1985 Esercizi spirituali – «RICOMINCIARE SEMPRE»

Esercizi spirituali di don Luigi Giussani (1985)


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Indice linkato dei vari momenti


Introduzione (11)

(13) «La tristezza che c’è in me, l’amore che non c’è, hanno mille secoli». Come è grande e vasto il male nel mondo!

E noi non sappiamo normalmente legare i fatti più gravi, le ingiustizie più clamorose, le violenze più ripugnanti, alla stessa radice che, in forme più meschine, fa comportare anche noi con violenza, con ingiustizia tutti i giorni.

Allora qual’è il problema numero uno, il problema primo per noi, da risolvere subito, perché non si può procrastinare neanche un istante?

RICOMINCIARE!

Ricominciare è una parola molto vicina alla parola più cristiana, alla parola finale cristiana: «Risorgere», «risurrezione».

(14) Starei per dire:

in ogni azione, in ogni momento, ci è necessario questo ricominciare.

Qualsiasi cosa facciamo, infatti, la nostra naturalità pesa sull’animo e tende a far assumere allo slancio un’obliquità, a fargli compiere una parabola immediatamente discendente, e così l’azione di sfascia nella sua bellezza, si stanca nel suo slancio, si corrompe.

Come è grande il Signore che, attraverso la sua Chiesa, appena si riunisce ci fa dire: «Pietà di me, Signore, che sono peccatore».

(16) Un fattore da non dimenticare, che pesa sulla nostra gracilità e debolezza, è la mentalità che ci circonda.

Perciò noi, fuscelli dentro questa tormenta che da tutte le parti ci investe, come faremo a resistere,

come faremo a ricominciare sempre?

(17) Questa lotta però, non è però solo fra ciò che è fuori di noi e noi, è anche in noi.

In noi vi sono questa empietà, questi ragionamenti errati […] soprattutto questa ribellione alla familiarità di Dio con noi: io credo che questo sia l’ostacolo più grande.

La familiarità che Dio chiede all’uomo, questa che non può essere sopportata.

Perché una familiarità di Dio con l’uomo significa un Dio che troviamo appena alzati al mattino, che si siede con noi a mensa, che esce con noi per la strada, che sta là dove lavoriamo, che è presente nei nostri rapporti familiari, nella nostra vita familiare, per cui il nostro modo di vivere non ha ombre, non ha rifugio di tenebre, e tutto viene alla luce.

È la familiarità di Dio con l’uomo che anche a noi ripugna e ad essa ci ribelliamo in vari modi: «E’ impossibile!» o «Come si fa?».

Così, di fronte a questa ostilità esterna che determina l’aria che respiriamo, la nostra povertà e la nostra fragilità diventano veramente grandi: e il bene diventa impossibile.

(18) Ricominciare, questo è il punto.

La risurrezione è il mistero che noi dobbiamo sperimentare, a cui dobbiamo partecipare.

Se riflettiamo bene, di fronte a Cristo questo sperimentare dovrebbe essere sorgente di stupore e di gratitudine senza fondo.

Ma le nostre giornate non sono piene di stupore e di gratitudine

come invece lo sono quelle dei nostri bambini piccoli che si aprono alla vita.

(19) È una preghiera la prima saggezza, è una domanda a Cristo che ha vinto la morte e, nella morte, ha vinto tutto il nostro male.

Ricominciare! Il risorgere diventa, ogni giorno, ogni ora e ogni momento possibile.

(20) È per Colui che è tra noi che ci siamo raccolti ed è per Colui che è tra noi che ognuno di noi riprende, ognuno di noi ricomincia, ognuno di noi rinasce, ognuno di noi risorge.

Il luogo del dramma umano è il cuore nato da tua madre, sei tu, la persona nata da una donna, il figlio di un padre e di una madre, ma «figlio di Dio», parte del mistero di quell’Uomo in cui tutto il nostro male e tutta la nostra destinazione cattiva sono stati riassunti e bruciati, nella sua morte e risurrezione, e che

adesso attende, pulsando alla porta del tuo animo, di vivere in te, di farsi vedere in te, di mostrarsi in te, poco o tanto, non esiste misura.

Guai a chi di fronte al Destino, di fronte a Cristo, prende il metro e usa la misura.

Per ogni giornata e ora e istante della nostra vita, la risurrezione, la ripresa, il ricominciare debbono dettare il cammino, debbono essere la legge.

Abbiamo una sola legge: riprendere, ricominciare, risorgere.


Omelia (20)

(21) La prima verità è che ognuno di noi non è degno di ciò da cui, istante per istante, è costruito, è fatto.

Ma c’è una osservazione ulteriore: nessuno, più che a noi, questo Padre, ha fatto sentire la sua parola.

Quante persone nel mondo sono state investite dalla Sua parola come noi?

Eppure quanta lontananza, dimenticanza, superficialità, irresponsabilità, tradimento c’è in noi!

Indubbiamente, il tradimento più grande è la dimenticanza.

(22) In questa giornata che ci riunisce, dobbiamo partire da questa prima verità: «Signore, io sono peccatore. Come sono venuto meno, lungo tutto l’arco di quest’anno!»

Ma la seconda verità costruisce sulla prima: «Signore, io ti riconosco».

«Riconosco, Signore, che io debbo amarti con tutto me stesso».

Che cosa significhi amarti con tutto me stesso è ciò che dovrei imparare da questa compagnia in cui mi hai dato di camminare.

La seconda verità è questo riconoscimento che abbiamo di te, o Signore.

Il nostro errore non ci definisce, il nostro peccato non è ancora la nostra tomba.

Noi riconosciamo che dobbiamo risollevarci e riprendere la corsa verso di Te, che dobbiamo riprendere il rapporto con Te in un altro modo, più pronto, più diuturno, più conseguente, con quel coraggio che Tu ci infondi, perché l’hai promesso.

(23) Costruiamo il cammino di questa giornata con tale duplice verità: «Io sono peccatore, Signore. Ma ti riconosco, aiuta la mia debolezza.


Apparteniamo a un Altro (24)

(24) Il nostro viaggio è incominciato e incomincia di nuovo, ogni volta, dalla verità del nostro cuore.

Ma metànoia, il cambiamento nel sentimento di sé, questa è la partenza.

E il vertice di questo cambiamento, il frutto supremo di questo cambiamento, è la capacità di perdono.

Qual è il punto di partenza, la prima verità?

Il problema non è enunciarla, il problema è che essa penetri nel nostro cuore, diventi a tal punto fattore normale del colore del mondo, del clima della nostra vita […] diventi così abituale che poi incida, determini tutti gli altri atteggiamenti.

Che cosa è l’uomo?

(25) «Vedi, in pochi palmi hai misurato i miei giorni e la mia esistenza davanti a te è un nulla. Solo un soffio è ogni uomo che vive, come ombra è l’uomo che passa; solo un soffio che si agita, accumula ricchezze, ma non si sa chi le raccolga» (Sal. 39,5-7).

Questa nullità o questa vanità costituisce, obiettivamente, il primo sentimento, il primo riflesso che l’uomo può avere su di sé.

Tutto il nostro orgoglio è come svuotato di contenuto da questa riflessione sul nulla che siamo.

(26) Ribellioni, reazioni, diritti conclamati, rabbie, orgoglio, progetti e presunzioni: nulla permane.

(27) Ma non è per nulla il nulla dell’uomo.

Non è per nulla il nulla mio; questa vanità non è per nulla.

C’è un filo a cui è sospesa, c’è un Presenza che la attira, con la quale ha una simpatia inesorabile, invincibile.

È uno dei pensieri più famosi e più espressi di Dante, là dove dice che ciascun uomo «confusamente un bene apprende», intuisce un bene, «nel qual si queti l’animo» che lo renda felice, «e disira», e per questo è pieno di desiderio, «per che di giugner lui ciascun contende».

La vita è tutto un tentativo di raggiungere questo bene confusamente appreso.

(28) L’uomo è un nulla destinato, un nulla proteso da una forza che non può provenire da lui, perché è niente; ma proteso da questa forza, quasi uno sprone che continuamente lo punge: «Sì che, sedendo più che mai son lunge / Da trovar / pace o loco» (Leopardi – “Canto notturno di un pastore errante per l’Asia”, vv. 119-121).

(29) «Anch’io come chiunque altro ho in me fin dalla nascita un centro di gravità».

Dai Diari di Kafka

Il resto della mia vita, il mio corpo, non c’entra e non si basa, su questo centro di gravità.

«E un centro di gravità che non lavori diventa piombo». Così Dio diventa estraneo.

Si perverte in noi ciò che dovrebbe essere anima della vita.

E la vita, senza quest’anima, manca di vita, o come diceva il salmo, «accumula ricchezze e non sa chi le raccolga» (Sal 39,7).

«Non c’è cosa più amara dell’alba di un giorno / in cui nulla accadrà. Non c’è cosa più amara / che l’inutilità […] la lentezza dell’ora / è spietata, per chi non aspetta più nulla»  Pavese.

(30) C’è qualche cosa, però, che il corpo estraneo che è in noi produce, perché non lascia tregua.

È un desiderio di mutamento, che il più delle volte è disperato.

Io credo che non esista niente di più caratterizzante il fatto di essere uomini vivi che questo: se desideriamo veramente ancora mutare, se il desiderio di mutamento non è immediatamente bruciato dalla disperazione; disperazione senza gesti inconsulti, senza esasperazioni, disperazione ottusa, disperazione calma, quotidiana, disperazione banale.

(33) Vi è in noi quel «centro di gravità», quel qualcosa di grande che è accaduto, «e stiamo così, paghi, nel diverso»: questa è la dimenticanza.

La dimenticanza definisce tutto il tempo delle nostre giornate.

Come sono provvidenziali le abitudini alla preghiera, ma la dimenticanza invade, investe, determina, anche la preghiera!

E là dove un briciolo di attenzione riflessa noi poniamo, …Ecco la scetticità che ci prosciuga l’energia del desiderio e l’energia del volere.

La scetticità è, infatti, lo strumento della menzogna per distaccarci dall’impegno con la vita e le sue provocazioni, e la sua vocazione.

Allora, presi dalla scetticità, noi fuggiamo sempre più dal “centro di gravità”, dal Destino che il fondo di noi stessi pur ricerca, e poniamo la fiducia nelle cose che facciamo noi, poniamo la fiducia nelle nostre cose, nel nostro avere, e perciò nella nostra violenza, perché l’avere nostro è in qualche modo violenza, se non è offerta al Destino.

Se non è un passo al Destino ciò che facciamo, ciò che possediamo è violento, pardon, è nella violenza.

(34) Così noi, quando diciamo di porre la nostra fiducia in Dio, la poniamo in una nostra immagine di Dio, un Dio che non ha più da essere obbedito, che non cambia nulla di noi, che non muta, non converte, perché è la proiezione di quello che attendiamo noi, che abbiamo deciso noi di attendere.

(E’) dentro di noi, qualcosa di riconosciuto, ma di estraneo a noi.

(35) Tutta questa riflessione sul nostro niente, sulla vanità delle cose che ci dicono addio mentre noi le afferriamo e pure su questa presenza di un destino che ci piega a desideri infiniti, davanti ai quali noi ridiventiamo tranquillamente abitudinari, che teniamo dentro come un corpo estraneo.

Come facciamo a reagire di fronte al nostro peccato, alla nostra nullità?

Questo è il grido del dolore, o la domanda di perdono.

La domanda di perdono ci trasforma improvvisamente dal profondo,

ci trasforma e ci rende vivi, ci dà una strana solidità perché […] ci fa riprendere la serietà della inquietudine che Leopardi ci ha ridetta, scioglie il piombo che è in noi, scioglie quel “corpo estraneo” e lo identifica con il sangue che circola ogni giorno, con il calore del nostro corpo, cioè del nostro cuore e dei nostri desideri, e l’azione che compiamo muta, incomincia a diventare possibile il mutamento.

(37) Amici miei, se il destino sta dentro di noi, se questo corpo estraneo sta in noi, e nessuna pazza educazione lo può togliere, improvvisamente può rinverdire la nostra secca vita e sciogliere questa misteriosa cosa che è in noi e che non è in noi.

Perché questo è possibile? Che cosa significa tutto questo?

(38) Significa, fratelli miei, che noi non siamo coloro che possiedono loro stessi, noi non ci possediamo. Se io dico: «Abbi pietà», è perché appartengo a un Altro.

Gli appartengo: questa è la parola che dalla prima pagina all’ultima della Scuola di Comunità dovrete personalmente perseguire.

Non esiste parola più veritiera e consolante di questa.

Più veritiera di questa perché siamo niente e più consolante di questa perché indica dove sta il nostro tutto: noi nonostante siamo niente, ci appoggiamo al tutto e possediamo tutto – il tutto!-.

Noi apparteniamo.

(39) Noi siamo possesso Suo – Suo -: non importa se è senza volto.

«Sono Tuo, sono di Te».

Non c’è nessuna definizione sostanziale più vera di questa, più grande di questa, e ogni altra cosa, ogni altra risposta è piombo che rimane come corpo estraneo in noi.

(40) «Tutta la legge dell’umana esistenza sta solo in ciò: che l’uomo possa sempre inchinarsi all’infinitamente grande».

Dostoevskji

Ma noi ci inchiniamo all’infinitamente grande nella giornata della nostra vita?


Vivere l’ideale dell’istante (41)

(41) Questa è la prima verità, anche cronologicamente:

non c’ero, ci sono.

Nell’esperienza della nostra nullità, della nostra fragilità totale, c’è un senso del destino;

l’uomo è quel livello della natura in cui la natura percepisce il destino, d’essere destinata.

Se quello che abbiamo percepito non si scioglie e non lievita, se non vive, se non si sviluppa in un organismo, resta come una palla di piombo, un corpo estraneo dentro la nostra vita, che non ha più il baricentro, il centro di gravità.

Questo è il peccato: non l’incoerenza e la fragilità, che hanno una consanguineità così grande ed evidente con la nostra nullità da destare compassione, ma

il tentativo di annichilire la percezione di questo qualcosa di grande, cioè l’indifferenza al Destino.

(42) Il peccato è una dimenticanza, il peccato è la scetticità che protegge il disimpegno,

il peccato è la fiducia in qualcosa che facciamo noi, con le nostre mani, che non c’erano e che se hanno un valore è solo per ciò a cui sono destinate, per il rapporto con il Destino, con un Altro, con qualcosa d’altro.

Alla disperazione amara deve subentrare un grido; questa disperazione deve essere vinta da un grido.

È nel grido e nella domanda di perdono che il nostro peccato incomincia a diventare qualcosa d’altro.

Inizia così un cambiamento, con un orizzonte ancora ignoto.

1° punto   

(43) Dobbiamo ora vedere come rendere vivo quel centro di gravità che sarebbe altrimenti come un piombo, dentro di noi, qualcosa di estraneo, senza nesso.

Come redimere l’originale senso del nulla e l’attuale senso del peccato, della sproporzione, dell’ingiustizia, dell’ottusità connivente?

(44) Solo dopo un incontro, l’incontro del roveto ardente, (Mosè), […] cioè solo per obbedienza, iniziò la sua epopea di liberazione.

Occorre partire da una appartenenza,

essere posseduti da qualcosa, da un ordine più grande, allora si parte.

Vale a dire, occorre essere in comunione con qualcosa di più grande per operare la liberazione.

Il che vuol dire che l’uomo appartiene.

(46) Il tempo ci è dato per questo, avendo quell’incontro mutato la nostra vita.

(46) Si chiama «nuova creatura», si chiama rigenerazione.

«Se uno non nasce di nuovo non capirà nulla della realtà» diceva Gesù a Nicodemo.

Per ognuno di noi, essendo avvenuto questo incontro, deve accadere la grande novità in cui tutto lentamente, pazientemente, umilmente, ma inesorabilmente si organizza:

tutto diventa un corpo, il Suo;

tutto acquista un significato, il Suo;

tutto porta un nome, il Suo.

Per ognuno di noi deve accadere questo.

Io mi permetto di essere indiscreto, ma ognuno deve seguire quello che il Signore gli fa sperimentare nel momento di vita che sta passando.

(47) Nel mondo che si muove e che diventa storia, nel tempo che passa, c’è una Presenza che nessuno potrà estirpare, nessun potere potrà far tacere, e che raggiunge l’uomo che il Padre sceglie e dà una mano a Cristo.

È Cristo l’incontro che può rendere organico il senso del destino, redimere il senso del nulla e del peccato.

«Il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».

(48) L’uomo è tutto affannosamente attaccato al passato o irosamente teso al futuro.

Non c’è nulla che possa dare all’istante un diritto di rispetto o una dignità di contenuto, nulla, perché tutto è vano:

vano l’istante passato perché è passato e vano quello futuro perché non c’è ancora.

L’istante è reso vero solo – solo! – dal suo rapporto con il Destino.

Amore e ardore, altruismo e dedizione hanno solo questa sorgente, nell’istante reso pieno dal rapporto con l’infinito: Cristo!

Amore e ardore, altruismo e dedizione hanno solo questa sorgente, nell’istante reso pieno dal rapporto con l’infinito: Cristo!

(49) Di fronte alla presenza di Cristo si gioca tutta quanta la nostra libertà.

Dio si è fatto uomo, è qui che ti chiama.

«Sarò con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

(50) Posso essere l’ultimo fra gli uomini, l’ultimo nel senso greve del termine, pieno di errori e di delitti, ma lo sguardo serio a Cristo mi cambia.

Solo l’incontro con Cristo, solo la comunione di questo incontro, il legame di questo incontro, può liberare l’uomo.

Questo incontro è l’incontro di una libertà suprema con una libertà creata:

è con la mia libertà che la Sua scelta si misura.

(51) Questo cambiamento, questo mutamento, questa conversione è, infatti, destinata alla gioia, una gioia senza fine, ma una gioia che incomincia in questo mondo.

Umanamente parlando, la gioia è possibile solo dimenticando o rinnegando qualcosa, e allora non è più gioia.

Ma l’incontro con Cristo inizia un movimento che subito ha il sapore della gioia, la gioia profonda di Pasqua.

«Pasqua» vuol dire cambiamento.

È la gioia profonda di un passaggio che dura tutta la vita.

Perciò uno resta tale, col suo temperamento, e quindi con tutti i suoi limiti e con tutti i suoi difetti, con la sua libertà, e quindi con tutti i suoi peccati, eppure muta, cambia.

È come dalla morte passare alla vita.

2° punto (51)

(51) Primo – Innanzitutto si realizza una chiarezza di idee, di pensiero, una chiarezza di coscienza di Dio.

Dio non è più manipolabile.

Il Dio di Cristo non è il Dio dei morti, ma dei vivi; non è il Dio delle misure del nostro pensare, dei nostri goniometri e dei nostri metri, no, è il Dio vivente, che non può essere manipolato a nostra discrezione.

Quel passaggio si dettaglia innanzitutto in una chiarezza di idea, di immagine, di coscienza su Dio, al quale ci si rivolge, con il termine grande, il più grande: «Padre»

L’intensità e la completezza dell’amore non è infatti nell’esperienza tra l’uomo e la donna, ma nell’esperienza del rapporto genitore-figlio.

Per questo il mondo di oggi, che odia ogni compimento e frantuma tutto, odia innanzitutto, soprattutto direi, unicamente il padre, perché

il padre indica il principio dell’appartenenza.

E quindi non esiste più possibilità di organicità tra gli uomini del mondo d’oggi.

Tutti sono soli, in una caparbia volontà di autonomia.

Ciò che domina è la reattività, vale a dire ciò che domina è il potere, perché la reattività dell’uomo è tutta quanta manipolata dal potere.

«Coloro che li tengono alienati e schiavi, li chiamano benefattori»

Lc 22,25

(53) Tutto ciò che sono appartiene a Lui.

È il superamento di schianto di ogni moralismo, perché il punto non è più un seguito di leggi, ma l’avvenimento, l’evento di un’appartenenza, il fatto di una appartenenza, come un feto appartiene all’organismo della madre; e il comportamento è semplicemente una derivazione di questa appartenenza.

(54) Esiste un solo caso in tutta la storia, in tutta la letteratura universale, di un uomo che abbia osato dire non: «Io vi faccio vedere la strada alla vita», ma: «Io sono la via, la verità e la vita».

Dunque una chiarezza di idea su Dio.

Noi non possiamo tergiversare, non possiamo pasticciare,

non possiamo piegare Dio a nostro uso e consumo.

Secondo. La parola che definisce ultimamente Dio è «misericordia»

Io confesso che non ho mai trovato niente di più persuasivo della divinità reale di ciò che c’è tra noi di questa parola: «Misericordia».

La misericordia! Perciò non esiste niente di più antitetico a Dio, di più ribelle a Dio che, per qualunque motivo, dubitare della sua capacità e possibilità di misericordia.

(55) Non esiste «ma»!

Stamattina abbiamo indicato la sorgente del peccato come dimenticanza, come scetticismo, come fiducia nelle cose che fanno le nostre mani.

3° Punto

(55) Il dettaglio prosegue su questi punti.

In primo luogo

Cristo combatte la nostra dimenticanza.

Si chiama memoria l’opposto della dimenticanza: «Fate questo in memoria di me»

«Questo», cioè cosa? Tutto! Perché il pane e il vino sono il segno cosmico, il segno di tuto, di tutto l’orizzonte della coscienza attiva.

(56) L’opposto della dimenticanza è la preghiera.

La parola «preghiera» non la si può capire se non la si fa coincidere con la parola «domanda»; ma anche la parola «domanda» diventa subito riconducibile a una nostra misura di pretesa, se non coincide con lo stupore della Sua presenza, lo stupore della sua presenza riconosciuta.

(57) Questa è la nostra miseria, il non chiedere!

La ricchezza del povero è invece di chiedere, è la ricchezza del nulla cui è stato dato di essere.

Chiedere, questo è l’inizio del reale cambiamento, del mutamento, è l’inizio della conversione.

Tutti i giorni dovrebbero essere testimoni di questa vita di Dio in noi.

(58) Altrimenti senza domandare a uno presente, tenti di determinare tu Dio.

In secondo luogo,

lo scetticismo.

Badate, per favore, che lo scetticismo è un veleno o un serpente che entra surrettiziamente, senza che nessuno s’accorga, in tutti. […] e stacca la corrente della vita, stacca dall’impegno con il reale.

(59) E, in terzo luogo,

Cristo combatte con chiarezza la fiducia che poniamo nelle cose, nelle cose fatte da noi

o nei tempi stabiliti da noi e proclamati con pretesa davanti a Dio, nelle modalità da noi fissate.

Noi, insomma, camminiamo secondo una convenienza umana – quella che san Paolo chiama «carne».

L’ideale non c’entra normalmente con la valutazione delle cose concrete,

sembra, sembra non c’entrare:

noi dobbiamo invece vivere la convenienza umana con una stima che superi i termini della pura convenienza.

Ciò che determina quello che fai deve essere una stima che sembra non c’entrare con quello che fai.

Vale a dire, mentre tu fai i passi, devi amare la meta più dei passi.

Nei passi devi amare qualcosa d’altro.

Ami, se e nella misura in cui ami la meta.

(62) Insomma, qualunque strada sia stato chiamato a compiere, tu appartieni, e devi affrontarla con la coscienza di questa appartenenza, e questa appartenenza al valore più grande può implicare il sacrificio anche della vita.

Cristo produce una inclinazione potente di fedeltà alla legge,

perché la legge è il riverbero dell’ideale sulle circostanze.

Perciò Quello che fai è un amore, anche se imposti un tuo progetto economico, un tuo progetto di carriera, perché nulla in sé è decifrabile come male, nulla: la malignità o la bontà stanno solo nella coscienza ideale con cui uno porta avanti le cose, qualsiasi cosa.

(63) «L’ideale» significa la totalità di cui è funzione quello che fai.

Perciò la fedeltà alla legge, come la descrivo, non è nient’altro che l’affermazione dell’amore come supremo dinamismo della vita:

nell’affermare me stesso affermo te.

È la gratuità come anima strana di tutto ciò che si fa.

C’è una gratuità che rende umana l’osservanza della legge, e prima ancora la rende possibile.

(64) Gratuità e amore non sono contenuti di momenti eccezionali, di preghiera e di emozione, sono il clima di profondo, l’intendimento che fa la compagnia al soggetto che si esprime, sono il cuore.

Per questo il movimento è là dove lavori, esattamente come quando partecipi ad una iniziativa comune.

Non solo Cristo ci rende fedeli alla legge, ma ci rende liberi dall’esito:

vi è cioè la redenzione della fiducia nelle nostre cose, partendo dalla coscienza di appartenenza e quindi partendo dalla coscienza dell’ideale, che diventa tutto ciò che facciamo, anche mangiare e bere.

E questa è la nostra partecipazione alla croce: si chiama sacrificio.

È alienato l’uomo che riconduce la sua felicità, la sua gioia, la sua contentezza, la sua stima, all’esito dell’opera delle sue mani.

Vivere il momento:

forse questa è la formula che racchiude più potentemente la capacità redentiva di Cristo, liberatrice dell’uomo, cioè che la comunione con Cristo fa realizzare.

L’impeto di abbracciare il mondo caratterizza il cuore dell’uomo.

Ma ciò avviene se uno vive il limite del momento.

(66) Questa è la giustizia: non è grande, se non chi nell’istante vive la coscienza del rapporto eterno, del rapporto con l’infinito che si è rivelato in Cristo, del rapporto con Cristo.

Allora uno salva il mondo, cioè ama il mondo e lo porta, lo trascina con sé.

Altrimenti uno, nel momento, nell’istante, ama sé stesso e si corrompe, rompe cioè l’unità del disegno totale e tutto si frammenta.

Questa dunque è l’unica alternativa: o amare Cristo e nell’impeto dell’istante, abbracciare il mondo, vivendo il limite del momento nel rapporto infinito, e allora tutto si salva, uno abbraccia il mondo, cioè salva il mondo, lo trascina con sé, proietta sul mondo la sua libertà e la sua verità.

O altrimenti uno, nell’istante effimero, ama sé stesso e si corrompe, e l’effimero non ha più storia, non edifica, non genera, è inutile.

E nella coscienza dell’inutilità non è possibile la letizia.

La letizia è possibile nel dolore fino alla morte,

ma non è possibile nella percezione di una ultima inutilità.


Omelia (67)

(Vangelo Mt 5,21-22.27-28)

La morale è la questione della vita.

Il rapporto tra la vita e il destino è tutto quanto nella verità che si attua dentro l’azione e perciò attraverso la nostra libertà.

È la verità che per l’uomo diventa affezione.

La moralità vera sta allora nella affezione, in quella affezione al destino che è il Mistero.

La moralità è quella affezione a Cristo e al Padre che, nei vostri bambini, si riverbera come disagio e come mortificazione tutte le volte che registrano il riverbero di scontento o di delusione sul vostro viso per quello che hanno fatto.

Ma, sbaglino mille volte al giorno, non potete dire che vi vogliono meno bene.

(68) Mendicanza del Signore!

Perché il gesto supremo di gratuità è mendicare Cristo, è mendicare il Signore nella nostra vita.

Se anche per sessant’anni, settant’anni, ottant’anni, novant’anni dovesse uno dovesse mendicare nella umiliazione della sua fragilità e della sua debolezza, che gratuità stupenda!

La morale è tendere a Dio.

(69) La moralità prosegue nella vita l’assetto originale con cui Dio ci ha fatti, facendoci uscire dalle sue mani: la tensione a Lui.

Un giorno senza tensione a Dio è immorale.

(70) L’affezione a Dio è l’affezione a Dio fatto uomo, perché non esiste più Dio, se non dentro e attraverso il Dio fatto uomo.

L’affezione al Mistero, al Padre che ci fa, al Destino, alla felicità che ci attende, è l’affezione alla Presenza che ci accompagna: «Colui che è tra di noi»

L’uomo è definito da questa affezione.

L’offerta è come il frutto immediato di questa affezione:

«Ti offro, io che sono così labile e peccatore».

E questa affezione aumenta il senso del bene, fa struggere il cuore dal desiderio – sì – della perfezione!

Ma il cuore resta umile.

(71) La moralità ha come suo clima verificante l’umiltà, perché l’umiltà è la coscienza del nostro niente e di ciò che conferma il nostro nulla in modo paradossale, approfondendolo, se si può dire così, rendendolo più grave: è il senso del nostro peccato.

Soltanto nell’umiltà di chi è profondamente teso a Cristo, ama Cristo,

vive l’affezione al Mistero che lo crea, lo attende e lo accompagna, solo per chi è in questa umiltà la compagnia risalta in tutta la sua provvidenzialità.

La compagnia è la grazia, il segno fisico della grazia.

Solo l’umile non si scandalizza che la compagnia sia fatta tutta da gente come me, come lui, e guarda soltanto all’aiuto pieno di forza che attraverso di essa il Signore gli dà.

(73) Allora amare Dio, l’affezione a Cristo, che è l’essenza della moralità, si rivela come affezione alla compagnia, come ascolto; si rivela proprio come capacità di sequela.

Ogni obiezione – ogni obiezione! – alla sequela è immoralità, è l’immoralità profonda che si accusa.


Assemblea (pag.73)

Intervento (73): «Si rischia di identificare lo strumento, cioè la Fraternità, con lo scopo. L’amicizia tra noi della Fraternità spesso stenta a diventare uno spazio umano».

Giussani: «Si può dire che, non paradossalmente, ma con una contraddizione palese, addirittura la trama dei rapporti, il modo dei rapporti nella fraternità non ha l’ampiezza, il respiro del movimento».

Intervento (73): «La capacità di stare a una amicizia e di muoversi nell’azione dipende da quanto sappiamo contemplare il movimento come una novità umana per la nostra vita. Non dipende, quindi, da uno sforzo della nostra intelligenza o generosità, ma dalla stima all’esperienza storica del movimento » .

Giussani: «Una Fraternità dovrebbe essere l’ambito dove la caratteristica, la natura, la fisionomia del movimento è più viva e più vivacemente vissuta.

Il movimento è la fede che investe lo spazio umano. Lo spazio umano è la totalità dei fattori di una persona, la totalità di una persona.

La Fraternità deve essere il luogo dove uno impara a guardare una persona secondo la totalità del suo spazio umano. È una compagnia, è una cordata per una vetta, che non è difficile se non in quanto l’uomo ha la strana tentazione di non volerla».

Intervento (74): «La seconda cosa era una esigenza che ciascuno di noi potesse diventare di più presenza incontrabile, soprattutto nel livello più pubblico in cui si gioca».

Giussani: «Cioè l’esigenza è che l’esperienza della Fraternità renda ognuno più missionario. Altrimenti che scopo ha? Ha lo scopo di scaldarci gomito a gomito. Allora potete scegliere chi volete, soprattutto se siete equivoci».

Intervento (75): «Io partecipo a una Fraternità di Milano e volere dire il disagio che mi si è chiarito per certi incontri fatti. Mi è sembrato di capire che tante volte la tentazione è quella di fare della confraternita il luogo in cui cercare una spiritualità. Alcuni hanno deciso di costituirsi in una Fraternità. Che futura ha questa cosa? Voglio dire, è possibile che la Fraternità fra di noi possa essere un alibi, come una sorta di esonero dal vivere il movimento?

Giussani: «La Fraternità o non è nient’altro che la maturità di fede, quindi di volontà di ascesi, oppure la fraternità è la scoperta del tempo che si è perduto, e perciò il mettersi insieme per riparare a questo tempo perduto.

La Fraternità è quella compagnia con la quale, insieme alla quale, si può fare il cammino, perché senza compagnia il cammino non si fa.

Il riconoscimento che la Chiesa ha fatto della Fraternità coincide con il riconoscimento che la Chiesa ha fatto dell’esperienza matura del movimento.

Perciò la Fraternità non può essere un alibi o sostitutiva della vita, dell’impegno, del fermento del movimento: è la modalità perché ognuno vi sappia partecipare.

Il movimento rappresenta il luogo paradigmatico, perché la Fraternità è l’espressione matura dell’esperienza del movimento.

Lo spunto per mettersi insieme può essere di qualunque natura: l’importante è il contenuto».

Intervento (78): «Vivendo le sollecitazioni della vita della Fraternità, mi sono accorta che l’ideale non può essere qualcosa che deve essere raggiunto un domani, ma è qualcosa che deve avere un percorso, è un cammino a cui aderire».

Giussani: «Perfetto!»

Intervento (78): «Le circostanze della vita quotidiana che mi vengono date, perché il cammino non può essere uno schema, cioè il pensare che solo gli altri hanno le occasioni per aderire meglio all’ideale o per crescere; dall’altra, il fatto che il cammino che si sceglie non può essere facoltativo.

 Mi sono accorta che, nella misura in cui ci si rende conto che il movimento è quella dimensione che legge per intero la mia vita, con intelligenza molto più profonda di quanto io potrei avere, allora non posso pensare che ci sia un altro cammino da quello indicato dal movimento.

Quindi ho sperimentato che soltanto aderendo, vivendo la sequela profonda a tutto quello che il movimento propone, si diventa veramente intelligenti e pieni di gusto per la propria vita.

La Fraternità non è qualcosa in più, è veramente un modo di essere, di richiamarci con più fedeltà a quello che comunque abbiamo già incontrato, a un “già” che è “qui”.

Io mi accorgo che il centuplo quaggiù è da sperimentare in questo senso».

Giussani: «Due cose risaltano. La prima è che il movimento, l’esperienza del movimento, o è totalizzante oppure manca al suo scopo e fa perdere tempo.

La fede in Cristo impegna la totalità di me stesso.

Perciò il movimento, innanzitutto, è totalizzante.

Se è totalizzante, ogni preoccupazione di salvare qualcosa di proprio non è scaltrezza, ma è perdere qualcosa.

(La seconda) La sequela è la cosa più intelligente, anche perché la sequela esige intelligenza e affezione, esige la personalità, mentre ogni “ma”, ogni “se”, ogni delimitazione della sequela è affermare una reattività che nasce dal temperamento, dal sesso, dalla nazionalità, dalla professione, da quello che volete.

Ma questa sequela profonda si incarna nelle circostanze, tutte, perché la vita è una cosa grande, in cui c’è qualcosa di grande, di incommensurabile.

Questo incommensurabile lo si incontra nella banalità del lavare i piatti, nella banalità delle circostanze.

Non è infinito quello che non si trova nell’istante: è un ente di pensiero».

Intervento (80): «Due anni fa ho perso un ragazzo di quattordici anni, che è morto in un incidente. Il movimento mi è stato molto vicino, per cui non mi sono sentita sola in tanto dolore. Adesso dopo due anni di cammino attraverso le circostanze, è diverso: le cose vengono fuori da sé, perché le circostanze e la compagnia fanno maturare.

Io mi sento parte di altri, per cui, se devo decidere delle cose, chiedo di parlare agli altri delle Fraternità delle difficoltà che mi si fanno incontro (ne ho sempre tantissime).

E l’essere insieme dà una serenità diversa nell’affrontare le difficoltà. Insomma è una grazia grandissima che il Signore mi ha fatto. Sento proprio che la vita non è più solo mia, sono sempre aiutata dagli altri e dalla preghiera e da Dio».

Giussani: «Primo: le cose vengono fuori da sé. L’importante non è avere un progetto o saper dettagliare un programma, ma è il mettersi insieme perché ci si riconosce in cammino verso lo stesso destino. Questo è l’importante; poi che le cose vengono da sé.

Secondo: le cose vengono fuori in proporzione alle esigenze del temperamento di coloro che vi partecipano […] secondo una libertà per la quale si può giungere a questa intensità di partecipazione come ha dimostrato lei. Che questa intensità non scoraggi nessuno per il fatto che magari non saprebbe viverla.

C’è modo e modo di vivere una condivisione, ma anche questa intensità espressa è mirabile, è bello che avvenga, anche per me per cui non avviene così».

Intervento (82): «Con il passare del tempo si può insinuare il dubbio che la compagnia o il gruppo di Fraternità non mi dicano più niente di nuovo e nemmeno mi risolvano i problemi…»

Giussani: «Ma neanche Gesù è venuto per risolvere i nostri problemi…»

Intervento (82): «L’esperienza ci fa dire, infatti, che noi non siamo insieme per questo.

Dobbiamo vivere una fedeltà alla Fraternità. In questa fedeltà occorre non pretendere, ma offrire sé stessi e capire che il lavoro da fare insieme è sul contenuto della nostra amicizia che è Cristo, non tanto su ciò che riusciamo a dirci o a fare.

Capire le ragioni della vita del movimento e incarnarle dentro una genesi unitari è coinciso con il lavoro della conversione personale.

Questo ci ha messo di fronte alla comunità con meno pretese, con il gusto di creare gesti umani evidenti».

Giussani: «La Fraternità non si può misurare dal fatto che aiuti a risolvere i problemi.

Che la Fraternità desideri aiutare a risolvere i problemi è chiaro, altrimenti che Fraternità sarebbe? Ma non è fatta per risolvere i problemi.

La Fraternità è gente che si mette insieme perché ha capito la meta, lo scopo, il traguardo e vuole camminare insieme verso quel traguardo.

È dallo scopo che viene la luce che illumina e dà forma più precisa alle nostre azioni.

Noi siamo nel movimento perché riconosciamo che Cristo, è tra noi, compagno di cammino, e nella coscienza di questa Sua presenza vogliamo affrontare tutto.

In secondo luogo se il movente della Fraternità è il richiamo alla grande Presenza, uno capisce che lo scopo del vivere è la missione, vale a dire, è il movimento: il movimento, infatti, è il modo della nostra missione».

Intervento (84): «Io credo che il movimento avvenga per la persona, cioè in quanto ciascuno di noi, nell’istante, trova la totalità dell’esperienza, e quindi la lascia trasparire, la comunica. Questo quindi rende possibile la comunione».

Giussani: «L’essere insieme è il modo con cui si palesa l’appartenenza, il fatto che noi apparteniamo a qualcosa d’altro!

È questo il fondamento per cui per camminare bisogna essere insieme: per essere, bisogna essere insieme.

L’essere insieme è una condizione che il movimento ha sempre sottolineato».

Intervento (85): «Volevo dire che il giudizio su quello che sono ora, dopo questi mesi, è che la mia vita è cresciuta attraverso la compagnia concreta di questi amici.  Il fatto che mi trovi così dopo questi mesi è una misericordia, perché la Fraternità realmente è un aiuto affinché avvenga la mia vocazione».

Giussani: «Questa è la frase! La Fraternità è perché avvenga la mia vocazione, è un aiuto a che avvenga la mia vocazione. “Vocazione” è la parola cristiana più bella e meno capita.

La vocazione è l’impatto del cosmo, della realtà, della storia sul mio io: l’impatto provoca il mio io, questo “pro-vocare” si chiama vocazione.

Che cosa determina il senso del destino? La provocazione della realtà. Il rapporto con il destino si chiama vocazione, è provocata dall’impatto della realtà con me stesso: la fede mi butta nella realtà e non c’è limite, non c’è paura».

Intervento (86): «Come il cambiamento di sé, l’aiuto alla propria vocazione, viene determinato dalla Fraternità, così da essere più grande, più profondo, più vero?».

Giussani: «Viene determinato in un solo modo: dalla coscienza che ognuno ha dello scopo per cui vi radunate tutti insieme.

Poi il resto viene da sé.

Lo scopo per cui vi radunate è l’andare a Cristo, poi le cose vengono da sé».

Intervento (87): «(A casa con la mamma ammalata gli sale un bisogno grandissimo) Mi chiedevo come poter vivere la morte, come poter vivere la malattia, come è possibile che io non riesca a rispondere a questo? Alla mattina, spesso, quando incomincio di nuovo, mi accorgo che non posso vivere se non chiedo, se non faccio presente dentro di me che un Altro mi può rendere capace di rispondere, non soltanto alla difficoltà mia, ma alla difficoltà di tutto».

Giussani: «Bello! Scusami ma è proprio bello.

Ecco la compagnia dice queste cose come si mangia e si beve: uno non risponde al suo problema, se non risponde al problema di tutti, e perciò il dolore della propria fatica diventa luogo dove rieccheggia il dolore del mondo.

Ma chi vive così? Lavando i piatti, si può. Uno può non aver fatto neanche la scuola media!»

Intervento (88): «Ci sono come delle vie obbligate che il Signore ci fa vivere, e alcune di queste vie, quelle che io adesso vedo più importanti per me, sono: L’«essere per», l’essere per quello che in quel momento ti chiede di essere presente. Ecco, quella persona, quella malattia, quel bisogno è tutta l’espressione di Lui.

«Essere per». Che poi vuol dire essere obbedienti, affidarsi, vivere sapendo che Qualcuno ti conduce».

Giussani: «Dobbiamo dirlo, scientificamente un’ipotesi di lavoro diventa legge quando risolve meglio, quando risolve i fenomeni secondo tutti i loro fattori. Questa fede, che ha creato la nostra compagnia, che la nostra compagnia vive, questa fede è l’ipotesi di lavoro per la vita, è l’ipotesi di lavoro che diventa legge della vita, perché tutto diventa positivo, come abbiamo visto anche ora.

La fede rende positivo in modo assoluto l’istante, che è niente, che è come niente.

«Essere per»: e la circostanza immediata che hai davanti «è tutta l’espressione di Lui»

Quello che viviamo è veramente partecipazione a Dio perché vince il nulla del momento, delle circostanze: ciò che viviamo non ha bisogno di niente per essere grande, eccetto del proprio rapporto con Cristo».

Intervento (89): «Partecipo all’Associazione Famiglie per l’accoglienza. La cosa che mi spingeva a vivere questa esperienza di accoglienza familiare era il dire: se il mio peccato è così continuo, allora che sia sempre con me anche il Signore incarnato in un ospite, che viva dentro le mura domestiche con me».

Giussani: «È quello che dice la Scrittura: l’elemosina purga, libera dal peccato. L’elemosina, la compassione verso l’altro, mi fa imitare Dio e perciò mi libera dal peccato» (Cfr. Tb 12,9; Sir 3,29).

Intervento (90): «Comunque, quello che è certo è che nonostante la mia incoerenza, Cristo, attraverso questa strada, mi ha definitivamente liberato e mi ha definitivamente liberato. Anche il rischio è provvidenziale, perché alla fine ci fa vivere una obbedienza e un’offerta al Signore».

Giussani: «Comunque, la cosa principale è questa: che la vittoria di Cristo sul male diventa un’evidenza definitiva quando cambia qualcosa di significativo nella nostra vita: per uno può essere l’accoglienza, che è un fenomeno di gratuità certamente impressionante; per un altro può essere qualunque altra cosa.

Ma la vittoria di Cristo, cioè la Risurrezione di Cristo, tocca la nostra vita, diventa evidenza definitiva, nel cambiamento reale in qualche cosa, in qualche cosa di sostanziale, dal punto di vista del valore».

Intervento (90): «Sono un prete padovano che studia a Roma». Nel mio gruppo di Scuola di Comunità non siamo tutti della Fraternità…..»

Giussani: «Sì, ma è lo stesso: una Scuola di comunità che vive è una Fraternità, una Fraternità è una scuola di comunità, altrimenti è una formalità….»

Intervento (91): «Ci troviamo con molta fedeltà ogni mercoledì in seminario, dove ci sono anche due spagnoli, un messicano, ecc…dove si sperimenta proprio come la verità di quello che abbiamo incontrato, nella misura in cui è vissuta come verità di sé e come libertà anche nella missione, veramente non ha confini».

Giussani: «E con questa testimonianza al miracolo di Cristo, per cui non c’è più lontananza tra gli uomini e non c’è più estraneità, tanto è vero che non c’è più estraneità perfino con noi stessi, ringraziamo tutti gli intervenuti e preghiamo Iddio chele nostre fraternità siano un luogo dove l’estraneità viene abolita dall’amore della Presenza (che è anche lo scopo) e che, in secondo luogo, diventino ambito di accoglienza, e perciò di creazione di umanità, e che, in terzo luogo, diventino missionarie, e perciò creative di una umanità nuova, cioè creative di Chiesa.


La vera convenienza (93)

Il problema è come entrare in rapporto o come possedere le cose.

Ecco, la nostra difficoltà è accogliere l’ideale dentro i rapporti, dentro questo possesso.

È che noi, nel nostro modo di possedere, seguiamo una convenienza umana che consegue a una valutazione e a una stima che facciamo nascere da uno sguardo “concluso” dentro l’orizzonte della nostra umanità e della sua reattività.

(94) C’è una difficoltà ad accogliere l’ideale dentro la convenienza umana.

Questa difficoltà ad accogliere l’ideale dentro la convenienza umana trova il suo aiuto nel fenomeno che riflette maggiormente la presenza di Dio, del Dio vivo, nel mondo: si chiama autorità.

(95) In una assemblea di mille ragazzi dell’Università Cattolica,

un ragazzo si alzò e disse: «Colui che è tra noi», mi sarà autorità per tutta la vita.

Perché l’autorità richiama al fatto che il polo della vita è un Altro, è un Altro, che è il Mistero da cui tutte le cose sorgono ed è un Uomo tra noi.

Dunque, se la prima cosa di fronte alla grande questione umana è la difficoltà a far penetrare di ideale l’umana convenienza, questo livello drammatico dell’esistenza,

l’autorità è l’avvenimento in cui Dio si rende vicino, si rende compagnia che richiama senza tregua.

L’autorità è la grande amicizia.

(96) L’autorità è chi non ci fa dare per scontato quel che siamo, che ci fa comprendere in qualche modo che la convenienza non sta in quel che vediamo noi, ma in qualcosa d’altro, che il polo di attrazione è un Altro.

Non esiste autorità se non in funzione di una comunità.

Perciò l’aiuto sistematico al passaggio, al grande passaggio dalla convenienza umana alla convenienza di Cristo, è nel luogo della comunità, è nella comunità che può avvenire.

L’autorità è quell’Uomo che ha iniziato quello cui tutti partecipiamo, e dentro questo flusso di popolo, dentro questo suo corpo misterioso, la Sua autorità fiorisce in parola di richiamo, in esempi persuasivi, riecheggia nel tempo e nella storia, si rende presente, nel tempo e nella storia, attraverso la ricchezza di testimonianza che è tra di noi.

(97) La novità è l’appartenenza a un avvenimento che, come fiume, nasce misteriosamente dalla terra e si dilata ingrossandosi lungo pianure sterminate, lungo la pianura sterminata dalla storia.

(98) La comunità è l’avvenimento cui apparteniamo, è l’aspetto visibile e sensibile del fatto a cui apparteniamo, e il fatto cui apparteniamo è Dio fatto uomo, Cristo.

Non esiste cristianesimo se non nella concretezza, nel modo concreto, storico, con cui ci ha toccato e ci tocca.

(99) Quindi, la prima condizione di questa compagnia è che appartenga, a sua volta, alla grande compagnia della Chiesa.

C’è una caratteristica sintomatica della nostra compagnia, della verità e della bontà della nostra Fraternità, ed è la gratuità del motivo ultimo.

Non vi si può restare se non per uno scopo che è profondamente gratuito.

La gratuità del motivo ultimo è l’affermazione, nella contingenza, nel momento umano che viviamo, dell’ideale, cioè di Cristo.

(100) Se la compagnia è senza persone e fatti autorevoli, aiuterà di meno, però è la strada.

E se tu la lasciassi, certamente non diventeresti migliore.

(101) La comunità come tale, in quanto appartiene al fatto del movimento come tale, è l’ultimo aspetto dell’autorità.

Di fronte all’autorità e alla comunità, quello che dobbiamo sviluppare in noi è ciò cui ho già accennato tante volte:

la coscienza dell’appartenenza a qualcosa di più grande, la coscienza dell’appartenenza a Colui che è tra noi.

(102) Tante distinzioni nascono infatti da una stima prevalente di altro e non di quello che siamo, tutti insieme.

Ecco, la nostra compagnia è l’inizio della consapevolezza di appartenere a questo Popolo, tutto il significato della nostra compagnia è l’appartenenza a questo «vero Popolo di Dio».

(103) Ed è veramente compagnia che educa l’appartenenza a questo Popolo, se tu vivi l’appartenenza ad essa.

Allora la regola suprema della vita è la sequela e, perciò, è chiaro che occorre imparare che cosa significhi «sequela».

Sequela vuol dire che, non la convenienza «umana», ma la mia convenienza vera coincide con una obbedienza.

È nella sequela che avviene il passaggio dalla convenienza umana alla grande convenienza di Cristo, la convenienza ideale.

È nella sequela che avviene il passaggio dalla stima del mondo alla stima di Cristo, perché questa è la grande alternativa della libertà.

Fra la stima di Cristo e la sua attuazione nella vita c’è di mezzo quello che chiamiamo “regola”.

La regola è ancora la compagnia, ma è la compagnia in quanto è individuabile in fatti precisi, in fatti stabiliti che si raduna per dire le Lodi o per fare una riunione settimanale, ed è carica di esempi gratuiti.

(104) Mentre la comunità sviluppa la coscienza di appartenenza, esalta la sequela come atteggiamento profondo della vita e l’obbedienza come la convenienza suprema, questo passaggio dalla convenienza umana, dal possesso umano, all’ideale, alla conversione a Cristo, è favorito e aiutato invece, nella comunità, da ciò che chiamiamo regola, dalla compagnia come regola.

L’obiezione capitale è che, di fatto, esistenzialmente, stimiamo più altro che non Cristo.

La grande obiezione è che scegliamo di appartenere ad altro, scegliamo l’appartenenza ad altro e non a Cristo.

Allora la coscienza dell’appartenenza a Cristo e al suo corpo si blocca.  

Queste cose possono avvenire senza che uno se ne accorga.

Ecco il valore della compagnia e dell’autorità che essa sviluppa: ti richiama.

(105) Mentre uno dice: «Non sono capace» si ritira e quindi getta il dubbio sulla convenienza di ciò che stava facendo la comunità.

Che cosa ti occorre? Non l’essere preparato; ti occorre, indubbiamente, una grazia.

Ma, se sei toccato da un certo richiamo, questo è grazia, e in te occorre esattamente il contrario di quanto pensi, occorre cioè la povertà.

(106) Proprio perché sono incapace, non sono preparato, sono inetto, sono peccatore, proprio per questo domando, è la forma più potente di domanda è il riconoscere d’appartenere alla comunità di Cristo, alla compagnia per Cristo.

Dobbiamo stare molto attenti ad avere stima del movimento. Dobbiamo avere stima del movimento.

Il movimento ti giudica proprio attraverso le cose che ti dice di fare, ma che ti dice di fare in modo nuovo.

Qual è questo modo nuovo?

È un modo nuovo quando tende a riflettersi su tutto, sulla famiglia, sul lavoro, sui rapporti di amicizia.

(107) E la conseguenza di questo è che aumenta in te la pace.

Altrimenti, se ti affilano o ti logorano i nervi, vuol di re che non sono fatte bene.

Questa obiezione ha tre risvolti.

Primo. Innanzitutto il primo pericolo è l’attivismo: servire il movimento in quanto fa andare avanti le “nostre cose” e allora noi ci leghiamo al movimento per le cose che facciamo.

Questo non sviluppa l’esperienza della nostra vita, perché si è bloccati dentro un pezzetto, si è bloccati nella cosa che facciamo, e così, per esempio, la modalità con cui la svolgiamo non si riflette sulla vita familiare, sulla vita amicale ecc…

Il problema non sono le cose del movimento, ma noi!

Secondo: la superficialità.

È molto più sentita, per superficialità, la compagnia che non Cristo,

cioè è sentita la compagnia e non lo scopo per cui essa si raduna.

(108) La realtà della compagnia è tutta degradata, diventa ideologia o diventa pratica di rapporti per evitare la solitudine o per un’abitudine instaurata.

Terzo: stiamo attenti al significato delle nostre delusioni.

Il movimento, la Fraternità, la compagnia non è come te l’aspetti. Ma che cosa ti aspetti?

Se ti aspetti Cristo, se tendi a Cristo, anche se la comunità fosse fatta, come ho detto, da un branco di ignobili, di persone ignobili, tu sentiresti crescere in te l’affezione a Cristo, tu sentiresti la tua vita che si trasforma, che col tempo che passa non è più come prima.

Questa è l’umanità nuova o la morale nuova che dalla Fraternità deve dilatarsi alla nostra vita e nella vita della società: la vita tesa a qualcosa d’altro.

Così, lentamente, tutto diventa un altro mondo, più concretamente vero di quello che viveva prima.

(109) È una tensione a qualcosa d’altro, che si svela nella promessa – il desiderio di cambiamento è proprio l’accendersi della promessa – ed è incontrato nella storia, perché nella nostra Fraternità e nella nostra compagnia il Signore non lascia mancare innumerevoli esempi di testimonianze di questa novità di vita e di cose.

Occorre vivere in modo tale che la salvezza, che mi sembra non sia ancora venuta per me, possa essere riconosciuta e accettata da me in qualunque momento dovesse venire: «Voglio però esserne degno ad ogni momento».


Omelia (110)

(110) Di tutta la ricchezza di pensieri e d i emozioni che la liturgia di oggi ci desta, uno mi pare dominare su tutti, semplificare tutto e animarci totalmente, ed è il desiderio che la nostra vita sappia accogliere la luce che è venuta, che Cristo entri veramente nella nostra vita.

È entrato nella nostra vita, Lo ricordiamo, ci muoviamo tante volte per Lui. Ma Egli deve penetrare la nostra coscienza così da entrare in ogni azione: ha qualcosa da dire alla nostra persona.

Che la nostra coscienza sia all’erta, che la nostra coscienza si muova, così che Egli ci cambi, che egli ci muti, che cambi il volto e quindi il cuore di tutti i nostri rapporti, perché sappiamo che è l’unico modo per conservarli, cioè salvarli per l’eternità: «anche una parola detta per scherzo non perirà più».

(111) Cristo diventi familiare alla coscienza, che la nostra coscienza viva l’appartenenza a Lui come sentimento abituale, così come voi, mamme, avete un sentimento abituale il senso della presenza dei vostri bambini, e il bambino ha come sentimento abituale il senso dell’appartenenza a voi.

Che questo avvenga per il nostro rapporto con Cristo.

Che intensità, che intensità di vita, che intensità di sguardi, che intensità di rapporti, che intensità di gusto acquisterebbe, erediterebbe allora la nostra vita personale e l’ambiente che frequentiamo!

Subito esso risentirebbe di questa novità.

«Che Tu o Signore, venga; che tu, Signore, venga presto; che tu non abbia a tardare».

E non è una pretesa, è pura domanda.

È nella tensione di questa domanda che la vigilanza incomincia a nascere, che la vigilanza incomincia a vivere.

(112) Dalla domanda nessuno può ritirarsi dicendo: «Non sono capace».

Che la domanda regni dunque nella nostra esistenza.

Che la domanda penetri il più possibile la nostra esistenza.

Questa è gratuità: domandarti o Cristo!

Che il tuo Spirito, rinvigorendo l’anima in questo corpo debole, mi rifaccia dirti tutte le volte: «Vieni! Ti domando, vieni! Vieni dentro tutto quello che sono e tutto quello che faccio».

(113) La domanda, dunque, Signore ti offriamo: la domanda di Te, affinché Tu non sia più l’estraneo delle nostre ore e delle nostre azioni.


Esercizi spirituali predicati da don Giussani

1° volume «Cristianesimo alla prova»

Titolo: UNA STRANA COMPAGNIA


2° «volume Cristianesimo alla prova»

Titolo: LA CONVENIENZA UMANA DELLA FEDE


3° «volume Cristianesimo alla prova»

Titolo: LA VERITÀ NASCE DALLA CARNE


4° volume «Cristianesimo alla prova»

Titolo: UN AVVENIMENTO NELLA VITA DELL’UOMO


5° volume «Cristianesimo alla prova»

Titolo: ATTRAVERSO LA COMPAGNIA DEI CREDENTI


6° volume «Cristianesimo alla prova»

Titolo: DARE LA VITA PER L’OPERA DI UN ALTRO



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