1983 Esercizi Spirituali «APPARTENENZA E MORALITA’»

Esercizi di don Giussani 1983


RICERCA per anno dei riassunti degli Esercizi di don Giussani

1982838485 868788899091929394 959697 9899


Indice linkato dei vari momenti


OMELIA (116)

A noi è stata data la fede come impegno della vita, come senso e orizzonte della vita.

Per noi la fede è vita. Che Grazia!

Ma negli atteggiamenti di fronte al mondo, nei rapporti personali, quanta dimenticanza!

La sua luce, la luce della fede, l’energia della fede è come se non riuscisse a penetrare l’oscurità o l’ottusità della nostra anima, del nostro cuore.

Per questo una grazia si è aggiunta alla grazia: alla grazia della fede si è aggiunta in noi LA GRAZIA DELLA NOSTRA COMPAGNIA, la quale – ed è una cosa mirabile – non ha che uno scopo, quello ci richiamarci continuamente alla fede come vita.

Di non lasciarci abbandonati alla nostra distrazione, di non lasciarci fuorviati dalla nostre interpretazioni e dai nostri progetti, di non lasciarci stremati e resi solitari dalla nostra debolezza.

Ma anche nella compagnia che Lui ci dà perché siamo sostenuti giorno per giorno, possono entrare, anche lì, il disprezzo o il lamento, possono dominarvi l’invidia e la gelosia, la parzialità, l’emarginazione, il disinteresse.

Preghiamo umilmente Cristo che strappi dal nostro cuore la zizzania amara delle meschinità più solite, quelle che ci dividono, e che dividono l’uomo dalla donna che il Signore gli ha messo insieme, che dividono i fratelli dai fratelli che il Signore ha messo insieme, che dividono la nostra grande e bella compagnia, che dal Signore ha avuto e ha questo compito di essere l’ultimo tocco della grande madre Chiesa al nostro spirito, al nostro cuore.

Come è grande riconoscere e poter dire tutti insieme che la verità è una sola, che Cristo è tutto, e riprendere nelle mani consapevolmente, dunque, lo scopo del nostro tempo, del nostro agitarci, del nostro daffare, del nostro mangiare e del nostro bere, del nostro vegliare e del nostro dormire, del nostro vivere e del nostro morire, come diceva san Paolo.


Attraverso una storia (121)

Quello che dico a voi, lo dico a voi perché lo dico a me stesso.

Di fronte al Signore che viene, l’atteggiamento necessario e fondamentale è quello della pura disponibilità.

Il Signore viene nella nostra vita attraverso le circostanze quotidiane, attraverso la carne e le ossa del tempo e dello spazio.

La salvezza ha come strada per entrare nella nostra vita l’ora, l’ora che stiamo vivendo, nella situazione in cui veniamo a trovarci.

Non c’è bisogno di altro.

Non esiste circostanza che non debba essere veicolo , portatrice di salvezza.

Perciò, la nostra vita banale, quotidiana, è il passaggio del Signore,

è il modo con cui il Signore penetra la nostra esistenza portandola, spingendola al suo destino e alla sua salvezza.

Il Padre, ci dà il tempo della vita affinché avvenga quello che, nel Vangelo, viene chiamata conversione.

Se non ci convertiamo o diventiamo totalmente alienati, la nostra testa è venduta, il nostro cuore è venduto ed è governato da altri, secondo i loro scopi e senza che noi ce ne accorgiamo, oppure siamo soffocati nella nostra umanità proprio da ciò che ci sta vicino, dalla compagnia in cui siamo, che è un altro modo per essere alienati.

La parola che può chiarire meglio il termine «conversione» è la parola «verità»: «Se non diventate veri…»

Anche se sono povero, anche se sono così povero da essere pieno di errori, di debolezze, di fragilità, posso essere vero.

Come è impressionante pensare che la vita, il tempo, è cambiamento.

Ma cosa vuol dire mutare? Diventare sempre più veri, cioè sempre più sé stessi.

1° (125)

Vorrei ora chiarire che cosa significhi la verità di sé.

Convertirsi vuol dire diventare veri: diventare veri, camminare dentro la verità di sé stessi.

L’uomo non deriva totalmente da suo padre e da sua madre, cioè dalla natura della realtà terrena, dal cosmo, dalla società, dallo stato, ma ha qualcosa che deriva direttamente da Dio, che è diretto rapporto con Dio.

La verità della nostra persona è come quella del bambino, non mille volte di più, ma infinitamente di più:

noi siamo “di” un Altro.

Io provengo continuamente, ogni istante, in questo momento, da quest’Altro e andrò a finire nelle mani di questo Altro.

Io sono Te, o meglio, Tu sei me! Io sono “di” un Altro.

Questa è la verità della vita, la verità della persona!.

La conversione è un cambiamento della coscienza di se stessi, vale a dire il passaggio dalla percezione di sé come se fossimo padroni di noi stessi, legge a noi stessi, alla coscienza di appartenere totalmente a un Altro.

E la verità della nostra persona è l’appartenenza, l’appartenere: noi apparteniamo.

Un bambino che non appartenga a nessuno è un povero bambino e anche la sua personalità si sviluppa molto più lentamente e molto piena di errori: non acquista l’identità della sua persona!

Al contrario, la creatura uomo è nella posizione di vivere serenamente solo nella coscienza d’appartenere.

Appartenere vuol dire che tutta la sua carne e le sue ossa, tutto il moto delle esigenze da cui nascono i pensieri, i desideri, i sentimenti, tutta la sua energia è come la voce di un altro che si identifica in lui,

è come qualcos’altro che sta dietro e che lo fa.

Il popolo di Israele era definito dalla coscienza di appartenere a Javhè, di appartenere a Dio.

Questo non ci libera dai peccati, perché la liberazione dal peccato è il mistero e il miracolo dell’azione di Cristo nella nostra vita.

Però, se facessimo crescere in noi questo sentimento che io sono appartenenza a Te, la nostra vita respirerebbe.

Anche il nostro male e i nostri peccati diventano veramente dolore, non seccatura, umiliazione, fonte di scoraggiamento, oppure giustificazione; no, restano chiari, sempre più chiari, e diventano dolore, dolore e dolore, che è, insieme alla gioia, il grande segno dell’amore.

Dio ha scelto il popolo d’Israele perché capisse quello che la Bibbia dice.

E’ il sistema che usato Dio: ha preso questo piccolo popolo perché testimoniasse a tutti gli altri popoli chi è Dio.

A noi è stato dato, come a Israele. A noi è stato dato di parlare di questa appartenenza, di riconoscere questa appartenenza.

E’ chiaro che è attraverso l’obbedienza giorno per giorno, è attraverso l’obbedienza a Lui della nostra vita, che Lo comunichiamo; ma è sopratutto attraverso una coscienza diversa di se stessi, che viene quando uno capisce che appartiene a un Altro.

Perché questa coscienza è una cosa che si vede.

«Bisogna cedere, infine! O porta, bisogna far entrare l’Ospite; cuore fremente, bisogna accettare il padrone, Qualcuno che sia, dentro di me, più me stesso di me»

Paul claudel – “vers d’ésile”

«Per generare una civiltà nuova che nasca dalla verità e dall’amore. [….] Lavorate per questo, pregate per questo, soffrite per questo»

GPII – discorso ai partecipanti al III meeting – 29 agosto 1982

2° (136)

Come ha fatto il Signore a farsi capire dal popolo d’Israele?

La coscienza di una appartenenza a Dio è emersa nel popolo di Israele come frutto di una storia.

Dio ha prodotto una certa storia, così che, a un certo punto, il popolo di Israele ha capito che apparteneva a Dio.

Il popolo di Israele ha capito d’appartenere a Dio attraverso una storia, la storia che gli era capitata.

Così è di noi.

Che devozione, che stima, che attenzione dobbiamo avere verso tutto ciò che ci accade, in quanto è legato alla nostra compagnia o è giudicato da essa, perché la nostra compagnia è il segno dell’appartenenza a Cristo nel Suo Corpo, che è la Chiesa.

Perciò, tutto ciò che accade deve essere giudicato e voluto in funzione di questa appartenenza tra di noi.

3° (141)

Quando una ragazzina è sbandata, smarrita, depressa e inquieta, e incontra il ragazzino che le dice: «io ti voglio sposare», quella stessa ragazzina da un giorno all’altro è un’altra, è un altro essere, è un’altra persona; da quando percepisce che la sua vita appartiene a un altro, la sua vita, la sua personalità cambia, cioè manifesta la potenzialità che prima era come bloccata nel profondo.

Bene, è una lontanissima analogia di quello che capita all’uomo che ha coscienza d’appartenere a Cristo, a Dio: «io» vuol dire «appartenenza a Te».

Cristo fa il paragone addirittura con una nuova nascita.

«Quello che importa è la nuova creatura. [….] Non vale più né il ricco né il povero, né la destra né la sinistra, né l’occidentale né l’orientale ecc….» Quello che vale è la creatura nuova, l’uomo nuovo!

Chi capisce questo è un nuovo essere: resta come tutti gli altri, ma è diverso.

E’ un tipo di essere così nuovo l’uomo che riconosce di appartenere a Dio, che riconosce che il suo io è appartenere a un Altro, cioè che l’essenza della sua vita, la legge della sua vita è l’amare – perché amare è riconoscere che la mia vita sei Tu, cioè la mia vita è affermare Te.

Qual’è il miracolo da cui Cristo ha detto: “Il mondo capirà che sono Dio?”.

Il miracolo

che travolge il mondo

è che della gente estranea

si tratti come fratelli.

Il miracolo che travolge il mondo, è che della gente estranea si tratti come fratelli

4° (145)

La testimonianza è lo scopo della nostra vita, è l’aspetto supremo del lavoro della vita, ed essa è data fondamentalmente dalla coscienza dell’appartenenza.

Un uomo che è pieno di questa coscienza testimonia: non c’è bisogno di parole particolari, c’è bisogno di un atteggiamento, cioè di una realtà nuova di coscienza e basta, di uno che dice “io” con quella coscienza, in famiglia, tra gli amici, in comunità, in parrocchia, al lavoro, è lo stesso.

Perché la nostra vita sarà giudicata dall’amore, vale a dire dalla passione della testimonianza a Cristo, e la passione della testimonianza a Cristo è il riverbero della passione dell’appartenenza a Lui, comunque siamo.

5° (146)

La moralità è appartenere.

Se quel ragazzo (il giovane ricco) avesse avuto coscienza di appartenere a quell’uomo che aveva lì davanti, allora avrebbe lasciato tutto, come hanno fatto gli altri, gli sarebbe andato dietro; invece la morale per lui erano le leggi, e lui le aveva rispettate tutte – il fariseo -.

La moralità è appartenenza.

Allora sono pieno di peccati e di errori, e Gli appartengo.

Se Cristo, a cui appartengo, è risorto da morte, come si fa a dire che io non risorgerò dalla morte del mio male?

Il giovane ricco se ne va e Gesù scaglia l’invettiva contro i ricchi, dalla quale si vede che ricco non è chi ha i soldi, ma chi non è disponibile a Lui, cioè non Gli appartiene, con tutto quello che ha, anche coi soldi che ha in tasca!

C’è una condizione esistenziale, c’è una condizione psicologica, esistenziale di questo passaggio, il passaggio che è la conversione alla coscienza che il proprio essere è appartenere a Cristo, appartenere al Signore, a Dio.

La condizione è il sacrificio.

Passare dal sentimento della mia persona come amor proprio, al sentimento d’appartenenza, che è il sentimento più liberante che ci sia, implica un sacrificio: sembra di perdersi.

Abramo se ne va così, senza neanche sapere dove andava, ma obbedendo al cenno di Dio, in quella mattina presto perché doveva ammazzare il proprio figlio.

Questo è l’unico uomo, al di fuori di Cristo, con la “U” maiuscola, perché è l’uomo che è di, che ha capito che è “di” un Altro, che la giustizia è la volontà di un Altro: non è la mia misura o il mio progetto o i miei paragoni.

E poi …..(Maria) tutta protesa a quello che doveva accadere, perché tutto il suo popolo, la sua storia diceva: “Verrà, la salvezza verrà!”.

Ed ella rispose: “Sì fiat“. Sì: che strappo assoluto rispetto a qualsiasi possibile immaginazione, a cui normalmente si sarà ancorata come ogni uomo del suo tempo e della sua razza.

Ma nell’assoluta disponibilità tutto diventa chiaro, limpido e sano: evidenza è una evidenza, non ci sono più né “ma”, né “se”, né “però” – come è per il bambino quando ha sua madre e suo padre -.

Il Signore preme perché entri nel mondo, attraverso noi, una nuova personalità: si deve sfondare la porta.

L’uomo che riconosce finalmente che la sua natura è di appartenere a un Altro è un uomo sempre positivo:

è sempre positivo perché appartiene a un Altro – come un bambino:

non esiste niente di negativo per il bambino tra le braccia della madre -, è sempre positivo, sempre attivo, perché libero; è sempre comprensivo, abbraccia tutto , comprende tutto e, stavo per dire, sorride a tutto.

Stiamoci!

Senza paura dello strappo, del sacrificio, ma imitando quella ragazza di quindici o sedici anni che ha detto “Sì”: è una cosa dell’altro mondo, ma che riecheggia nella nostra vita di tutti i giorni!


ASSEMBLEA (155)

Cesana: «[ … ] perché il nostro scopo è una presenza nel mondo, non una regola: la regola penso che sia il mezzo per questa presenza, sia lo strumento di aiuto a questa presenza. Capisco che stare nella Fraternità significa che decidere che la crescita della mia persona corrispondente allo scopo del movimento e lo scopo del movimento è la testimonianza di Gesù Cristo nel mondo. Altrimenti la Fraternità rischia indubbiamente di essere un rifugio».

Giussani: l’esperienza del movimento non è nient’altro che la scoperta e la volontà di vivere l’esistenza come appartenenza a Cristo.

La Fraternità ha come richiamato anche i più impegnati a questa conseguenza, che non è affatto scontata, anche in loro: magari nei più semplici sì, ma non necessariamente nei più impegnati.

Perciò, la nascita della Fraternità coincide con la presa di coscienza che l’esperienza del movimento è la vita: è la vita!

Che l’esperienza del movimento non è l’organizzazione di Cl, è qualcosa di molto più profondo e più libero che l’organizzazione di CL: l’organizzazione di CL è lo strumento complesso di aiuto perché il richiamo, il sostegno, la correzione continuino.

L’esperienza di Cl, se è questo, investe la totalità della persona!

Infatti è il modo con cui viviamo la vita nella Chiesa.

La Fraternità, comunque, indica una autenticità, una verità nella volontà di identificare la propria vita cristiana secondo il cammino, la via, di questa esperienza che nella organizzazione di CL viene lanciata, rilanciata e sorretta.

Per questo la Fraternità non è una ritirata intimistica in un ambito più familiare dove uno abbia la sua soddisfazione spirituale e si lavi le mani di tutto ciò che lo circonda. Evidentemente non può essere questo.

La fede ci è data per una capacità di presenza. Se veramente investe la vita, la cambia, la tua presenza dovunque diventa diversa, cioè diventa una «presenza».

La fede è l’occasione di una presenza, cioè per una testimonianza.

Il sintomo più grande che noi maturiamo nella vita della Fraternità e che la vita della Fraternità è centrata è che cresce in noi la passione per il mondo, per gli uomini.

La passione per gli uomini come esseri che hanno un destino, un cammino verso una felicità che ignorano, come esseri che appartengono a Uno, presente tra di loro, che ignorano.

Non dico più neanche “io” come lo dicono gli altri, perché quando dico “io” implico la presenza di un Altro, di cui sono.

Intervento (161): «Ecco volevo innanzitutto chiederti come l’appartenenza, quindi la Fraternità, è frutto di grazia, è frutto di avvenimenti che sono accaduti e che accadono. come scoprire e vivere la memoria di questa grazia e abbandonarci a questa grazia»?

Giussani: Come vivere la memoria di questa grazia e abbandonarci: bellissimo! Come il bambino: la forza del bambino (proprio la forza) è l’abbandono che ha.

Dire che è frutto di una storia vuol dire che è una grazia, vuol dire che non è un progetto nostro.

(Dio) ha preso un popolo minuscolo e lo ha tirato su, perché fosse profezia, esempio al popolo nuovo cui noi tutti apparteniamo.

Da che cosa (gli ebrei) hanno derivato questa coscienza di appartenenza a Dio? Dallo stupore della storia che hanno avuto. Lo stupore della storia.

La Fraternità è una, che vive in tanti gruppi – è una grazia, è frutto di una storia.

Intervento (165): «Secondo me, lo dico in rapporto alla regola, l’ubbidienza alla regola è come la domanda cosciente di questa grazia e la domanda cosciente di questo abbandono».

Giussani: La regola è la modalità sicura con cui si arriva alla meta, la regola è la compagnia al destino, è la compagnia nell’esperienza.

La “memoria” vuol dire la fedeltà alla compagnia.

Non esiste memoria di Cristo, non esiste memoria dell’appartenenza a Dio, se non dentro la fedeltà alla compagnia che Dio per storia ci ha data.

Intervento (166): «Quale autorevolezza seguono i gruppi di Fraternità? Con chi ci si confronta? Che differenza c’è tra la Scuola di Comunità e la Fraternità»?

Giussani:

La Scuola di Comunità è uno strumento che uno usa per approfondire l'esperienza del movimento.

La Fraternità è l'esperienza del movimento che diventa un ambito di vita che tende ad investire tutta la vita.

La Scuola di Comunità, se fosse ben vissuta, per degli adulti, dovrebbe diventare Fraternità.

Perciò una Scuola di comunità è una Fraternità “mancata”, cioè non è ancora Fraternità perché è più alla superficie del nostro impegno: è un esercizio, più che una vita.

La prossimità è ciò che il Signore ti mette vicino.

Se ti infischi di trattare con amore chi Iddio ti mette vicino, anche se decidi – per amore dei venezuelani, poniamo – d’andare a parlare ai poveri del Venezuela, anche se vai in Venezuela per i più poveri del Venezuela, non è vero che tu applichi la carità: applichi il tuo concetto di socialità, di umanitarismo, ma non è la carità, perché la carità è amare l’altro per il mistero del suo rapporto con Dio.

Se Dio mi mette uno vicino, devo considerare lui: questa è la regola della prossimità.

Perciò la scelta della Fraternità è l’analogo perfetto di uno che va in convento.

Uno va in convento, va in monastero, perché vuole essere in una compagnia, sceglie una compagnia che lo aiuti ad andare a fondo nell’amore a Cristo, nel vivere l’appartenenza a Cristo e nel testimoniare al mondo.

Intervento (169): «L’appartenenza è un giudizio di valore. La Fraternità in quanto tale mi costringe a rendermi conto del perché c’è questa realtà, e quindi a paragonarmi con il giudizio per cui questa realtà esiste.»

Giussani: La Fraternità come tale non può essere dettata da interessi, da affettività, da simpatie, da conoscenze: si entra nella Fraternità perché si vuole vivere quell’esperienza, l’esperienza dell’appartenenza a Cristo.

Intervento (170): «Vuol dire che stando dentro questa vicenda io faccio i conti con una proposta che mi è concretamente detta, e mi accompagna giorno per giorno».

Ci si confronta con l’esperienza della Fraternità. L’esperienza della Fraternità ha i suoi strumenti: il principale è l’insegnamento del movimento, soprattutto sono le cose che ci diciamo nei Ritiri mensili: con quelli bisogna confrontarsi.

Poi c’è il lavoro del singolo gruppo. Ma questo da ultimo.

Intervento (171): «A volte si vive la fraternità, ma si diventa più disinteressati al movimento in quanto tale. Oppure si intende la Fraternità come una azione in più da fare rispetto a quelle che solitamente si fanno. Come è possibile che una Fraternità non sia una cosa intimistica? Come si può fare perché la compagnia vocazionale giudichi gli aspetti materiali della vita e non sia ridotta al Ritiro mensile, agli Esercizi, ecc…?»

Giussani: La Fraternità viene prima della vita come opere del movimento.

Viene prima perché è quella che mi fa andare più a fondo della coscienza del movimento.

La Fraternità dà più passione per la vita del movimento, non ci fa ritirare.

La gente della Fraternità è la compagnia vocazionale.

Come per uno che va in convento, i suoi venti frati sono una compagnia vocazionale; come per un uomo, la donna che sposa dovrebbe essere la prima compagnia vocazionale, soltanto che qualche volta manca il contenuto dell’esperienza cristiana da vivere.

Intervento (173): «Quali sono i criteri con i quali la libertà personale deve muoversi nella scelta delle altre persone con cui vivere la Fraternità»?

Giussani: La serietà di una persona si misura dalla volontà di andare in fondo al compito della sua vita.

Se si è messo in una compagnia per essere aiutato ad andare in fondo a questo, allora avrà obiezione soltanto se non c’è chiarezza, se c’è confusione, ma non per il carattere, non per l’estraneità.

Quanto più è maturo un gruppo di Fraternità, tanto più abbraccia.

La maturità spalanca: quanto più un uomo è grande come personalità, tanto più abbraccia e comprende, e sente come parte di sé anche gli altri.

Intervento (175): «Vogliamo domandarti come Cristo c’entra anche col fare ore di lavoro e come la domanda di capire come Cristo c’entra possa sempre continuamente restare aperta».

Giussani: Non si può mettersi insieme per cercare di vivere più profondamente la fede senza che un impeto missionario nasca.

L’impeto missionario non è nient’altro che la volontà che si manifesti nelle proprie azioni il regno di Dio.

L’impeto missionario è il sintomo più chiaro di un gruppo di Fraternità vivo: l’impeto missionario, senza forzature, senza artefici, senza alterare i caratteri delle persone che ci sono.

Badate che il movimento non si fa crescere con le iniziative; si fa crescere il movimento se crescono persone mature nella fede.

Le iniziative sono strumento per tale maturazione.

Intervento (177): «Che cosa è il ritiro? Che rapporto c’è tra il ritiro e la vita? anzi, più precisamente che cosa è l’ascesi»?

«La domanda della presenza di Cristo dentro ogni situazione e occasione della vita: questo è ascesi».

Che diventi familiare in noi la domanda della presenza di Cristo in ogni situazione e occasione della vita, questo è l’ascesi.

Chi trasforma la nostra vita, chi ci rende capaci di voler bene alla donna, chi ci rende capaci di voler bene ai figli, chi ci rende capaci di voler bene agli estranei, chi ci rende capaci di voler bene a quelli della fraternità, chi ci rende capaci di voler bene, perdonando, a quelli del movimento, è Cristo: è Cristo, presenza che salva.

I giorni di Ritiro ci chiariscono questo, ci fanno entrare più profondamente in questo.

La Fraternità l’abbiamo concepita come fatta di gente matura, di adulti.

L’adulto è colui che sa quel che vuole e a seconda del temperamento e delle possibilità ci mette la sua energia.

Noi vogliamo conoscere e vivere la fede in Cristo, affinché il mondo Lo conosca.

Intervento(181): «Non mi sento degno di avere l’iscrizione alla Fraternità»…

Giussani: Anch’io non mi sento degno di essere qui a questo tavolo, ma la grandezza dell’uomo, la ricchezza nostra è nel desiderio vero del Signore e basta.

E il desiderio diventa domanda.

Come il Papa ha detto: «La domanda della presenza di Cristo dentro ogni situazione e occasione della vita»

Intervento (182): «Mi sono accorto che il rischio più sottile, ma forse anche più brutto, nella comunità, è quando, a poco a poco, uno non vuole più imparare dall’altro. Allora volevo domandarti qual’è l’anticorpo contro questa malattia di me, che poi diventa una malattia della comunità».

Giussani: Mi dispiace ma l’anticorpo è uno solo: la sincerità nel desiderio della fede, di conoscere e vivere Cristo.

E’ inutile, non si può scappare di lì.

La nostra forza è la forza del povero.

E la forza del povero che non ha niente è quella di stendere la mano, è quella di chiedere la fede, è quella di desiderare la fede, è quella di amare ciò che nella vita si sente così tradito anche da noi stessi.

Allora, anche se la simpatia viene meno, anche se la concordanza viene meno, il motivo sta e vi aiuta a imparare l’uno dall’altro.

Cosa vuol dire che il matrimonio diventa sacramento?

Vuol dire che i due che vanno in chiesa riconoscono che si sono messi insieme perché c’era l’attrattiva che li ha messi insieme, ma questo è stato il pretesto o lo spunto per cui Dio ha fatto loro capire che dovevano fare tra di loro una compagnia fino alla fine della vita.

Perciò il compito di accompagnarsi fino alla fine della vita è un compito davanti a Dio, per Dio, ed è questo che rende stabile l’unione, non l’affettività iniziale.

Intervento (183): «Dopo un anno di Fraternità c’è un disagio che è quasi palpabile: è il momento di andare al fondo di noi stessi; è come si si parlasse delle cose da fare per difendersi, per non parlare di sé».

Giussani: il problema è che mettersi insieme per camminare esige del tempo perché la compagnia diventi matura e ci si aiuti sempre meglio.

Se non matura, la compagnia diventa sempre più rigida, e allora diventa tutto più banale.

Noi vogliamo credere, ma in fondo in fondo vogliamo mantenere delle riserve nel credere….come se il credere fosse una certa parte della vita.

Invece credere in Cristo vuol dire riconoscere che la mia esistenza Gli appartiene.

Riconoscere questa presenza non può non cambiare le cose: le lascia tali e quali, ma le cambia.


Omelia (185)

Egli tornerà ad aver pietà di noi, calpesterà le nostre colpe

Mi 7,18-19

Non c’è nulla più di questa inconcepibile e insondabile capacità di perdono che faccia venire tanta voglia di fare bene, non c’è niente che faccia venire tanta voglia di cambiare, non c’è niente che faccia venire tanta voglia di gridare a tutti gli uomini che cosa è il Signore.


Un aiuto alla verità di sé (186)

Se c’è una cosa evidente è che siamo limitati.

Vivere un limite è una tomba: ma quello che sfonda il limite non è l’eliminazione del limite, è il rapporto con l’infinito che il limite ha.

Ci sono questa dignità e responsabilità, l’abolizione o la lotta contro il banale, che non è ciò che è piccolo o abitudinario, ma è ciò che nega il destino, è ciò che nega il rapporto con l’infinito, è la dimenticanza di Dio.

La conversione è il realizzarsi della verità per se stessi e la fraternità è un aiuto a scoprire continuamente la verità di sé.

La fede non è accanto alla vita, ma è l’anima della vita, è la vita, coincide con la vita, facendoti intravvedere che il rapporto con Lui coincide con la vita, è la vita, che in Lui è la vita.

L'esperienza del movimento ha come scopo la maturità della fede nella persona.

La maturità della fede nella persona è la conversione, vale a dire è il realizzare la verità di sé stessi, e la verità di me è che io Ti appartengo totalmente o Cristo, sono fatto di Te.

Vale a dire la verità della realtà, è, come dice san Paolo, “Dio tutto in tutto”.

1° (192)

Il Dio puro che i musulmani hanno ereditato dagli ebrei e dai cristiani dei primi sei secoli, non cambia l’uomo, non cambia la natura dell’uomo.

Il cristianesimo, invece, è l'annuncio di una Presenza che cambia la natura dell'uomo.

Perciò la vita cristiana è un miracolo che incombe sull’orizzonte di ogni giornata; anzi, è un miracolo che incombe sull’orizzonte di ogni ora, di ogni azione: se apriamo lo porta, Cristo penetra e muta, cambia.

Il cristianesimo è talmente un dono alla natura nostra, alla natura dell’uomo, è talmente qualcosa che investe, scuote e penetra la nostra natura – perché rivela la presenza di Colui “di cui “siamo fatti”, “per cui “siamo fatti”, “di cui siamo”, che il cristiano, cioè chi vive la conversione, chi vive la coscienza di appartenenza a Cristo è come uno nato ad un altro livello, è come un essere nato non dalla carne e dal sangue.

O Dio è la vita, oppure è come se fosse fuori dalla nostra porta.

Ma la speranza non va da sé [ …]. Per sperare, bimba mia, bisogna essere molto felici, bisogna aver ottenuto, ricevuto una grande grazia. // E’ la fede che è facile non credere che sarebbe impossibile. E’ la carità che è facile e non amare che sarebbe impossibile. Ma è sperare che è difficile.// E quello che è facile è disperare, [ … ] questa è la grande tentazione.

Peguy – “il portico del mistero della seconda virtù ” (misteri)

Vale a dire l’obiezione della nostra della nostra carnalità, l’obiezione del peso sepolcrale dei limiti delle cose quotidiane, che ci fanno vivere nell’indifferenza e nel cinismo, o nel disgusto e nella noia, a seconda dei momenti, dello stato d’animo, tutto questo deve essere quotidianamente investito e trapassato, sfidato ora, sfidato dalla speranza cristiana.

E l'Esodo nuovo è dalla banalità del lavare i piatti alla gioia profonda di Pasqua,

che è nel lavare i piatti con quella verità di sé che è l’appartenere a un Altro.

Qualsiasi punto dell’universo è apertura all’infinito, è partenza per l’infinito, è rapporto con l’infinito; non esiste un punto più bello o meno bello, esiste la verità di me stesso o no; e se non esiste la verità di me stesso, io sono soffocato dal cinismo, nella superficialità soddisfatta o nella disperazione della noia.

Lettera: «Io non posso pensare così a Cristo, come al tutto della mia vita, io che non sono chiamata a vivere la verginità, ma il matrimonio. Ma io constato solo questo: che se non penso a Cristo, anche l’uomo a cui voglio bene lo guardo senza potermi impedire un’ultima indifferenza, e quando parlo di eternità è come se mi venisse la tentazione di odiare il tempo».

Quello che ci importa è questo: che la speranza poggia sulla fede, perciò dobbiamo essere felici che Cristo s’è fatto conoscere.

«Tu o Dio porti avanti il tuo piano. Sei risoluto, e i Tuoi piani sono irreversibili. Ma la cosa più stupefacente è ciò che risulta sempre alla fine: che non sei mai contro di me»

K. Wojtila «Raggi di paternità»

Quello che preme in questo momento, ma in tutti i momenti in cui ci vedremo, è che ci sia una porta per cui Cristo passi.

La grandezza della nostra vita si misura su questo apparentemente piccolissimo spazio in cui Lui entra.

Per questo NON DOBBIAMO TEMERE: il timore iniziale si trasforma in amore e nella maturità che prosegue, l’amore che ci fa inoltrare sempre di più verso Colui in cui la vita trova tutto il suo domani, in cui anche ciò che abbiamo, ciò che possediamo, trova il suo domani.

Noi abbiamo timore della Sua entrata e così Lo teniamo a distanza perché non ci porti via ciò che possediamo.

La speranza è nel fatto che, avendo Egli iniziato, porti sino in fondo la sua opera in noi.

2° (202)

Tutto l’amore e la nostalgia e la cura di cui sono capace sono concentrati sul viso umano che mi è più vicino. In questo momento è il tuo viso, Carl: tu e tutto quello che sei

morris west – “I giullari di dio”

Questa è la regola che ieri abbiamo chiamato della prossimità: si tratti della moglie o del marito, del figlio, del compagno di lavoro o dell’estraneo che troviamo sul tram, è uguale.

«La tenerezza è l'arte di "sentire" l'uomo tutto intero, tutta la sua persona, tutti i moti della sua anima, anche i più nascosti, pensando sempre al vero bene»

Woytila – “amore e responsabilità”

3° (203)

1° – E’ la speranza che la nostra vita cambi: “sperando contro ogni speranza“.

2° – Cristo lo si ama nel limite, e il limite per eccellenza è l’uomo che ci è accanto, è l’uomo che ci vive accanto, chiunque sia; dalla tenerezza verso l’uomo incomincia a essere diverso il mondo.

3° – L’incontro con la verità desta un impeto missionario.

Che l’incontro fatto, cioè la fede, diventi cultura, è identico a quanto abbiamo detto: che l’incontro con la verità diventa impeto missionario.

Un donna che è intenta a fare i mestieri e ama il mondo, è un essere che vive una cultura nuova, che introduce nel mondo, che rende presente nel modo una cultura nuova.


4° (204)

In particolare, da ultimo, l’impegno sociale.

«L'uomo è pieno, maturo, se vive della verità e ne dà testimonianza. Allora anche i rapporti sociali sono veri, se l'uomo può dare testimonianza della sua verità»

Woytila – Discorsi al popolo di Dio

il punto di scontro tra il potere civile ingiusto e l'uomo credente è non tanto la fede come verità nascosta nell'intimo dello spirito, quanto la sua professione esterna, la sua testimonianza

Woytila – Segno di contraddizione

“I tempi sono cattivi” diceva san Paolo; tra allora e ora la differenza è minima, anzi, forse ora la situazione è aggravata, perché, come diceva giustamente una scrittrice inglese convertitasi al cristianesimo,

«Gli uomini raramente apprendono ciò che credono già di sapere».

B.Ward – Faith and freedom»

Conclusione (206)

La conversione sta nel realizzare la verità di sé, e la verità di sé è l’appartenenza a Cristo, la coscienza dell’appartenenza a Cristo.

La Fraternità è un aiuto a tale conversione, un aiuto a realizzare questa verità.

In primo luogo Cristo investirà la tua vita di ogni giorno appena tu spalancherai gli occhi.

In secondo luogo Egli influirà sul modo in cui guardiamo l’altro.

Cristo fa rientrare la tenerezza nel mondo, la tenerezza nel senso in cui ne parla il Papa, lo sguardo all’uomo nella sua totalità, fin nelle sue sfumature, sempre in funzione del suo vero bene, cioè del suo destino.

Guardare l'uomo secondo il suo destino!

In terzo luogo questo sguardo all’uomo, questo rapporto nuovo con l’uomo, deve scoppiare nel rapporto con tutti e con tutto: la fede deve diventare cultura.

In quarto luogo non dobbiamo essere schivi o indifferenti alle necessità dell’ora, ecco perciò l’impegno sociale e politico.

Perché tutto il mondo è Suo, ma ha riconosciuto come Sua particolare eredità noi: non perché siamo numerosi e forti, ma perché ci ha amati.


Omelia (208)

Che la passione per il mondo, la responsabilità verso il mondo, scoppi ed incendi la banalità delle nostre giornate, questo è il miracolo, il miracolo!

E’ una accettazione del diverso, che diventa anche accettare il marito e la moglie, i figli e l’amico; l’abbraccio del diverso, che è più acutamente l’abbraccio di te stesso, perché non c’è nessuno di più diverso, da quello che tu vorresti essere, di te.

Se non ci convertiremo, perirà la mia vita, perirà il mio io, perirà la mia persona, perirà il volto della persona amata, perirà il volto dei figli, perirà il volto degli amici, perirà il volto del lavoro, perirà il volto del mondo,

perché tutto è vanità ed è niente senza quella Presenza.


Esercizi spirituali predicati da don Giussani

1° volume «Cristianesimo alla prova»

Titolo: UNA STRANA COMPAGNIA


2° «volume Cristianesimo alla prova»

Titolo: LA CONVENIENZA UMANA DELLA FEDE


3° «volume Cristianesimo alla prova»

Titolo: LA VERITÀ NASCE DALLA CARNE


4° volume «Cristianesimo alla prova»

Titolo: UN AVVENIMENTO NELLA VITA DELL’UOMO


5° volume «Cristianesimo alla prova»

Titolo: ATTRAVERSO LA COMPAGNIA DEI CREDENTI


6° volume «Cristianesimo alla prova»

Titolo: DARE LA VITA PER L’OPERA DI UN ALTRO


Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.