione del suo Figlio, morto e risorto.
La legge generativa e dinamica di questo popolo è l’ELEZIONE.
L’essere mandati è inerente all’essere scelti attraverso il fatto del Battesimo.
Non si può concepire un discepolo di Cristo, un battezzato, se non per la missione.
Si nasce e si è battezzati per la missione, LA GRAZIA dell’incontro e l’educazione dell’APPARTENENZA ci sono date per MISSIONE.
Dal «sì» di Pietro inizia un Popolo nuovo: «Pasci il mio gregge» (141)
Il «sì» di Simone è l’inizio di un rapporto nuovo della singola persona con tutta la realtà.
E’ l’inizio di un rapporto nuovo non solo tra la singola persona e Gesù, ma di un rapporto nuovo che investe tutta la realtà: cambia aspetto il rapporto tra l’uomo e la donna, tra i genitori e i figli, cambiano aspetto le regole di educazione; cambia il modo di guardare il cielo e la terra, di alzarsi al mattino o di andare a letto alla sera; diventa diverso il modo di andare al lavoro, di affrontare la pesantezza di una incongruenza, di un dubbio che viene, di un interrogativo che grava sul cuore; diventa diverso l’atteggiamento davanti alla morte e davanti a una vita che nasce.
Pietro, garante della unità del Popolo nuovo nella storia, assicura la permanenza della novità che Cristo ha introdotto nel mondo per sostenere la speranza degli uomini.
Attraverso il perdono e una attività inesausta (143)
Perché il «sì» di Pietro produca una nuova umanità, un popolo nuovo, [ … ] la condizione è che esso si esalti, si appoggi, costruisca sul perdono, accettandolo.
ACCETTARE IL PERDONO è forse la cosa più difficile, anche se rimane semplicissima.
Il padre e la madre di fronte al bambino piccolo, perdonano continuamente, debbono perdonarlo continuamente perché cresca.
E NON CI SARA’ MAI FINE A QUESTO PERDONO, anzi dovrà aumentare con il tempo che passa.
Allora diventa abituale lo svegliarsi al mattino e dire l’Angelus, offrendo la giornata con la coscienza che la propria debolezza, negli errori che si commetteranno quel giorno, è già perdonata.
Il Popolo nuovo nasce da questo perdono e da questa attività inesausta, attività non pagata dalla sua costruzione (perché «riesce»).
Non c’entra nessuna misura qui, né riuscire né non riuscire.
Dentro il perdono, appoggiati al perdono, si riprende da capo mille volte al giorno.
Il popolo di Dio, uno e molteplice, incide nella storia (145)
Il «sì» di Simone a Cristo comporta un inizio di mondo nuovo che si documenta visibilmente nell’unità tra coloro che Lo riconoscono.
L’unità di gente che Lo riconosce in un determinato ambiente, in quanto legata alla comunione di tutti coloro che credono in Cristo presente, incide sulla società, come presente, e sulla storia, come continuità della società.
Difesa della vita del popolo e aiuto vicendevole (147)
La tenerezza verso Cristo ci fa diventare protagonisti nuovi nella società fino alla politica e nella storia fino alla creazione di una civiltà.
I cristiani sono uomini che, riconoscendosi in compagnia, in amicizia, vivono una lotta nel tendere tutto di sé verso lo scopo della vita come ideale comune del popolo.
Per essi, in tempi in cui, come Eliot, «gli uomini hanno dimenticato tutti gli dei, salvo l’Usura, la Lussuria e il Potere», questi dei valgono meno della tensione per l’ideale.
L’Avvenimento che, di colpo, unisce quelli che vi si imbattono e lo accettano, esprime il suo principio di unità innanzitutto come principio di SUSSIDIARITA’ realizzata: ognuno aiuta l’altro, ognuno cerca di compiere quello che manca all’altro.
E’ una sussidiarietà concreta, possibilmente quotidiana, come facilitazione alla vita e come difesa dal nemico che minaccia la vita del popolo.
Questo nemico è il «mondo», vale a dire la realtà umana quando programmaticamente si concepisce contro ogni riferimento a Cristo.
La coscienza di essere scelti per partecipare alla costruzione del regno di Dio infonde un’onda nuova nel cuore, per cui il sentimento amoroso – attraverso quella strettoia tremenda che è la croce, sacrificio – diventa autentica carità vicendevole.
Vivere questo è collaborare alla pace e, quindi, alla laboriosità, alla consolazione della vita, alla percezione di essa come carica di significato, in attesa che si compia il suo significato finale.
Nella realizzazione di questi scopi si esaurisce il senso del popolo; si esaurisce per l’eternità, cioè per vivere l’eterno dentro l’attività normale.
La nostra responsabilità è quella di essere amici secondo un incontro fatto, e questa amicizia non può non incidere sui rapporti che si stabiliscono in famiglia, sul lavoro, nella vita sociale e politica.
Un punto di svolta decisivo in quella storia più antica si ebbe quando uomini e donne di buona volontà si distolsero dal compito di puntellare l’imperium romano e smisero di identificare la continuazione della civiltà e della comunità morale con la conservazione di tale imperium.
Il compito che invece si prefissero fu la costruzione di nuove forme di comunità entro cui la vita morale potesse essere sostenuta, in modo che sia la civiltà sia la morale avessero la possibilità di sopravvivere all’epoca di incipiente barbarie e di oscurità, alla dissoluzione dello Stato, alla corruzione della società.
A:MacIntyre – Dopo la virtù
Così nascono comunità umane nuove che sono la sola possibilità di superare la desolazione di tanta società moderna:
….«Il risveglio del popolo cristiano verso una maggiore coscienza di Chiesa, costruendo comunità vive in cui la sequela di Cristo si rende concreta: questa è l’unica risposta adeguata alla cultura secolarista che minaccia i principi cristiani e i valori morali della società»
GPII
Tale minaccia investe sopratutto due cose: in primo luogo, l’anticipo di felicità dell’uomo, che si chiama con termine biblico «eredità», e l’attesa certa di essa che compone e definisce l’uomo vero; in secondo luogo, l’esistenza del popolo.
2 – PER LA GLORIA DI CRISTO (150)
Noi lottiamo perla gloria di Cristo nel tempo, nella storia.
Il pericolo mortale oggi nella Chiesa è infatti l’astrattezza (anche nel dire «Cristo»); e su una parola astratta si possono fare discorsi possibili e immaginabili.
Ciò che vince l’astrattezza è solo il presente: il presente è il vero oggetto della conoscenza.
«Il nome “Colui che è” significa essere nel presente, e questo corrisponde nel modo più assolutamente proprio a Dio, il cui essere non conosce né passato né futuro»
san Tommaso – Summa
Un uomo di 2000 anni fa non può essere presente qui: se è presente qui è Dio!
Questa è la glorificazione di Cristo.
Riconosco un presente che è dominante, determinante.
Questa è la gloria di Cristo: il rendersi tangibile, sperimentabile, del Suo essere qui e ora il significato di tutto.
Se qualcosa restasse fuori da Cristo, Egli non sarebbe niente, perché non ne sarebbe il Signore.
Non esiste niente, al di fuori della passione per la gloria umana di Cristo, che possa con un minimo di stabilità e di equilibrio dare gioia al cuore; e questa gioia diventa la testimonianza della sua gloria.
La gioia piena non coincide con il realizzarsi di un progetto di egemonia nel mondo, secondo analisi o valori determinati dall’uomo.
Da quarant’anni in questa lotta (155)
Mai seguendo un’altra via per quarant’anni!
Sempre in lotta, nella coscienza ogni giorno più lucida della propria debolezza, del proprio limite umano.
«Lotta» è la nostra parola.
La vita come ascesi, come dramma, come lotta per il bene, è introdotta nel mondo solo da Cristo.
Tutte le altre concezioni sono, poco o tanto, deterministiche.
Abbiamo ricordato il quarantesimo degli inizi del movimento con questa frase:
«Man mano che maturiamo siamo noi stessi spettacolo e, Dio lo voglia, anche agli altri. Spettacolo, cioè, di limite e di tradimento e, perciò, di umiliazione, e nello stesso tempo di sicurezza inesauribile nella forza della grazia che ci viene donata e rinnovata ogni mattino. Da qui viene quella baldanza ingenua che ci caratterizza, per la quale ogni giorno della nostra vita è concepito come una offerta a dio, perché la Chiesa esista dentro i nostri corpi e le nostre anime, attraverso la materialità della nostra esistenza».
Siamo ben consapevoli della nostra fragilità umana, che ci accomuna a tutti gli uomini,ma anche della certezza in Cristo.
3 – UN POPOLO CONTINUAMENTE DISFATTO E RICOSTRUITO (157)
C’è un nemico del Popolo, dall’inizio alla fine del mondo: Satana, ovvero la menzogna e la discordia.
L’odio del mondo a Cristo (157)
Lo incontriamo tutti i giorni, Egli intercetta la nostra strada e ci dice: «Amico!».
Ma, accanto a qualche commosso riconoscimento c’è oggi una ostilità a Lui che non c’è mai stata.
E’ una ostilità così generalizzata, alimentata e prodotta sistematicamente, così sostenuta teoricamente, che il nostro adattamento a essa, quotidianamente, senza che ce ne accorgiamo, è il segno della nostra distrazione.
Per la prima volta da quando Gesù è venuto, il mondo non è più cristiano.
Parlare di un odio verso Gesù non è una esagerazione.
E’ uno dei temi più addolorati e gridati da Gesù nell’ultimo discorso prima di morire.
Questo odio qualifica la storia umana: è come il risultato permanente che la ferita misteriosa del peccato originale lascia nel tempo umano.
Esso si articola e diventa concreto giorno per giorno, attraverso tutti i poteri, come possibilità enormemente cattiva e menzognera
L’odio a Lui è il tema necessario per ogni potere.
L’ultimo capillare di questo odio a Cristo è il nostro io, dimentico e indifferente.
Il rifiuto comincia lì, la dimenticanza è generata e coltivata lì, l’assenza e l’inospitalità si induriscono lì: in noi, in me.
Per essere non cristiani non è necessario ammazzare o andare contro tutti i dieci comandamenti di colpo; è l’assenza di Cristo che rende tali.
L’assenza di Cristo è l’assenza della sua vita.
Un popolo ricostruito (163)
Il popolo di Israele torna dall’esilio per ricostituirsi, contro ogni prevedibilità umana.
Questo popolo disfatto, distrutto, in esilio, è fatto ritornare «Al di là di ogni prevedibilità», non perché esso ne abbia fatto il progetto.
La presenza profetica di questo popolo ha avuto il suo compimento definitivo in Cristo e continua indefettibilmente nel mistero della Chiesa.
E’ la Chiesa infatti in grande soggetto della continua epopea umana, per la creazione di quella che Giovanni Paolo II ha chiamato «la civiltà della verità e dell’amore».
Questo spiega la nostra preferenza culturale per il grande movimento benedettino che ha creato la civiltà medioevale.
Fu la fatica disciplinata e incessante dei monaci che arrestò la marcia della barbarie nell’Europa occidentale e che rese di nuovo alla coltura terre che erano state abbandonate e spopolate al tempo delle invasioni. […] Uomini silenziosi […] affaticando i loro occhi e concentrando la loro mente per copiare e ricopiare penosamente i manoscritti ch’essi avevano salvato. Nessuno di loro protestava, nessuno si lamentava, nessuno attirava l’attenzione su ciò che faceva; ma poco per volta i boschi paludosi divenivano eremitaggio, casa religiosa, masseria, abbazia, villaggio, seminario, scuola e infine atta.
Christoper Dawson
4. MISSIONE ED ECUMENISMO (167)
Il popolo nuovo, costituito dagli eletti nel Battesimo, partecipa, come abbiamo detto, alla missione di Cristo.
Vivere per un Altro indica la genesi di una cultura nuova: non vivere più per sé stessi, ma per colui che è morto e risorto per noi.
Anche noi “mandati” dal Padre
Anche noi cristiani siamo chiamati a essere come Gesù, i mandati dal Padre.
Ma ancor più profondo, più enigmatico e nello stesso tempo più attraente è per noi il cuore del Mistero come definizione della nostra persona.
Il Mistero non è soltanto l’origine e lo scopo ultimo, ma gioca anche nell’ontologia, nelle strutture portanti, nelle direttive e nei criteri agenti della nostra persona.
Cosa vuol dire per noi questo mistero di appartenenza alla missione di Cristo, di cui il Padre ci fa partecipi affinché il suo scopo venga attuato?
Struggimento per la memoria dell’amore di Cristo (169)
«L’amore di Cristo ci strugge al pensiero che, se uno è morto per tutti, è morto perché tutti non vivano più per sé stessi, ma per Colui che è morto e risuscitato per loro.»
Paolo – 2 Cor 5, 14-15
Lo struggimento segnala il cambiamento radicale del contenuto dell’autocoscienza.
E’ il passaggio a un altro contenuto di autocoscienza, in cui invece dell’io, c’è un Tu.
Si potrebbe anche dire che lo struggimento di cui parla san Paolo è il dramma di una “dimenticanza” di sé, di un “annullamento di sé“, di una metanoia reale che giunge a porre come contenuto dell’autocoscienza, invece dell’io, il Tu.
Nella missione si compie l’offerta di sé a Cristo, nel suo Popolo vivente che è la Chiesa.
E’ tale offerta che si chiama obbedienza.
Perché gli uomini vivano non più per sé stessi ma per Cristo, occorre l’obbedienza.
L’obbedienza esistenzializza il summum ius: il culmine del diritto di Dio sulla nostra vita.
E’ la vita del cristiano in quanto dimostra questa obbedienza che “testimonia” il Signore.
Un cultura nuova (171)
Da che cosa è caratterizzata la dinamica culturale dell’avvenimento cristiano?
L’uomo non vive più per sé stesso, ma per un Tu.
E’ un uomo nuovo: «Il mio io sei Tu», io sono un altro presente.
La cultura nuova indica il «PER CHI» della genesi nuova.
Il «per chi» è completamente cambiato: non è più per sé stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per noi.
Chi non vive più per sé ma per il Tu di Dio risulta infatti essere non un io egocentrico, ma un io che afferma la gratuità del Mistero creatore, che appartiene in tutto all’unità che trae origine dal Battesimo, unità di sé e unità con gli altri.
Sorge così una comunionalità reale che inizia e si dilata come soggetto intero della società, del mondo, della storia dell’uomo, e dell’universo intero: la Chiesa come corpo di Cristo.
Non conformatevi alla mentalità di questo mondo (173)
[a pag. 172 “Lettera ai cristiani di Occidente” di Josef Zverina]
La cultura è appunto un modo di vedere, di percepire, di giudicare, cioè di valutare e di decidere riguardo a tutto.
La cultura nuova è una visione del mondo – dall’io all’eterno – che parte da un incontro fatto, da un avvenimento cui si partecipa, dall’imbattersi in una Presenza, non dai libri che si leggono o da idee che si sentono.
Zverina commentando il brano della Lettera ai romani sottolinea che «non conformarsi» significa letteralmente «non assumere gli schemi del mondo», non assumere il punto di vista da cui il mondo guarda le cose, le giudica, e le valuta.
La cultura non è uno schema vuoto quando il suo inizio è qualcosa che ci è accaduto e da cui non si possono distogliere gli occhi, una realtà vivente unica.
«Vi esorto dunque fratelli a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale»
Rm 12,1
Se riflettiamo sulla nostra esperienza ci accorgiamo invece di come, spesso, tende a prevalere un egocentrismo che decide da sé i fatti costitutivi dell’Avvenimento cui diciamo di appartenere e che non nasce da noi: in luogo dell’obbedienza si impone l’affermazione di ciò che pensiamo noi.
E’ una estraneità all’avvenimento cristiano che si introduce, con la pretesa che essa sia essenziale alla definizione dell’avvenimento stesso.
Lo sforzo dell’uomo, dopo il peccato originale, consisterebbe nel far sì che Dio non c’entri con l’hic et nunc, rimandandone l’azione alla sua venuta finale.
L’escatologismo distrae quindi dalla responsabilità storica. Perciò l’escatologia non può che identificarsi con il puro fideismo.
Invece, per chi vi appartiene,cioè per il battezzato, la formula suprema dello svolgimento dell’Avvenimento di Cristo è l’hic et nunc, definito dalle circostanze di spazio e tempo.
Ecumenismo (170)
Questa concezione nuova e totalizzante della realtà si è sviluppata fin dai primi secoli cristiani all’interno dell’esperienza della Chiesa percepita come oikumene.
Il termine cristiano che bene esprime l’originalità e lo sviluppo culturale nella totalità dei suoi fattori è «Ecumenismo», assunto nella sua originaria derivazione etimologica da oikumene.
Con esso si vuole indicare che lo sguardo cristiano vibra di un impeto che lo rende capace di esaltare tutto il bene che c’è in tutto ciò che incontra, in quanto glielo fa riconoscere partecipe di quel disegno la cui attuazione sarà compiuta nell’eternità e che in Cristo ci è stato rivelato.
L’ecumenismo parte dall’avvenimento di Cristo, che è l’avvenimento della verità di tutto ciò che è, di tutto il tempo e lo spazio, della storia.
L’ecumenismo non è una tolleranza generica che può lasciare ancora estraneo l’altro, ma è un amore alla verità che è presente, fosse anche un frammento, in chiunque.
Nulla è escluso da questo abbraccio positivo: tale universalità è il risultato della missionarietà implicata nella scelta che Dio fa del battezzato e nel destino per cui lo sceglie.
L’avvenimento di Cristo è la vera sorgente dell’atteggiamento critico, in quanto esso non significa trovare i limiti delle cose, ma sorprenderne il valore.
Perciò non si può essere veramente critici se non si è pacificati da un amore che ci possiede e che possediamo.
La valorizzazione del poco o del tanto di bene che c’è in tutte le cose impegna a creare una nuova civiltà, ad amare una nuova costruzione: così nasce una cultura nuova.
Si sottolinea il positivo, pur nel suo limite, e si abbandona tutto il resto alla misericordia del Padre.
Il mondo è stato conquistato al cristianesimo ultimamente da questa parola riassuntiva: «misericordia».
CHI INVECE è ATTACCATO a una identificazione parziale,ALLA “SUA VERITA'”, non può non stare di fronte a tutto DIFENDENDO QUELLO CHE LUI DICE.
Spesso coloro che guidano i popoli e hanno responsabilità a vario titolo, se sono pieni di buon senso, favoriscono un certo ecumenismo perché hanno il terrore della guerra e della violenza.
Così sembra che il mettersi insieme tentando di rispettare ognuno il volto dell’altro possa rappresentare la realizzazione della pace.
Ma questa non è pace, è un equivoco.
Essa risulta essere – nel migliore dei casi – tolleranza, cioè, radicalmente, indifferenza.
Questo “ecumenismo”, inteso come confraternita dei vari tentativi filantropici per costruire il mondo, si rivela come il principale nemico dell’identità cristiana.
Esso, infatti, nel migliore dei casi è un tentativo di tolleranza dove ognuno è attento ai suoi interessi e degli altri prende ciò che gli conviene.
L’ecumenismo vero scopre sempre cose nuove, così che non c’è mai una totale ripetizione: si è trascinati da un totalizzante stupore del bello.
Questa apertura fa trovare a casa propria presso chiunque conservi un brandello di verità, a proprio agio dovunque.
E’ il concetto di cattolicità non geograficamente inteso (come lo è stato a partire dal cinquecento in poi), ma ontologicamente definito dal vero.
Non è possibile trovare un’altra cultura che definisca con un abbraccio così unitario, potente e senza residui, qualsiasi cosa.
Amor, amore, omne cosa conclama
Jacopone da todi
5 – ENTRARE nella TOTALITA’ della REALTA’ (186)
Da questa concezione di cultura e di ecumenismo nasce la necessità di una educazione totalmente diversa.
Che significa educare? (186)
Educare significa aiutare l’animo dell’uomo a entrare nella totalità della realtà.
(Educare) consiste nel fatto che la ragione è coscienza della realtà, emergente nell’esperienza, secondo la totalità dei fattori.
[ …] per questo l‘uomo si deve sempre sentire, sinceramente e umilmente, in ricerca.
Quanto più viva ed umile è questa ricerca, tanto più intelligente sarà anche il risultato, perché l’uomo implicherà nel suo impegno, nella sua opera tutto ciò che trova di positivo e di consentaneo.
Educare è aiutare a capire i fattori della realtà nel loro moltiplicarsi secondo fino a una totalità che resta sempre il vero orizzonte della propria azione.
Questo orizzonte più grande deve presiedere a ogni attività dell’uomo, altrimenti l’attività stessa è coartata, come gestione del reale e, quindi, come offerta alla società e utilità per tutti.
Educare significa mantenere viva questa ricerca di “altro“.
L’orizzonte per cui l’uomo si muove, qualsiasi cosa faccia, è infatti l’infinito.
Un’ azione, qualsiasi azione (san Paolo dice: «il mangiare e il bere», il «vegliare», il «dormire», che semplicità fino quasi a raggiungere il nulla; il vivere e il morire), è per la gloria umana di Cristo.
Educare alla libertà (189)
Non si può educare se non rivolgendosi alla libertà, impegnandola alla responsabilità e all’azione.
La libertà definisce l’io: è già tutta presente quando l’uomo dice «io», è tutta in questo dire «io».
Ma la libertà è anche ciò a cui si deve educare.
Se la libertà è assenza di legami, allora vuol dire, per esempio, che il rapporto con la donna è alla mia mercé e viceversa.
Oppure si pensa alla libertà come fare quel che pare e piace.
No! La libertà non è questo.
Sperimentalmente, anche psicologicamente, l’uomo si sente libero, veramente libero, non quando fa quello che gli pare e piace, ma, più acutamente, quando è soddisfatto, quando una cosa lo soddisfa, lo compie.
Che cosa può bastare all’anima? Solo il rapporto con l’infinito!
Quando l’uomo diventa «misura di tutte le cose», quello che non sa misurare è come se non ci fosse.
La libertà è quel livello della natura in cui la natura diventa capace di rapporto con l’infinito, dice «Tu» a questa ineffabile, incomprensibile, inimmaginabile presenza senza la quale non è concepibile nulla, perché nulla si fa da sé.
Non c’è nessuna evidenza più imponente di questa.
L’aspetto più vivo della percezione del mio esistere è che non mi faccio da me: non mi do neanche un capello del capo, come diceva Gesù.
La libertà vera è dunque la capacità che l’uomo ha di aderire all’essere: non solo di decidere, ma di approvare l’essere e di aderirvi.
Nasce così un connubio, uno sposalizio profondo, come concezione del rapporto fra l’io e tutto ciò che lo circonda, fra l’io e tutto l’universo: è una immagine sponsale universale.
La libertà infatti ci rende più attenti a ogni richiamo e a ogni correzione, nel senso etimologico sottolineato (reggersi insieme).
Quanto più uno ama la perfezione nella realtà delle cose, quanto più ama la società per cui realizza la sua opera, di qualunque genere, tanto più è per lui desiderabile essere perfezionato dalla correzione.
E’ questa la povertà nel possedere le cose, che rende l’uomo attore, artefice e protagonista.
Come tutto è correggibile, così tutto deve essere creabile nella obbedienza a Dio.
Quest’istinto creatore è ciò che qualifica la libertà in modo ancor più positivo e sperimentalmente affascinante: una società è fatta dall’imporsi di questa creatività di cui la libertà dell’uomo è capace.
Educare alla vita sociale (193)
Una educazione alla vita sociale implica quattro punti:
a) Il lavoro e le opere
La compagnia cristiana ci educa a entrare nella realtà totale attraverso la manipolazione della realtà stessa, attraverso il lavoro (il lavoro della casalinga e della madre con il bambino, del grande manager o di chi detiene il potere più corposo e copioso).
Per il cristianesimo, il lavoro umano è il lento inizio di un dominio dell’uomo sulle cose, di un governo cui egli aspira realizzando l’immagine di Dio, il «Il Signore».
Proprio attraverso il lavoro la realtà viene modulata e modellata dall’uomo.
La comunità cristiana, con la grazia operante dello Spirito, collabora al compito della redenzione mediante il lavoro, che diventa così espansione del Mistero della salvezza in ogni momento e attività, nel contesto della propria personale funzione e situazione.
La stima del lavoro rende intollerabile il fatto che altri non possano lavorare, perché l’educazione alla libertà è astratta se un uomo non ha un lavoro da imparare e da svolgere.
Un uomo conosce sé stesso solo in azione, durante l’azione, mentre è in azione.
Perciò se la vita non ha lavoro, l’uomo conosce meno se stesso, tende a smarrire il senso del vivere.
Abbiamo detto che la libertà, non la semplice possibilità di scelta, è esigenza e desiderio dell’infinito, tensione all’infinito.
I bisogni quotidiani ci sollecitano ai passi verso il destino: così il bisogno della cosa particolare è la modalità con cui l’infinito ci tocca, facendoci reagire.
L’origine dell’opera è il tentativo di rispondere sistematicamente, secondo l’immagine suggerita dall’ideale, a un bisogno che urge la propria vita nell’ora, nella giornata.
Ma come non si può nascere e non si può vivere da soli, così non si può rispondere al proprio bisogno se non in compagnia, con l’aiuto di una compagnia.
E’ una cosa grande che il lavoro per un’opera, destinata a rispondere al bisogno del singolo, sia caratterizzato da questa socialità ultima della propria presenza nel mondo e, quindi, dalla necessità della compagnia.
Le caratteristiche di opere generate da una responsabilità autentica devono essere realismo e prudenza.
Il realismo è connesso con il fatto che la verità è l’adeguarsi dell’intelletto alla realtà; mentre la prudenza si misura sulla verità della cosa, ancora prima che sull’aspetto etico di bontà.
In questa libera e creativa socialità si radicano la forza e la durata della responsabilità personale anche di fronte al potere.
La responsabilità personale si salva e si afferma nel riconosciuto primato della società di fronte allo stato.
Attraverso la creazione di opere e aggregazioni, il movimento totale della persona realizza le comunità intermedie, le quali esprimono la libertà dei singoli potenziata dalla forma associativa.
b) La libertà di educazione (197)
La libertà ha la sua espressione privilegiata nel poter educare.
«Fuori dalla libertà non può esserci cultura»
Giovanni paolo ii “La vera cultura e lo sviluppo dell’uomo
Il processo educativo è un rischio proprio in quanto si gioca tutto sulla libertà di chi educa e sulla libertà di chi viene educato.
Per poter educare alla libertà deve esserci la possibilità di educare liberamente.
La preoccupazione educativa è certamente il più grande segno di volontà di dono e di passione amorosa per l’uomo.
L’educazione la cultura che nascono libere, devono a anche diffondersi in un regime di libertà.
c) La giustizia (198)
«E’ ovvio, infatti, che in nome di una presunta giustizia (ad esempio storica o di classe) talvolta si annienta il prossimo, lo si uccide, lo si priva della libertà, lo si spoglia di elementari diritti umani»
Giovanni paolo ii in “Dives in misericordia“
Perché ci sia la pace nella vita sociale occorre una giustizia che sia attivata seriamente e lealmente, rispettando innanzitutto quei diritti del singolo, della persona, che hanno caratterizzato la storia della giurisprudenza nella civiltà.
La civiltà c’è quando la giurisprudenza rispetta queste esigenze originali e irriducibili che non possono essere sacrificate da nessuna norma e da nessun potere.
Per una vera giustizia non basta la buona volontà dell’uomo, la sua coerenza.
Chi è capace di essere coerente? Nessuno!.
La perfezione, infatti, non è l’esito di una coerenza.
Il perfezionarsi, anche per la giustizia, nasce dal rapporto con il destino fatto uomo, con un «Tu» vivente e presente nella complessità delle vicende umane.
d) La vita politica (200)
L’uomo ha a che fare con il potere.
In tendiamo per «potere» quello che Romano Guardini in un suo libro indica come fattore di definizione dello scopo comune e di organizzazione delle cose necessarie per il suo raggiungimento.
Ora, o il potere è determinato dalla volontà di servire la creatura di Dio nel suo evolversi (di servire cioè l’uomo, la cultura e la prassi che ne deriva), oppure esso tende a ridurre la realtà umana a ciò che ha preventivamente deciso come propria immagine dell’evoluzione del reale e della storia […] quindi tende a ridurre l’uomo come dice la Gaudium et Spes, a «pezzo di materia o cittadino anonimo della città terrena».
Il potere deve cercare di governare i desideri dell’uomo:
il desiderio infatti è l’emblema della libertà, perché esprime l’apertura originale dell’uomo all’orizzonte della totalità.
il problema del potere è quello di assicurarsi il massimo di consenso da una massa sempre più condizionata nelle sue esigenze.
Così i mass media, veicolo principale della cultura secolarizzata, diventano strumenti per l’induzione accanita di determinati desideri e per l’obliterazione o l’estromissione di altri:
i desideri dell’uomo, e quindi i valori, subiscono un essenziale e sistematica riduzione.
La conseguenza di tutto ciò è la grande «OMOLOGAZIONE» di cui parla Pasolini.
Il potere diventa prepotenza di fronte a un’impotenza perseguita attraverso la sistematica riduzione dei desideri, delle esigenze e dei valori .
Nell’appiattimento del desiderio ha origine lo smarrimento dei giovani e il cinismo degli adulti.
E nella ASTENIA generale qual’è l’alternativa?
Un VOLONTARISMO senza respiro e senza orizzonte, senza genialità e senza spazio di libertà.
Un MORALISMO di appoggio allo stato inteso come ultima fonte di consistenza per il flusso umano nella storia.
Al contrario, politica vera è quella che difende una novità di vita nel presente, capace di modificare anche l’assetto del potere.
La politica deve perciò decidere se «favorire» la società esclusivamente come strumento di manipolazione da parte dello Stato, come oggetto del suo potere, o se favorire uno stato che sia veramente laico, cioè al servizio della vita sociale secondo il concetto tomistico di «bene comune», ripreso vigorosamente e costantemente dal Magistero della Chiesa.
Abbiamo notato che un popolo si forma attraverso un avvenimento particolare, accaduto nel tempo, ed è unito da un ideale che esso persegue.
Altrimenti non si ha un popolo, ma un gregge.
E la tentazione più grande di chi detiene il potere è rendere il popolo gregge.
Un politica che sia preoccupata di una posizione ideale stabilisce invece un’onda educativa, realizzando un respiro maggiore di libertà per tutti, perciò una maggiore creatività e fantasia.
Bisogna che la politica sia fatta da gente che ha veramente interesse per l’uomo.
Questo è un dovere che incide sulla scelta di chi ci deve rappresentare.
La caratteristica del popolo nuovo nato dall’Avvenimento di Cristo è, nell’affrontare le circostanze quotidiane, nei tentativi, nei rischi e nei sacrifici che ciò comporta, una gratuità che cerca di imitare la sovrabbondanza e al grazia con cui Cristo è venuto ed è rimasto tra noi.
Una gratuità che è fonte di letizia, dentro ai sacrifici, alle contraddizioni e al dolore.
«Renderò evidente la mia presenza nella letizia dei loro cuori»
Messale ambrosiano
L’avvenimento di Cristo c’entra con l’adesso, tanto che lo cambia efficacemente.
Il dovere supremo di chi ha la fede, del protagonista della storia di questo popolo nuovo, è proprio quello di dimostrare, di testimoniare la verità dell’avvenimento di Cristo attraverso una letizia che permane anche nelle circostanze peggiori della vita, la letizia essendo il paragone eccezionale, vertiginoso, di un cambiamento avvenuto, così da rivelare una ontologia nuova.
