Il Brillio degli occhi – 1

Bergamoincontra ha organizzato un ciclo di 4 conferenze sul libro di don Carron “Il brillio degli occhi“.

canale Youtube di Bergamoincontra


Che cosa ci strappa dal nulla?

I primi due capitoli del libro sono spiegati da don Pierluigi Banna

Michela Milesi – moderatrice

Buona sera a tutti e grazie per aver riposto al nostro invito. Ringrazio le autorità collegate e le istituzioni che hanno collaborato alla realizzazione dell’incontro: Regione Lombardia, Comune di Bergamo, Provincia di Bergamo, L’Eco di Bergamo e L’Ufficio per la Pastorale Universitaria della nostra Diocesi e ringrazio soprattutto don Pierluigi Banna che ha accettato stasera di iniziare con noi questa avventura.

Sono veramente contenta di poter dar il via a questo ciclo di incontri che è nato dalla lettura del libro di don Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione e che ha per titolo

“Il Brillio degli occhi. Che cosa ci strappa dal nulla?”.

Il libro è stato scritto lo scorso anno in piena pandemia.

Quando l’abbiamo letto ci siamo accorti della sua preziosità e ci è venuto subito il desiderio di proporlo a tutti, perché ci aiuta ad approfondire che cosa vuol dire vivere da uomini, cioè sentirmi viva, vivere con speranza, serietà, intelligenza e creatività dentro una situazione difficile come l’attuale e sempre.

Io per prima desidero incontrare quel brillio di cui parla il titolo del libro, imparare a gustare ogni istante della mia vita e camminare certa come un bambino quando tiene la mano del suo papà.

Per introdurci al ciclo e all’incontro di questa sera, abbiamo deciso di farci aiutare da una canzone  di Mina che ora ascoltiamo: “Mi sei scoppiato dentro al cuore”.

Che cosa ci strappa dal nulla, che cosa ci fa sentire vivi?

Una presenza concreta, reale, che accoglie il nostro grido e fa rinascere l’amore verso noi stessi e la nostra vita.

Ci facciamo aiutare in questa scoperta da tre amici.

A ciascuno di loro abbiamo affidato due capitoli del testo, chiedendo di paragonarsi con quanto scritto dall’autore, partendo dalla loro esperienza perché, come diceva don Giussani «È solo una vita diversa e nuova che può rivoluzionare strutture, iniziative, rapporti, insomma tutto».

E noi desideriamo imparare a vivere da chi vive così e condividerlo con tutti. 

Il primo incontro si intitola: “Questo abisso della vita.

Per spiegare il titolo abbiamo aggiunto nel volantino queste due righe: «Il nulla induce a risparmiarci, perché vale la pena fare solo quello che si ha in mente, senza nemmeno prendere in considerazione altre proposte. Eppure, continuiamo a sperare, attendere».

Questa sera ci aiuterà Don Pierluigi Banna che ringrazio tantissimo.

A lui abbiamo chiesto un aiuto sui primi due capitoli del libro, che inquadrano la fragilità in cui oggi viviamo e la grandezza dell’animo umano.

Don Pierluigi è nato a Catania nel 84, e dopo la laurea in lettere classiche, è stato ordinato prete e ora presta il suo servizio nella diocesi di Milano.

Dopo la licenza in scienze patristiche, ha discusso lo scorso 23 febbraio un dottorato su “L’ambigua religiosità dei primi cristiani”.

Ha accompagnato negli ultimi cinque anni l’esperienza di ragazzi e insegnanti di Gioventù Studentesca. Attualmente insegna Patrologia al Seminario di Venegono e Introduzione alla teologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

Don Pierluigi grazie per aver accettato questo compito e di esserti reso disponibile ad accompagnarci in questo percorso così affascinante che ci aiuta ad andare al fondo di noi stessi.

Don Pierluigi Banna – relatore

Buona sera a tutti. Ringrazio Michela di questa introduzione e anche tutti gli altri organizzatori di Bergamo Incontra perché mi hanno permesso di confrontarmi ancora una volta con i primi due capitoli del «Il brillio degli occhi».

Non farò una presentazione dei contenuti di questi due capitoli, ma è mia intenzione testimoniare questa sera come questi due capitoli mi hanno offerto una chiave di comprensione e di orientamento per vivere questo tempo così inedito e drammatico.

Infatti credo che la forza di queste pagine sia proprio nell’offrire una bussola per mettere a fuoco e chiamare per nome alcune esperienze che, senza volerlo, ci siamo trovati a condividere tutti in questo tempo.

Questi capitoli – don Carrón mi perdonerà – secondo me sono come una ottima app di navigazione: ci permettono di capire dove siamo, quali strade stiamo percorrendo, ma nello stesso tempo ci lasciano la libertà di decidere dove vogliamo andare.

L’unica richiesta che farei a voi, oltre alla pazienza di ascoltarmi, è di provare a paragonare quello che andrò dicendo con quello che ciascuno di voi ha vissuto in questo tempo e riscontrare, come io ho visto, se nelle parole di Carrón ritrovate un punto di chiarezza, un punto di orientamento, proprio per queste esperienze che ci è toccato vivere nell’ultimo periodo.

Ho pensato di raccogliere quello che vorrei dire in quattro punti.

Primo punto.

Secondo me

la forza di questi due capitoli sta nell’identificazione di un bersaglio.

L’ultimo tempo, che abbiamo vissuto già prima della pandemia, è stato caratterizzato da quelle che io chiamerei le emergenze.

Continuamente abbiamo dovuto fare i conti con qualche emergenza.

Siamo partiti più di dieci anni fa, quattordici anni fa, dall’emergenza educativa che raccoglieva la crisi dell’istituzione familiare, la necessità di un ripensamento della trasmissione dei valori in quella che poi papa Francesco ci ha fatto chiamare «un cambiamento d’epoca».

Poi si è aggiunta nel 2008 lemergenza economica che tutti noi abbiamo conosciuto e qualcuno ha sperimentato sulla propria pelle.

Due anni fa il clamore delle cronache ha riportato alla ribalta l’emergenza ecologica, che ci invitava ad un uso dei beni della terra meno egoistico con uno spirito più solidale per tutelare il destino del pianeta.

Sembra però che in questo periodo, con l’aggiunta della grande emergenza sanitaria, il tempo delle emergenze non abbia fine; anzi,

l’emergenza sanitaria ha fatto da catalizzatore al clima di incertezza che già queste emergenze avevano provocato in noi.

Il problema di quando parliamo di emergenze è che l’emergenza richiede tutta la nostra attenzione, così come è stato per la pandemia, catalizza tutte le nostre preoccupazioni, ci frastorna e poi passa la palla ad un’altra emergenza.

Io penso che una vita in stato di emergenza possa essere paragonata allo stato di quei monolocali per i lavoratori che vivono periodicamente, durante la settimana, nelle grandi città, che hanno tutti gli angoli funzionali: c’è l’angolo cottura, l’angolo soggiorno, l’angolo letto e l’angolo servizi, però sembra che tutti gli angoli funzionali allo scopo non facciano una casa.

Il rischio di un periodo di emergenze è che ogni spazio è riempito da un’emergenza, ma non c’è un tempo in cui dimorare, un tempo in cui crescere e prendere coscienza di sé.

Allora per affrontare questa situazione emergenziale da dove partire?

Abbiamo sentito tante analisi.


Qualcuno ha preferito spostarsi dal piano sociale delle emergenze a un piano più profondo, a un piano culturale, che riguardava il destino dell’occidente.

Un’analisi molto profonda che mostra come in fondo questo stato emergenziale dell’occidente non sarebbe altro che l’ultimo canto del cigno morente, cioè l’espressione dell’agonia dell’occidente dopo il crollo delle grandi ideologie.

Da una parte assediati dalla convinzione del terrorismo di matrice islamica, dall’altra viviamo la forza inarrestabile dei popoli orientali che sono pronti a sacrificare la vita per il bene della collettività, e i giovani occidentali sono stanchi, poco convinti, a volte arrivano quasi ad uccidere, a volte proprio materialmente, ma di fatto uccidono moralmente gli ideali dei loro padri.

Da questo punto di vista per me è stato esemplificativo ciò che è accaduto nel 2015, quando un pilota di una compagnia di volo, che era affetto da depressione, per la sua malattia ha sacrificato sé stesso e la vita di 150 persone.

Non per un ideale religioso, non per la forza della collettività, ma per la sua malattia.

Ebbene, anche questa analisi che ho prospettato, non è che dia molte speranze, quindi forse non è proprio la chiave per affrontare il periodo delle emergenze.


Un’altra visione oltre a quella sociale e a questa culturale che ho appena detto, può essere quella più attenta ai singoli, più attenta alle emozioni, più attenta alle fatiche psicologiche che ognuno di noi si trova a vivere, ed è sollecitata dai consigli di chi ci invita a curare noi stessi, a prenderci cura delle nostre risorse psicologiche, perché altrimenti alla prossima emergenza è sicuro che usciremo di strada.

Mi ha interessato un dialogo con un dirigente di una grande società di consulenza del lavoro che mi diceva della cura che hanno per i loro dipendenti e soprattutto per i loro dirigenti, perché prevedono che ogni cinque-sette anni un loro dirigente andrà in burnout e quindi, diceva lui: «Noi  prevediamo già che accadrà questo fatto di debolezza psicologica e copriamo con le spese dell’assicurazione sanitaria anche le spese di psicologi e analisti che possano far affrontare anche questa debolezza psicologica».

Neanche questa prospettiva, a dire il vero, ci permette di affrontare la fatica che viviamo,

perché in fondo riduce, appiattisce un disagio che è diffuso a una patologia che può essere molto circoscritta.


Allora mi pare che forse si possa offrire una chiave diversa, Carrón offre una chiave diversa per leggere un disagio che sfido chi ci sta ascoltando a dire che non ha vissuto almeno in un momento della sua vita.

Un disagio fatto da alcuni sintomi – provo a dirli – :

l’apatia incolore che sembra avvolgere certe giornate, la perdita del gusto di vivere, un senso di sfiducia nell’esistenza.

Al di là delle patologie, prima o poi a tutti sono capitati questi sintomi, soprattutto in questo periodo.

Ma se guardarle sociologicamente o guardarle da una prospettiva culturale o da una prospettiva più clinica ci sembra riduttivo, da quale punto sbrogliare la matassa, cioè

qual è lo spazio abitabile di questo tempo di crisi, di emergenza che stiamo vivendo?

Se prima ho usato un paragone un po’ strano, adesso ne uso uno ancor più strano.

Mi sembra che la forza delle pagine di Carrón sia paragonabile a quella di un acchiappafantasmi, ghostsbusters, che riesce ad intrappolare in una scatola il problema.

Perché è un problema che tutti abbiamo sentito: insoddisfazione, incertezza, disillusione, apatia, perdita del gusto di vivere.

Ma come guardarlo, come riuscire a bloccarlo e a comprenderlo fino in fondo?

Carrón ce la fa

Vi invito naturalmente a leggere le pagine, se non l’avete fatto.

Lui localizza il bandolo della matassa in una parola che non legge con le categorie con cui ne hanno parlato i filosofi o gli intellettuali, ma in un modo che è comprensibile anche a chi non ha mai studiato filosofia.

E questa parola è «nichilismo».

Questo è coraggioso da parte di Carrón, lo ripeterò più volte stasera.

Lui focalizza che l’origine di tutti questi malesseri, malumori, stati di insoddisfazione, ha questa radice

«Il sospetto sulla mancanza di consistenza del reale e la sfiducia nella possibilità di significato e di compimento dell’esistenza, si intrecciano e si sostengono reciprocamente in quel nichilismo che tutti ci riguarda»

pag. 8 del testo

«Niente sembra in grado di impegnare veramente l’io»

pag. 10 del testo

Carrón focalizza il problema di tutto questo malessere in questo nichilismo per cui a ogni uomo non sembra che valga la pena di impegnarsi in nulla.

Ma proprio la forza, secondo me, di questa lettura di Carrón, è che chiama le cose per nome.

Chiamando il nichilismo per nome lo può sfidare direttamente, può chiedere a ogni uomo: davvero non c’è nulla al fondo della realtà per cui valga la pena di impegnarsi in questa vita?

Questa è la questione da guardare in faccia, altrimenti, appunto ci distraiamo dietro alle nostre analisi sociologiche, culturali psicologiche, ma qualsiasi sia il nostro stato emotivo, qualsiasi sia la posizione sociale e culturale in cui viviamo, Carrón sfida il nichilismo con questa domanda:

«C’è qualcosa per cui questo istante val la pena di essere vissuto? C’è qualcosa per cui tu, così come sei, vali più di tutto il mondo intero?».

Vorrei far capire la forza di questo problema del nichilismo, richiamando alcuni episodi della nostra vita e alcuni anche miei personali.

A tutti noi sarà capitato qualcosa per cui la giornata è andata storta. Spesso sono le giornate che meglio ci ricordiamo, magari alla fine della settimana.

Capita un’ingiustizia subita, una parola violenta nei nostri confronti o il pensiero di una scadenza difficile da adempiere, per esempio il dottorato.

Personalmente io posso dire che mi ricordo quando una volta una mia cara amica, tra una cosa e l’altra, mi ha detto:

«Comunque  quando si parla con te, si vede che nella tua testa incomincia a partire il countdown del tuo orologio che sta pensando: “Quanto tempo ancora dovrò stare con lei?“» .

E questa non è una cosa bella da sentirsi dire da una amica, è un pugno nello stomaco, e quando ricevi botte di questo genere, poi ti possono accadere mille cose belle, puoi ricevere mille complimenti, ti vanno bene gli esami, ma quel pensiero che quella persona, quel giorno, in quella settimana, in quel periodo ti ha detto quella cosa,

è sempre lì nell’angolo di ogni bella esperienza, appostato come uno stalker che ti accorgi che ti sta spiando e dici: «Però c’è quel problema lì».

È questo in fondo il nichilismo,

questo pugno che ci porta a pensare negativamente che è appostato all’angolo di ogni esperienza,  però tu non lo vuoi guardare in faccia, non ti vuoi mettere a inseguire quello stalker, perché dici: «Eh no, se adesso si riapre la questione di quell’amica, me la rovino del tutto la giornata!».

Quindi noi preferiamo lasciarlo come un sottofondo amaro che però non ci fa godere fino in fondo delle cose più belle che ci capitano.

Ma in fondo è proprio questa la forza del nichilismo, il fatto che noi non cerchiamo di acchiapparlo.

Cioè quanto più cresce tanto più noi non cerchiamo di guardarlo in faccia.

Quanto più lo lasciamo come un sospetto che aleggia dietro ogni cosa, tanto più aumenta il suo potere.

Infatti Carrón cita una frase del filosofo Cornelio Fabro che dice:

«Il nulla non si sceglie, ci si abbandona al nulla».

Ed è proprio il fatto di non dargli contro – eppure sappiamo che è lì, ma abbiamo paura a guardarlo in faccia, perché sennò la vita sarebbe veramente un disastro – che gli dà sempre più forza, sempre più potere.

Come purtroppo a volte capita (non so se vi è mai successo) in quelle famiglie segnate da un grave lutto: molto spesso capita che non si parli di quell’evento luttuoso col passare degli anni, perché il parlarne, si pensa, aprirebbe profonde ferite, scaverebbe divisioni In realtà però non parlandone, la divisione di fatto si scava, l’incomunicabilità alla radice cresce.

La forza di Carrón è proprio, invece, nel voler seguire, nel voler braccare questo stalker, che è questo pensiero un po’ negativo, questo nichilismo, e volerlo guardare in faccia. E io posso dire quanto per me è stata utile questa provocazione di Carrón.

Parlando un po’ della mia vita, io circa un anno fa, ho fatto una di quelle svolte epocali. Mi sono trasferito dalla Città eterna, da Roma, crocevia di incontri, cuore della Chiesa cattolica, a un paesino della provincia di Varese, che si chiama Venegono inferiore di quattromila abitanti, e dentro questo paesino c’è un piccolo castello che è il seminario.

Il passaggio geografico mi pare già significativo, in più è un cambio di vita perché si passa dall’essere studenti al dover essere insegnanti e in più finire il dottorato. E nello stesso tempo arriva la pandemia, quindi  alla reclusione si aggiunge la reclusione dentro il castello in una camera, perché il contagio si è diffuso esponenzialmente qui dentro.

Allora la cosa interessante nel leggere questo testo che Carrón è come se concedesse tutte le carte alle nostre obiezioni, anzi ce le fa mettere sul tavolo, ma poi sfida il nichilismo con questa domanda:

«E tutto questo che vivi ti dimostra che tutto è nulla?  Dimostra che non c’è nulla per cui valga la pena di spendersi nella vita?».

Insomma, tutti i disagi sociali, culturali, esistenziali, psicologici che viviamo, sono così decisivi da spingerci a dire che il nulla – quello stalker – ha ragione?

Questa spudorata serietà con ogni questione della vita è ciò che personalmente ho sempre apprezzato di don Carrón.

Molte volte mi è capitato, dopo tanti ripensamenti, rimuginamenti di porgli delle questioni di cui onestamente mi vergognavo e anche pensavo che lo avrebbero disturbato o indispettito.

E la più grande sorpresa, ogni volta che poi mi decidevo a porgli queste questioni, è sempre stata la sua reazione, innanzitutto del volto, illuminato e sorpreso,  e poi nelle parole: «Che bella domanda! Perché hai aspettato così tanto tempo a farmela? Questa è una occasione unica  di maturazione per te».

Di fronte a una reazione del genere, quando trovi uno che guarda in faccia quello che ti sembrava essere la ragione del nulla – e meno guardavi questo nulla e tanto più prendeva piede nella tua testa -, davanti a una reazione del genere quel timore del nulla sparisce: potevo finalmente guardare in faccia la vita e quello che mi sembrava lo stalker appostato a rovinarmi la vita o la giornata si rivelava come la grande occasione di maturazione.

Secondo punto

Vorrei passare ad un secondo punto, perché mi piace come Carrón entra dentro a dettagliare il modo con cui noi possiamo anche incrementare questo nichilismo e prendendolo, da buon ispanico, per le corna, ci possiamo rendere conto di tanti altri tentativi che abbiamo fatto per fronteggiare questo senso di malessere che però poi si sono rivelati fallimentari.

Io personalmente dico tre tentativi, tre vie che si rivelano fallimentari.

Prima via fallimentare: intellettuale

1. La prima è la via intellettuale, ma non lasciatevi intimorire, non è la via degli intellettuali.

La via intellettuale è la via di chi cerca di fronteggiare l’emergenza o la paura del nulla costruendosi un discorso, magari anche religioso, che si ripete nella testa, ed è un discorso su come dovrebbero andare le cose.

E da una parte si scaricano tutte le sue speranze su questo mondo ideale, su questo andamento ideale delle cose, e dall’altra si scaricano le colpe su tutti coloro che non fanno andare le cose in questa direzione.

In questo tempo di pandemia l’abbiamo visto in vari casi, però a me ha toccato da vicino il caso delle riaperture: riaperture delle scuole, riaperture degli oratori.

Chi non è d’accordo che la riapertura sarebbe molto meglio? Eppure non possiamo pensare che la riapertura ci toglierà tutti i disagi che stiamo vivendo.

E io ho visto, sia nel campo degli oratori sia nel campo delle scuole, che quanto più ci si affannava a dire: «Se riaprissimo veramente cambierà tutto», e quanto più la gente si sbracciava a dire questo, tanto più emergevano fattori in controtendenza: gente che non voleva riaprire, che aveva paura di riaprire, sia tra i ragazzi, sia tra gli adulti, preti, educatori, insegnanti.

Questa è già una via intellettuale.

Uno dice: «Se fosse così, sarebbe tutto meglio, sparirebbe il nulla».

E dall’altra parte chi non permette che sia così è il vero ostacolo alla società. Ma di fatto ripetersi questi discorsi non risolve la situazione.

Lo dice Carrón a pagina 32:

«Possiamo dire cose pur vere, ma nella misura in cui non accadono davanti ai nostri occhi, come una bellezza concreta che attrae, non inchiodano più nessuno, né noi né gli altri».

pagina 32 del testo

La seconda via fallimentare: etica

2. La seconda via, con cui cerchiamo di sfuggire a questa paura del nulla, è una via che io chiamerei etica.

Di fronte ad una emergenza si ricorre all’esperto, un esperto che ci illumina sul da farsi, a come uscire dalla situazione difficile che viviamo.

Di solito questo esperto, dal comodo della sua scrivania, ci potrà elargire un sapiente know how per affrontare la situazione: noi che siamo inetti di fronte alle tragedie della vita.

Adesso non mi riferisco a quei poveretti dei virologi (di cui hanno fatto anche l’album), perché loro stessi quando parlano, la maggior parte di essi dicono che non bisogna prendere per oro colato quello che dicono, sono comunque delle ipotesi.

Ma già prima della pandemia mi ricordo diverse situazioni in cui, quando emergeva un disagio sociale in una scuola, era subito la corsa all’esperto:

l’esperto di droga, l’esperto di dispersione scolastica, l’esperto sulla educazione affettiva…

Insomma, questi esperti dovrebbero arginare questo nulla che avanza. Come chi cerca di tappare un buco rotto mettendo la mano contro il muro.

Ma più esperti chiamiamo, più ci affidiamo agli esperti, più le regole aumentano; più la vita si fa urgente e più in questa via ci riempiamo di regole: dal mangiar sano allo star bene, dall’amare con prudenza al rispetto dell’ambiente, dallo spendere bene al morire bene.

Tutte regole che si moltiplicano perché dovrebbero aiutarci a gestire quel senso di vuoto, ma di fatto lo dilatano sempre di più.

È chiaro questo nei ragazzi. Quanto sono oggetto di preoccupazioni educative!? Quanti esperti hanno addosso!? Ma tutti in modo funzionale a un loro disagio.

Ma chi si prende cura di loro, tutti, così come sono, totalmente, senza considerarli un problema?

Per questo alcuni arrabbiati sfuggono a tutte le regole e si vanno a infrangere con gesti scellerati contro queste regole, ma altri, la maggior parte, si spengono lentamente, si sottraggono dall’appello della vita.

L’accumulo di regole dette da grandi esperti in realtà è ancora, almeno per me lo è stato,  un incremento di questo nichilismo.

La terza via fallimentare: la via dell’oceano

3. C’è una terza via, la via più insidiosa, che non sapevo come chiamare, allora l’ho chiamata: «la via dell’oceano» (adesso spiegherò perché).

Questo nome, “via dell’oceano”, viene da un apologo di Foster Wallace che è stato ripreso dall’ultimo cartone della Pixar (è stato un po’ modificato).  

Praticamente in questa storiella si dice che c’è un pesce giovane che va da un pesce vecchio e  gli chiede: «Qual è la via dell’oceano?» e il vecchio risponde: «Guarda, ci stai nuotando dentro».

Dice il pesce giovane: «Ma questa è l’acqua, io voglio andare nell’oceano».

E il vecchio vuole fargli capire: «Non c’è altro da cercare, qui c’è tutto, è già l’oceano».

Questa è la più grande tentazione del nichilismo, questo è il vero incremento, secondo me, del nichilismo.

Come a dire: cosa desideri di più? Non eccedere, accontentati di quello che hai, la vita è così, è fatta in parti uguali di gioia e di tristezza, siamo in questo grande oceano, non c’è altro.

Allora se vivi tristemente non ti preoccupare, prima o poi arriverà la gioia; se vivi la gioia, non prenderla con eccessivo clamore perché tra un po’ arriverà la tristezza; quindi accontentati dei messaggi stupidi che ci mandiamo su WhatsApp, di quella ilarità futile, perché questa è l’acqua dell’oceano; accettati per quello che sei e accetta gli altri per quello che sono; abbassa l’asticella del tuo desiderio.

Secondo me questa via è quella più insidiosa, perché accetta in partenza l’ipotesi del nichilismo, accetta in partenza che c’è questo tutto-nulla in cui siamo e non dobbiamo cercare altro.

Quindi accontentiamoci lentamente di farci conquistare da questo stalker che è il nulla, 

abbandoniamoci lentamente nelle sue braccia e piano piano ci troveremo a nostro agio,

quando scopriremo che la morte coinciderà col dissolversi della nostra goccia nell’oceano della vita.

Io non so se ancora in voi, di fronte a queste ipotesi, non vibra qualcosa, non urta qualcosa che si ribella.

Questo accontentarsi del vivere ogni giorno ciò che ci è dato perché di più non c’è.

In realtà qualcosa si ribella, almeno in me, e Carrón la coglie nel libro, perché la nostra umanità non si accontenta di abbandonarsi tra le braccia del nulla, non è soddisfatta di sciogliersi come una goccia nell’oceano.

Chi di noi si può sentire soddisfatto, in pace, vedendo i camion dell’esercito passare per le strade pieni di bare? 

Prima o poi qualcosa in noi si ribella.

Le “questioni della doccia

C’era un ragazzo, un alunno di una mia amica, che diceva: «Ci sono questioni che io chiamo “questioni della doccia», perché tu puoi scansarlo in tutti i modi questo stalker, ma prima o poi c’è qualcosa in te che si ribella.

Coprirai questo momento coi messaggi prima di andare a letto, ti ubriacherai di amicizie futili, cercherai di distrarti, ma nella doccia, prima o poi, ti sorprende.

È questa la sorpresa davanti a cui ci mette Carrón.

Guardando in faccia il nulla, lui ci fa accorgere che c’è qualcosa in noi che non è nulla, che si ribella al nulla.

Terzo punto

Questo è il terzo punto: la nostra umanità. Infatti scrive Carrón alle pagine 17-19:

«C’è in noi qualcosa che resiste, si fa sentire.(…) [Il nichilismo trova un punto di resistenza anzitutto in noi stessi].

È questa stoffa originale del cuore che si annuncia nella sua irriducibilità, magari sotto altri nomi, proprio al fondo del nichilismo [proprio quando ti impatti col nichilismo con coraggio]. Cosa resiste? Il mio io irriducibile».

Proprio quando guardi e hai il coraggio di guardare in faccia l’obiezione del nulla, emerge in te qualcosa che ti fa dire:

«No, io non sono questo nulla, io non voglio diventare così.

Io, comunque, anche se ho problemi fisici, sociologici, psicologici, culturali – metteteceli tutti – continuo a desiderare il bene, continuo a sperare in un mondo giusto, continuo a cercare la verità, continuo ad attendere quell’amore preferenziale sulla mia vita».

C’è un passaggio di un bellissimo romanzo uscito da poco che vi consiglio, ambientato nella bergamasca, che si chiama “Giugno”, dove un ragazzino di una baby gang, disastratissimo, viene mandato dalla mamma in punizione all’oratorio estivo, al CRE.

Il don, non riuscendo a gestire questo bambino, lo porta con sé a lucidare dei calici e la sorpresa è che questo bambino, cresciuto nella brutalità, potremmo dire, si sorprende di quei calici.

E commenta l’autore:

«Chissà, pensava don Federico, che forse a non vedere la bellezza per tanto tempo, si diventava affamati e quel ragazzino era così forse, uno che la bellezza la vede prima degli altri e meglio degli altri. Perché? Ha una fame boia».

Più  noi ci scontriamo con il nulla, più c’è questa fame che cresce in noi.

L’unico punto è quella mossa che ha fatto Carrón: guardarlo in faccia, guardarlo in faccia non come un disagio, non come un problema da tappare, ma

come un’occasione di maturità, e lì emerge il nostro io.

Quindi io credo che il nichilismo non sia un segno di decadenza della nostra civiltà rispetto magari ad altre civiltà che vediamo così convinte, così pronte a sacrificare la loro vita.

Non è una patologia.

Forse il nichilismo è un segno di radicalità della nostra civiltà, che o trova qualcosa in sé e davanti a sé capace di resistere al nulla o non è convinto.

È l’emergere dell’io in tutta la sua verità.

Dice: o c’è la bellezza, o c’è la giustizia, o c’è la verità, incontrabili, o tutto il resto va a favore di questo nemico che si apposta dietro le nostre giornate.

Vado a tagliare raccontando un episodio, perché mi accorgo di essere più lungo del previsto.

Mi ha colpito un episodio con un mio studente che con spudoratezza è venuto in camera mia, qui, due giorni prima dell’esame, a dirmi che non aveva studiato nulla durante il corso e vedendo che non aveva studiato nulla durante il corso si è fatto prendere da questa paura del nulla senza guardarla in faccia e non ha studiato nulla neanche durante la sessione.

Ma adesso, visto che al parziale aveva 23, gli dispiaceva fermarsi al 23 ed è venuto a dirmelo.

Vedete, c’è qualcosa che resiste.

E gli dico: «Bene, studia bene questi due argomenti e al massimo, forse, possiamo puntare al 25, ma se li sai bene bene bene. Hai due giorni».

Però poi non mi sono trattenuto da chiedergli: «Ma scusami, tutto ‘sto tempo cosa hai fatto?».

E lui non si aspettava questa domanda dal professore. Mi ha detto:«Video giochi, talk show, reality show, giardinaggio, ho fatto dei video..».

«Interessante, comunque non sei stato a dormire tutto il tempo a letto. Bene, bene».

Nell’esame fa i due argomenti bene, ma veramente bene, e a quel punto gli dico: «Ho una domanda a sorpresa».

Lo vedo sbiancare. Dico: «Parlami di come funziona quel videogioco».

E lui: «Sei serio?». «Sì, guarda lo metto a verbale: come funziona il video gioco».

Lui mi spiega tutto, dico: «Ma come ci si iscrive, dov’è la vittoria, qual è il piacere che ti dà, quante conoscenze fai, quanto dura una partita…Tutto

Gli ho detto: «Ma vedi che l’hai proprio studiato bene questo videogioco?! In te, per quanto tu pensi che sei incapace di studiare, c’è una capacità, è che l’hai usata sul videogioco, ma il tuo io c’è, non è il nulla che hai fatto.

Poi decidi tu, visto che devi fare il prete, se stare a vedere i videogiochi o impegnare questa tua intelligenza a studiare gli esami».

Ma al di là del fatto che poi purtroppo non l’ho più come studente, ogni volta che mi vede mi dice che si è spostato di fila, che fa domande in classe…Oggi mi ha detto: «Ho avuto la mia terza conversione della vita: la conversione allo studio».

Ma al di là di questo, la cosa che mi ha sorpreso è che non è stato un invito etico a studiare che lo ha smosso, è stato lo scoprire che quel punto di resistenza al non studiare lo aveva già dentro di sé.

È questo il passaggio che ci fa fare Carrón in queste pagine:

questa umanità è veramente umana, è veramente fatta bene, ed è non solo il punto di resistenza al nulla, ma anche il criterio di giudizio che ci permette di riconoscere che cosa è vero, che cosa resiste nel tempo, che cosa ci ama per sempre, che cosa non ci tradisce e perciò è giusto.

Non solo l’umanità come punto di resistenza, ma l’umanità come criterio di giudizio.

Questa è una cosa che Carrón ha sempre detto e sono molto contento che lo ha messo per iscritto in questo libro, perché è la sua conversione, direi io, sulla via di Damasco del suo sacerdozio che ha avuto nell’incontro con don Giussani.

Lui dice sempre che a don Giussani sarà grato a vita perché lo ha aiutato a scoprire questo cuore come criterio di giudizio.

Dice a pagina 39:

«Ricordo ancora come ho esultato di gioia quando ho sorpreso coscientemente in me quella capacità di giudicare che consente di fare esperienza nel rapporto con tutto».

Questa umanità, questo cuore, direbbe la Bibbia, allora è veramente ciò che sente così tanto fastidio, sente così tanta paura del nulla, non perché è sbagliato, ma perché è fatto bene; non è fatto dal nulla, non è fatto per il nulla, ma è fatto per l’essere.

Eppure, vado verso la conclusione,

ci capita che di questo cuore abbiamo paura.

A volte diamo più credito a questo sospetto che aleggia di nulla, che non a questa potenza che abbiamo dentro di noi.

Mi è capitato in questo tempo di ascoltare alcuni ragazzi che, per la prima volta, parlavano con me di alcune loro esperienze.

Esperienze bellissime, di una maturità unica: di innamoramento, di accompagnamento nella sofferenza, di intuizione della vocazione.

La cosa che mi ha impressionato è che io dicevo: «Ma tu di queste cose con chi ne hai parlato?». «Con nessuno, avevo paura a dirle, non mi ero reso conto che erano delle cose così grandi».

Anche in una lezione è venuto fuori: perché si ha così tanta paura a domandare e ci teniamo dentro le cose?

Perché  in questo clima nichilistico, come a questo punto ci ha insegnato Carrón,

il cuore non si protende nel rischiare un giudizio se non si trova davanti a una presenza certa dell’Essere,

a una presenza amica del cuore, come è capitato al cieco Bartimeo – ce lo dice Carrón nelle ultime pagine di questi capitoli – il quale quanto più Gesù si avvicinava, tanto più finalmente gridava: «Guariscimi!».

E non gli importava della folla che gli diceva: «Non dar fastidio».

Il cieco gridava. Così il nostro cuore più trova presenze certe dell’Essere, quanto più trova queste presenze, tanto più sussulta, grida, si rivolge a loro.

Don Giussani diceva:

«Io non riesco a trovare un altro indice di speranza se non il moltiplicarsi di queste persone che siano presenze».

don Giussani

E vado verso la conclusione.

Credo perciò che il nichilismo sia il segno non di immaturità, ma di maturità della nostra epoca e della nostra civiltà, perché adesso che è crollato tutto, e la pandemia ce lo rivela con ancora più evidenza, il cuore vuole o tutto o si abbandona al nulla.

E quella radicalità costringe ognuno di noi a svelarsi per quello che è.

Se uno sa qualcosa per cui valga la pena vivere, ma qualcosa non di futile, ma qualcosa che resiste per sempre, lo proponga, altrimenti è meglio che taccia.

L’unico argine al nichilismo è se c’è qualcuno così amico del cuore, così familiare a questo punto di resistenza al nulla, da poter vincere il tempo, da poter attraversare le cose che passano.

Insomma, l’Essere stesso.

La vera alternativa al nichilismo è che l’uomo possa dare del tu all’Essere eterno,

così come Pietro dava del tu a Gesù, così come io lo dico a un mio amico.

Per questo, in fin dei conti, ciò che vince fino in fondo il nichilismo è un uomo che possa dare del tu a un altro uomo, a un fratello, riconoscendo che in quel dire tu c’è la stessa presenza a cui dicevano tu Pietro, Andrea e Giovanni.

Cioè l’unica presenza – ad oggi non ne sappiamo di altre – che ha vinto la morte.

Concludo. Gli uomini, giovani e non più giovani, hanno bisogno ultimamente di una cosa: la certezza della positività del loro tempo, della loro vita, la certezza del loro destino.

Cristo risorto è affermazione della positività del reale, è affermazione amorosa della realtà. Senza la risurrezione di Cristo c’è una sola alternativa: il niente.

E noi siamo un punto di così grande radicalità e maturità che siamo posti davanti a questa alternativa.

Michela Milesi

Grazie don Pierluigi. Volevamo continuare il dialogo  con te ponendoti alcune domande.

Stefania

A pagina 24 del «Brillio degli occhi» si legge: «La domanda di significato, di amore, di compimento, è affermazione implicita di una risposta ultima che sta al di là delle modalità esistenziali sperimentabili, ma c’è».

A me il fatto che la risposta a questa mia domanda non sia sperimentale, sia qualcosa fuori dalla mia portata mi sembra, di primo acchito, una spiegazione troppo “astratta”, quasi insoddisfacente, perché non mi accontento di una cosa che non posso conoscere. Tuttavia, mi sto accorgendo che durante le mie giornata la ragione è costretta ad ammettere l’esistenza di un’”incognita”, proprio per la realtà che mi circonda. Una incognita che io non conosco e della quale non posso fare esperienza fino in fondo. Ad esempio proprio oggi dopo il catechismo una bambina di otto anni ha affermato: “A me piacerebbe essere sempre perdonata“. Oppure proprio nella libertà e nella bellezza di certe amicizie desidero sempre di più che non vengano mai meno.

Perciò mi viene da chiedere: che cosa  è quindi questa incognita, di cui parla Carrón nel libro  della quale io sono costretta ad ammettere l’esistenza per trovare una risposta  risposta a queste mie domande?

Don  Pierluigi Banna

Rispondo subito.

Il problema non è l’incognita che sta al di là della domanda, ma il problema è l’incognita che è la nostra stessa domanda.

Perché, come ci ha mostrato Carrón, noi guardiamo con troppa frettolosità noi stessi. Noi diciamo: «Va bene, ho bisogno di qualcosa. E quindi cos’è questo qualcosa? È qualcosa che mi devo immaginare, sì, ma non ci sarà mai»: obiezione nichilista.

Ma di cosa hai bisogno?

Perché hai bisogno?

Chi ti ha messo addosso questo bisogno?

Perché proprio adesso hai questo bisogno?

Qualcuno ti ha promesso qualcosa?

Cioè il problema è che la prima incognita, per utilizzare il tuo termine, ce l’abbiamo dentro di noi, perché  se ti fossi fatta tu, non ti saresti mai messa addosso questo desiderio.

E allora chi te lo ha messo addosso?

Quindi io oserei anche dire:

non solo ci deve essere qualcosa verso cui va, ma ci deve essere qualcosa da cui viene.

L’uomo di tutti i tempi ha perso tutte le sue energie a immaginare come sarebbe potuta essere questa terra incognita.

E anche quando si affannava a dire che tanto non c’era, di fatto continuava a immaginarla.

Ma, come ci dice Carrón,

non è forse arrivato il tempo di affilare le spade di questo incognito che è dentro di te in modo che quando intravvedi una risposta subito sei in grado di infiocinarla?

Forse io non rispondo alla tua domanda, ma secondo me innanzitutto quell’incognita è dentro di te.

Se cominci a guardare con simpatia questo mistero che è dentro di te, come un dono, come un grande regalo che uno si trova per casa e non come un rifiuto tossico da gettare e da mettere nella casella della risposta, allora uno incomincerà a dire: «Ma chi me l’ha dato? Ma cosa ne farò?» con una speranza che a qualcosa serva quel regalo lì che hai addosso.

Cristina

L’autore del libro, a pagina 25, afferma: «Se mi trovassi in una foresta, gridare Aiuto! sarebbe il gesto più ragionevole. Ma gridare implica la possibilità  che ci sia qualcuno che ascolta il mio grido. Per remotissima che sia, infatti, non posso mai escludere in modo assoluto la possibilità che un altro mi ascolti».

Poco prima scrive che è proprio questa, la categoria della possibilità, a definire la stoffa stessa della ragione.

E questo lo capisco: grido perché è possibile che qualcuno venga a salvarmi.

Così come capisco quando scrive che l’uomo è un grido, a prescindere dalla età, dalla nazionalità, dalla religione…. Io sono un grido, un grido di non perdere nulla di ciò che amo e pure di ciò che non amo, sono un grido di vivere e di vivere per sempre, di non morire, un grido che tutto sia per sempre: mio marito, i figli, gli amici, gli alunni, persino il mio cane. Io sono puro bisogno di quel tu di cui parlavi adesso, dell’Essere eterno che vince la morte. Sempre a pagina 25 scrive che lo stesso porsi della domanda ci costringe ad affermare l’esistenza della risposta.

Mi pare che l’autore del libro, Carrón,  sfidi la mia ragione a riconoscere che se ho questo grido di eternità allora significa che l’eternità c’è. A me non torna. Senza ombra di dubbio è possibile che ci sia, ma che questa stessa domanda sia la  documentazione dell’evidenza della sua esistenza, non mi torna. Mi aiuti a capire?

Don Pierluigi Banna

Sì, è molto utile questa domanda perché mi permette di approfondire quello che già stavo dicendo su questa incognita che è dentro di noi.

Questo desiderio che sia per sempre perfino il cane, da dove viene?

Chi te lo ha messo addosso?

Perché noi siamo portati a concepire le nostre domande come qualcosa che abbiamo creato da noi,

ma sappiano benissimo quanto la vita ci sarebbe più comoda se noi non ce le facessimo.

Tanto che uno dei tentativi che ho detto è «cercare di anestetizzare le domande, immergerci nel tutto dell’essere nulla».

Allora forse dovremmo cambiare, ed è quello che io propongo, il modo di pensare queste domande.

Se queste domande fossero come una risposta a un appello che qualcuno ci ha fatto?

Nessuno di noi ha scelto di metterci al mondo.

Anzi, se ci pensiamo in questo momento non ci diamo la vita.

Per quanto in una ipotesi tragica noi possiamo cercare di mettere termine alla nostra vita, non abbiamo deciso noi quando nascere.

Nessuno ci ha chiesto il permesso per metterci al mondo.

Non è che già il primo vagito del bambino che vuole attaccarsi alla mamma, più che una domanda è una risposta di una chiamata alla vita che non si è dato da sé?

Come cambia lo sguardo su di sé, se uno comincia a percepirsi, istante per istante, voluto, messo al mondo da qualcosa che non sei tu, che non è la tua autodeterminazione.

Di fronte a questo può scoppiare la ribellione: perché mi hai fatto disabile e non mi hai fatto ricco?

Ma già questoperchéè una risposta a qualcuno su cui tu non hai potere, in cui puoi anche dire di non credere, ma per il solo fatto di porre la domanda stai implicitamente affermandone l’esistenza.

Allora io la guardo così.

Se tu incominci a vedere questi tuoi desideri come l’espressione del fatto che istante per istante, tu non ti possiedi, di fatto ti spingi a voler capire chi è questo padre che ti ha generato e che tu non hai visto, non hai conosciuto come tuo padre, come  un figlio adottivo che spende tutta la sua vita a voler conoscere chi è il suo padre biologico.

Io potrei dirgli in tutti i modi che quel padre non c’è, eppure ce l’ha nel sangue, ce l’ha nel DNA l’ipotesi che quel padre ci sia.

Per questo ti dico che il problema non è un fatto di logica: se hai sete c’è l’acqua.

Ma è un problema di come concepiamo noi stessi;

perché un uomo che si concepisce così, che dice:

«Io posso essere malato, posso essere disabile, posso essere di questo colore o di quest’altro colore,  ma per il solo fatto che ci sono, qualcuno che non è neanche controllabile con la genetica dei miei genitori, mi ha voluto».

Quest’uomo è un baluardo,

finché c’è un uomo così è un baluardo contro tutte le tentazioni nichilistiche di questo mondo.

Allora tutto lo sforzo che noi possiamo appassionatamente coinvolgere con la nostra vita non è tanto a convincere gli ideali sull’esistenza di Dio – lo dico da prete -,

ma è a generare uomini così certi dell’esistenza che sono come dei baluardi davanti al nulla.

Michela Milesi

Io sono gratissima di questa sera. Perché quello che ci hai detto mi fa dire: come siamo fatti.

Siamo meravigliosi e misteriosi allo stesso tempo e non dobbiamo aver paura delle nostre fragilità, delle nostre domande, delle nostre insicurezze perché se prese sul serio sono la strada per conoscerci di più e per conoscere di più gli altri.

E mi viene da dire, riprendendo una frase di don Giussani scritta nel libro «Come è umana la mia umanità».

Un’umanità che deve tutta fiorire e in che modo lo vedremo nel prossimo appuntamento il 23 aprile alle 21 con Guadalupe Arbona Abascal, scrittrice e docente di Letteratura spagnola e di Scrittura creativa all’università Complutense di Madrid.

Con lei affronteremo il 3 e il 4 capitolo del libro nell’incontro dal titolo “Qualcuno che ci indichi la strada”

Invito poi chi vuole a partecipare ai nostri momenti di preparazione degli incontri, scrivendo a info@bergamoincontra.com. Se volete, potete anche scriverci per raccontarci che cosa hanno suscitato in voi le parole di don Banna e la lettura del libro.

Trascrizione non rivista dall’autore.

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