Il brillio degli occhi – 2

bergamo [incontra] ha organizzato, sul suo canale YouTube, un ciclo di tre conferenze sul libro di Julian Carrón “Il brillio degli occhi”.

Questo è il secondo intervento, dopo quello di Pierluigi Banna, che vede protagonista Guadalupe Arbona Abascal.

locandina del secondo incontro del ciclo sul libro il Brillio degli occhi

Trascrizione a cura di bergamo[incontra] non rivista dall’autore.

cHE COSA Ci strappa dal NULLA?

Qualcuno ci indichi la via

Quando Michela Milesi e gli amici di Bergamo[incontra] mi hanno invitato a parlare di che cosa ci strappa dal nulla, ho scoperto in me un tremore.

Questa domanda è una domanda seria.

È una domanda da cui non è possibile scappare e allo stesso tempo è una domanda che ha bisogno di qualcuno che te la ponga, qualcuno che ti dica e ti domandi con un’audacia straordinaria: «Ma c’è qualcosa che ci strappi dal nulla?».

Senza qualcuno che ti chieda così, è difficile rendersi conto di cosa c’è in gioco, per questo sono grata agli amici di Bergamo.

È difficile perché il nulla si nasconde nelle crepe delle mie giornate senza fare rumore, come una noia, una stanchezza, un dire che la vita è questo e niente di più.

Il lavoro, i figli, la politica, i rapporti… Tutto ha il suo limite e non è niente di più: comincia così il sussulto del niente.

Lo fa con una modalità insidiosa, diceva Pierluigi Banna nel primo incontro di questo ciclo.

È così che il nulla comincia a impossessarsi della vita, e man mano le giornate cominciano a scivolare tra abitudine e formalità, si esaurisce lo stupore per il fatto che le cose sono ogni giorno davanti a noi, e i volti delle persone che più amiamo tornano grigi, fino ad arrivare alle sfide più gravose che possiamo lasciare a lato, per evitare di guardarle in faccia e per non lasciarsi provocare dal grido che ci suscitano: che sia la malattia di una madre, la propria debolezza, la sofferenza di tanti accanto a me o la libertà dei figli. 

È così che riconosco questo nulla che mi fa come strisciare, camminare nelle giornate come se fossi piccola e debilitata, che mi forza a chiudere gli occhi e mi rende sorda al grido che pronunciano le cose. Che cosa ci strappa del nulla?

Quest’anno questa domanda si è fatta più acuta. Tutto è iniziato con il dilagare della pandemia e con l’urgenza di domanda che questo ha provocato.

Da un anno viviamo sotto le sferzate della pandemia: siamo stati infettati, sono morti i nostri cari —ancora tutta l’Europa ha negli occhi le fotografie delle numerose bare che non si potevano più nascondere qua a Bergamo—, il mondo è in bilico per un virus ci pesa sulle spalle.

Tutti lavorano da casa, le scuole sono chiuse, i malati che muoiono negli ospedali, i medici e gli operatori sanitari esausti, i nostri anziani chiusi in casa, la natalità che scende per la paura della vita, le risate che non si odono più nelle strade, i familiari che non possono fare compagnia ai propri cari malati …

La descrizione è lunga, ma ancora non è difficile fuggire dalla domanda: «Che cosa ci strappa dal nulla?». Per evitare questa domanda, le strategie sono diverse: negare la pandemia, fare una analisi del virus e della sua origine, rinchiudersi a casa a lamentarsi…

E le sofferenze tante volte sembrano senza uscita ne speranza: le malattie psicologiche si sono moltiplicate e la situazione difficoltosa del mondo lavorativo ha lasciato a casa molti disoccupati.

Si potrebbe pensare che tutto si risolva nella rabbia o nell’odio rispetto a queste circostanze, oppure in un lamentarsi silenzioso che intacca la speranza.

Niente da fare: rassegnarsi o sparire. Eppure c’è ancora qualcuno -voi a me in questo momento- che ci fa una domanda: «Che cosa ti strappa dal nulla?». E una seconda: «C’è qualcuno che ti possa indicare una strada?». Grazie, cari amici.

Ho provato a dare un ordine a questo momento insieme dividendo il mio intervento in quattro punti:

Il mio cuore non dorme

A volte uno scopre che grazie alla domanda di qualcuno —come questa che mi avete fatto voi—, attraverso una cosa che succede davanti agli occhi, attraverso una scossa o una circostanza… si sveglia un briciolo di esigenza come di una felicità che non finisca, un fulgore che apra al desiderio di avere una certezza.

Sono delle occasioni che rivelano quello che diceva il poeta spagnolo Antonio Machado: «Il mio cuore non dorme»; o come diceva vostra poetessa lombarda, Ada Negri, in modo esemplare, si percepisce dentro il “cuore tenace” che è “fisso sempre sulle stelle”.

Racconto tre esempi. Queste occasioni di domanda, di sentire le esigenze e le certezze del cuore costituiscono il tessuto più prezioso della nostra vita.

1) La libertà dipende dalla cancellazione del dolore?

L’altro giorno una studentessa ha letto a lezione un testo in classe.

Io insegno scrittura creativa e avevo chiesto di scrivere un testo su un sogno oppure su un incubo e incorporarlo in un racconto.

Questa studentessa ha scritto un racconto in cui era come se la pandemia che stiamo vivendo fosse un incubo. 

Lei faceva una descrizione della nostra situazione dalla prospettiva della soluzione nel futuro.

Potete immaginare quello che descriveva semplicemente guardandovi un poco intorno.

Ma quello che mi ha impressionato di più è che lei parlava tutto il tempo dell’angoscia di non avere libertà.

Le mascherine erano una forma di rubare l’identità, gli schermi prigioni, il divieto di abbracciarsi un’imposizione, l’impossibilità di viaggiare e di muoversi un’assenza di libertà, la chiusura una mancanza della libertà … alla fine del racconto, quando la pandemia era superata, nasceva un’esplosione di feste, abbracci, fuochi d’artificio e celebrazioni.

Io stavo ad ascoltare e ho sorpreso una lotta nel mio interiore: da un lato sentivo l’urgenza di dirle: «Ma veramente pensi che adesso, in questo momento, con le mascherine e la distanza… Non siamo liberi?», mentre un’altra parte di me mi diceva: «Ma che cos’è tutto questo desiderio di libertà?».

Alla fine, l’ho guardata e le ho chiesto come mai ci fosse questo ritornello sulla libertà.

Mi ha risposto: «Io voglio essere libera».

Ho visto nei suoi occhi due cose: prima un fulgore istantaneo e dopo un rinchiudersi di nuovo nella tristezza.

Mi sono portata il volto e gli occhi della studentessa a casa con me.

Come lei, io voglio la libertà; o meglio, come lei voglio essere libera.

E lei ha aperto una domanda in me: per essere liberi dobbiamo aspettare che tutto questo sia passato? Potremo tornare ad essere liberi solamente quando non ci sarà più l’obbligo di portare mascherine, quando si potranno invitare gli amici a casa per cena o quando si potrà lavorare faccia a faccia? È così alto e irraggiungibile il prezzo della libertà? La mia esperienza della libertà dipende da una negazione di qualcosa che succede? La mia libertà dipende dalla cancellazione del dolore e dei sacrifici che questa pandemia impone?

2) La copertina di TIME: un anno perso?

Un’altra cosa che mi ha riempito di domanda è stata la copertina di forte impatto della rivista internazionale Time nel suo ultimo numero dell’anno 2020. Era il numero scritto con inchiostro nero e cancellato in rosso. Mi pare che dipinga il sentimento di tanti: da un lato un grido, il nero dei necrologi dei morti e in rosso il sangue dei nostri cari; dall’altro lato, la voglia di cancellare il tempo della sofferenza come se questo 2020 non fosse valso niente.  Di nuovo il mio cuore tenace si domandava: ma io posso cancellare il 2020 come fosse un incubo e niente altro? E ancora: tutto questo anno si perde, non resta niente? Ho scoperto in me una ribellione.

3) Cosa significa amare nella pandemia

La terza domanda che mi ha assalito durante la pandemia riguarda un sentimento che tutti conosciamo o che crediamo di conoscere, perché è una parola così usata che ha perso il suo valore.

Si tratta della parola amore.

In questi mesi sono stata circondata da familiari malati.

Ho dovuto sospendere le mie attività abituali, assistere alle sofferenze, andare in ospedale, passare tempo coi medici, lavorare pur essendo stanca, non dormire bene, parlare con i medici, far compagnia con creatività…

E ogni volta che vedevo che la mia vita era cambiata in molte cose, mi domandavo:

«Cosa significa amare? Cosa significa amare senza sperare niente in scambio? Io che sono niente e che possiedo delle forze così limitate, come posso amare quelle cose che non sono piacevoli, che decadono o che non sono come erano prima, che non sono più fresche e liete come tempo fa?»


Questi desideri sono così seri e grandi: essere libera, essere in grado di amare, non volere che si perda neanche un istante della vita.

Sono desideri enormi e parlano della forza del nostro cuore, un muscolo potente, irriducibile, che non si stanca mai, che grida nelle circostanze: la mia studentessa che vuole essere libera, quelli del Time che oscillano tra il pianto per un anno di sofferenza universale e la cancellazione del tempo se non se ne capisce il significato, i malati che chiedono tutta la nostra cura e un amore gratuito: ci chiedono la carità, la carezza di uno che non si stanchi di amarli.

E qui devo fare un passo in più, perché devo riconoscere che queste domande che sono emerse in questi ultimi tempi sono mie, proprio mie: quella della mia studentessa, quel grido degli americani e del mondo intero, quella che arde nel mio cuore quando sto con i miei cari ammalati… ma esse sono un dono, e il loro risveglio lo devo a un uomo.

Un uomo con nome e cognome, che forma parte di un popolo lungo, molto lungo nella storia.

Si chiama Julián Carrón. Senza la domanda che lui mi ha posto a marzo, appena scoppiata la pandemia, forse il mio cuore si sarebbe accontentato di un lamento, di un gemito nascosto o di una volontà di dimenticanza.

Lui mi ha detto: «Ma, Guadalupe, in questa situazione drammatica, si può vivere intensamente la realtà?». 

Ma perché Julian mi ha fatto – ci ha fatto – questa domanda? È la stessa domanda che anche voi, un’altra volta, mi fate ed è la domanda che ci pone in cammino, ci sprona a fare un’indagine su noi stessi provocati dalle cose che succedono.

Siamo feriti, ed allora da chi torniamo?

I tre esempi che vi ho fatto, che riguardano le mie domande di fronte alle cose che vivo sono eloquenti rispetto ad una cosa: sono ferita, non sono a posto, ho bisogno di una libertà, di una giustizia, di un amore che non posso fabbricare da sola, che non posso darmi a me stessa.

E qui è dove entra il genio di Julián in questo libro.

Lui di fronte all’urgenza della domanda e dall’appiattamento del nichilismo che ci taglia le gambe e che ci fa come affondare nella noia del quotidiano senza più sapore né novità, ci viene a dire: «Guardate! Ascoltate! Vedete! Vi propongo delle presenze che sono uscite dal niente. Io guardo a loro perché nella loro esperienza potete intravedere una risposta».

Non idee, neppure spunti geniali, né dottrine particolarmente brillanti —anche se si scopre in loro una intelligenza umana veramente interessante—. «Guardate! Ascoltate! Vedete!» Impressiona l’audacia e la semplicità di cuore nella scelta di evitare un discorso serrato e piuttosto di lasciare spazio a queste presenze dove si compie la frase di Tertuliano che dà titolo al capitolo: «Caro Cardo Salutis».

Sembra dirci: «Non ingannatevi, guardate che la salvezza viene ora da queste presenze che oggi, ieri, due mesi fa… Sono uscite dal niente».

Una ragazza che sente, finalmente, che la sua tristezza non è assurda ma che anzi può condurla verso la scoperta di un amore infinito; un’altra che non si lascia cadere nella disperazione grazie agli amici la aiutano a scoprire ed amare il suo cuore; un uomo che alcolizzato e disperato per una vita perduta vede un gesto di tenerezza così sincero e puro che non si ferma fino ad trovare una ragione adeguata che spieghi un gesto di carità e stima così. Io, leggendolo, posso dire: «Come sono bravi!». E rimanere tale e quale a prima.

A me cosa interessa di quello che succede ad altri. Le esperienze che leggo possono rimanere distanti… Fino a che scatta una simpatia umana! In un istante uno intravede che la proposta di Julian consiste nel seguire una differenza umana che accade ora, nel presente, nel ventunesimo secolo, davanti a nostri occhi. Dice Julián a pagina 53:

«Una diversità umana (…) una tenerezza, una simpatia profonda, vertiginosa, carnale, una simpatia nel senso intenso del termine, un vortice di affezione, che aveva qualcosa di così abissalmente umano da apparire «più» che umano, «straniero».

E da qua comincia tutto. Inizia innanzitutto prima per Julián che davanti a queste persone si lascia toccare e spostare da delle presenze umane che testimoniano che, anche se «feriti», vedono qualcosa interessante, vibrante, inaudito.

E allora, noi, feriti, da chi torniamo?

Delle presenze alla presenza di un Uomo

Nasce una simpatia umana per queste persone davanti a me, e se accetto l’invito a guardare, ad ascoltare – come chiede il mio cuore ferito e bisognoso – mi sento abbracciata da queste presenze.

La ricerca non si ferma, ma anzi diventa più stimolante perché ci sono queste presenze che raccontano di come le loro ferite sono state guarite.

Chi può guarire ferite così profonde? Un uomo che entrò nella storia 2000 anni fa: Gesù di Nazareth, dice Julián, diceva Giussani. «È Lui».

È la stessa risposta che ho sentito per la prima volta un’estate del 1985, che ho ascoltato da un gruppetto di amici con i quali ero durante un viaggio.  «Io vorrei —gli ho detto—andare fino in capo al mondo con voi perché nella vostra compagnia la mia umanità splende e si fa più bella, più vera, più intelligente, più contenta».

Mi risposero: «È Lui all’origine, è Gesù di Nazareth, quello che sta all’origine di questo rapporto fra noi».

Davanti a questa risposta di quegli amici, avevo due alternative: andarmene rinunciando a quella vita vibrante oppure rinascere in una vita di esplorazione di questo Gesù, che credevo di conoscere già —nata in una tradizione cristiana, seguivo la morale cristiana- oppure dare inizio a una verifica delle ragioni di quella gioia.

Da allora ho cominciato a esplorare, con tutte le mie energie che allo stesso tempo erano rinvigorite da quel Gesù che mi dicevano essere la vera ragione di quel cambiamento in me.

L’ho fatto seguendo la vita della Chiesa – a volte con discontinuità: distratta o afferrandomi alle conseguenze di questa vita nuova -, in cui dove Gesù aveva detto di rimanere, nella forma che mi aveva attirata: il movimento di Comunione e Liberazione, che è come dire il mio nome, la mia famiglia, il mio popolo.

Non per nominalismo o per un desiderio di classificazione, ma perché verifico ogni giorno come questo popolo è il popolo per me più attraente: mi genera, genera mio marito, i miei figli, i miei amici, i miei studenti…Introduce uno sguardo nuovo su tutte le cose della vita.

Il carisma si converte in un dono e un’occasione di esplorazione nelle giornate.

E naturalmente, esploro anche con le parole, le mie care parole. Insegno letteratura e le parole sono le mie compagne, non posso vivere senza storie accanto a me che tentino, per strade diverse, di capire il senso del vivere.

Le mie giornate passano sempre accompagnate delle parole che leggo, che ripeto, che cerco di far comprendere agli studenti, che correggo quello che scrivono…

Gioisco con le parole
e
soffro con le parole

quando vedo che il potere usa le parole per distrarci o per farci dimenticare chi siamo o per appiattire le nostre domande.

Dentro questo lavoro intenso e drammatico negli ultimi tempi ho scoperto una cosa in me straordinaria: ho cominciato a scrivere storie di finzione che mi nasceva nella veglia delle mie giornate.

A cinquanta anni! Ho cominciato scrivendo di una pianista che viaggia per il mondo intero, dopo ho scritto di una giudice perfetta che ad un certo punto capisce la sua vulnerabilità e si spezza, di una ragazza che si nasconde in un aeroporto…

E di recente è nata Miray, una schiava orfana, che serve al palazzo di Erode.

Serve a Salomé, la figlia di Erodiade, e ferita dalla morte ingiusta del Battista decide abbandonare il palazzo e cade in una profonda depressione.

La stessa Miray decide alla fine della sua vita di dettare ad uno scriba la sua storia.

Non so come sia nato questo personaggio, ma so che è grazie a come Giussani mi ha fatto sentire e percepire le parole del Vangelo.

Lui mostrava come Gesù fosse un avvenimento che cambiava la vita. Gesù stesso era di una tale attrattiva alla quale era difficile sottrarsi.

Era un Uomo come noi però allo stesso tempo aveva una forma di guardare, di parlare, di stare nel mondo che rendeva tutto più desiderabile.

E allora io ho visto la mia protagonista, nello stesso modo in cui tante avevo riconosciuto me stessa ascoltando Don Giussani parlando di Giovanni e Andrea; e dopo, nell’ascoltare Julián in come parlava dell’episodio di Zaccheo o del cieco nato.

È nata in me la voglia di fare lo stesso. In primo luogo, per me, per potere capire meglio quel Gesù. Farlo succedere di nuovo con le mie parole.

Parole carnali, come diceva Pèguy.

Il risultato di questo mio modo di guardare che ho imparato da loro, ha fatto nascere questa scena che vi propongo. Miray, la mia protagonista, si trova nel luogo dove accade l’incontro con la vedova di Naím. Vi dono queste parole perché amo scrivere e sono contenta di proporvi quello che mi affascina.

Il racconto di MIRAY

Ecco una parte del mio racconto:

«La cosa accadde un giorno d’estate (…) Quel pomeriggio, come raccontai, ci avvicinammo alla città di Nain.

Camminavamo un poco indietro, ma quando imboccammo il pendio della collina, superammo gruppi di famiglie, anziani dai passi stanchi e bambini che correvano distratti.

Gareggiavamo tra di noi per vedere chi arrivasse per primo.

Abbiamo preso il sentiero che saliva verso la città dal lato sinistro, che era molto tortuoso, e, ad un certo punto, notando che ci eravamo lasciati indietro gli altri, procedevamo facendo piccole soste e tergiversando intorno ad ogni curva.

Il cugino di Giovanni e i suoi discepoli salirono per il sentiero di destra, che era più diretto. Ci sorpassarono senza che ce ne rendessimo conto.

Stavamo raggiungendo la porta della città, in cima, quando sbarrarono la strada per non ostacolare il procedere di un corteo funebre.

La processione era preceduta da un gruppo numeroso di donne, che avanzavano piangendo e gettandosi cenere sul capo.

La madre o la moglie del defunto doveva essere quella alla fine del gruppo, più timida e un poco separata dagli altri.

Avanzava col volto coperto.

Non gridava, non piangeva. «L’artiglio della morte lo porta dentro», pensai.

Era rigida. Dietro di lei avanzava il suo morto.

I curiosi che si accalcavano intorno ci dissero che il cadavere era del figlio della donna, il suo unico figlio. Era vedova, aveva perso il marito da giovanissima e da allora aveva cresciuto quel ragazzo da sola.

I ragazzi della città lo portavano sulle spalle. Il defunto probabilmente era giovane, perché attraverso il rimbocco del lenzuolo si potevano intuire la vitalità dei suoi muscoli e la giovinezza dei suoi lineamenti.

Anche i musicisti della città accompagnavano la processione del cadavere. Doveva essere stato molto amato, a giudicare dalle persone che si erano radunate e che accompagnavano la madre nel suo lutto.

Senza sapere come, rimasi un poco più avanti del corteo che aveva imboccato il sentiero che scendeva al cimitero. Il profeta e i suoi discepoli erano dall’altra parte. Ci separava il gruppo della processione.

Come noi, neanche loro potevano avanzare verso la città. È stato allora che ho potuto vedere da vicino ciò che ora vi racconterò.

È successo senza che me lo aspettassi, non avrei mai pensato che potesse accadere una cosa del genere, così semplice e ordinaria, e allo stesso tempo così decisiva per me.

Vidi che il profeta, in modo molto tranquillo, guardava la vedova. Non fu niente più di questo: la guardò. Intensamente, questo sì.

Lei doveva averlo notato attraverso il mantello. Aprì uno spiraglio nel velo e lo cercò con l’occhio sinistro. Vide il cugino di Giovanni. O lo intravide. Non posso dirlo con certezza.

Un secondo dopo si fermò, alzò la testa e ora sì, aprì il mantello con più decisione e cercò apertamente gli occhi di chi la stava guardando.

Era come se percepisse la fermezza di quella contemplazione che, a tutti noi che eravamo intorno – non so quanto tempo passò, ma gli anziani e i bambini che salivano più lentamente ci avevano già raggiunti – ci fece fermare e rimanere in silenzio.

Nel momento in cui gli occhi della madre raggiunsero e si fermarono dentro quelli del profeta, si produsse una vibrazione nell’aria. Una specie di tremore sembrò impossessarsi della distanza che separava i due, come un’improvvisa folata di vento.

Immediatamente, lacrime cominciarono a rigare il volto della madre. Erano fili spessi e continui che scivolavano lungo il suo viso, sembravano fiumi impetuosi provenienti da terre molto umide. Non le rendevano il volto arrossato e nemmeno la rendevano brutta.

Rimase immobile. Le donne che procedevano davanti a lei, coperte di cenere e sporcizia, urlavano così forte che non si accorsero di nulla e continuarono a scendere. E nemmeno i ragazzi erano consapevoli di ciò che stava accadendo, concentrati com’erano nel dirottare lo sforzo nel sostenere il corpo del loro compagno.

La breccia nel corteo si aprì ancora di più: il caos delle persone in lutto e il rumore dell’avanzare del corteo svanirono. La madre era ancora in piedi. Dietro c’era il corpo di suo figlio. I ragazzi che trasportavano il corpo non osarono sorpassare la vedova. Non compresero la sosta, ma rimasero fermi e in attesa.

Il profeta tacque per un po’ – lo notai particolarmente commosso e teso – si inclinò verso di lei e, senza toccarla, tutto il suo corpo si curvò. Mostrava compassione con quella postura. Non erano necessarie parole o altro. Fu il curvarsi del suo corpo sulla donna ciò che mi colpì di più in quel momento.

Immaginai la quantità di abbracci e di condoglianze che quella donna aveva ricevuto nelle ultime ore. E, in quel preciso momento, arrivava uno sconosciuto, che sicuramente non aveva mai visto e fermava il corteo con un semplice sguardo. Ma che sguardo! Lei continuava a piangere.

Sembrava che stesse per rinsecchirsi l’animo, tanto grandi erano i rivoli d’acqua che scorrevano dai suoi occhi. Smise di essere rigida, come se le lacrime l’avessero ammorbidita, e il suo modo di inchinarsi era ora simile a quello del profeta. Sembrava ancora più indifesa.

Il mantello le scivolò dalle spalle, lasciando scoperta la testa, il collo e le orecchie. Io rimanevo immobile. Intorno a me le cose avevano smesso di muoversi e il tempo pareva essersi arrestato. Il profeta le si avvicinò e le sussurrò all’orecchio con un timbro di voce tenero e potente allo stesso tempo:

Donna, non piangere!  –

In quel momento le mie viscere si agitarono con un’intensità sconosciuta, maggiore di qualsiasi emozione che avessi mai provato. Non avevo mai identificato qualcosa di così impetuoso dentro di me. Mi ribellavo: come poteva uno sconosciuto dire queste parole a una donna che aveva appena perso il figlio? Pensai che il profeta fosse uno sciocco.

La donna continuava a piangere. Come si può essere così insensibili di fronte al più grande dolore del mondo? Per caso egli sapeva quale potesse essere il dolore di una madre? La donna continuava a piangere. Come poteva avere l’audacia di intromettersi in un sentimento che non lo riguardava e di cui lui non partecipava? La donna continuava a piangere.

Era assurdo!

Avrei voluto urlare e far arrivare la mia voce al cielo. Solo tre parole, come lance erette, squarciarono il cielo azzurro di quel pomeriggio: «Donna, non piangere!». Ascoltavo le tre parole con rabbia.

Ma, sotto quell’urlo di ribellione che stentava a uscire – ogni volta che ci ripenso mi sembra difficile da capire – qualcosa mi stava tirando da dentro, qualcosa di silenzioso, che mi prendeva profondamente dalle viscere.

Col passare delle emozioni che quella scena suscitò in me e di quello che aveva smosso dentro di me, percepii tante cose. La ribellione iniziale era solo la superficie più esterna, ma la forza della spinta nasceva da una emozione più profonda, che comprendeva tutte le altre: una tristezza che univa tutti i precedenti sentimenti, tutti quelli provati nella mia vita.

La tristezza dell’infanzia senza i miei genitori, la tristezza delle umiliazioni a palazzo, la tristezza della perdita di Salomé, la tristezza dell’ingiustizia, la tristezza per non aver potuto salutare le mie zie, la solitudine. Erano tutti lì in quel momento, insieme alla desolazione per quella donna.

Pur essendo dentro di me, accumulati negli anni, tornavano in superficie davanti alla porta della città di Nain, nel mezzo di una processione.

Ero diventata tutt’una con la vedova.

Avevo anche io il mio bagaglio di morti. Dietro di me c’erano i cadaveri della mia storia. E allo stesso tempo non capivo nulla. Inoltre, ero arrabbiata col cugino di Giovanni per aver detto cose così sconvenienti e persino crudeli.

Non mi mossi da lì. L’agitazione imperversava dentro di me. Il cugino di Giovanni continuava a fissare con un’intensità che faceva tremare.

In un istante compresi che lo stava facendo come se stesse raccogliendo il dolore che trapassava la vedova da un lato all’altro, come se nessuno potesse riconoscere e sentire il suo dolore in modo più completo di lui.

La potenza di quanto stava accadendo aveva fatto sostare il corteo e, in un modo difficile da comprendere, aveva generato un’agitazione in noi che stavamo intorno: si notava la tensione, mista a stupore, smarrimento e attesa. Poi, accadde che, spinta dalle tristezze che erano accorse al richiamo di quella situazione, dissi, con un grido strozzato:

«Certo che piange, il suo dolore è immenso. Come potrebbe non farlo?»

Il cugino di Giovanni alzò lo sguardo dalla spalla della vedova e guardò me. I suoi occhi raggiunsero le profondità in cui si accumulava la tristezza, e non potevo distogliere lo sguardo, non potevo respingerlo, non potevo impedirgli di guardarmi così, nello stesso modo in cui aveva guardato prima la vedova.

Anche con me, si chinava su ciò che avevo portato dentro per anni.

Poi furono le mie lacrime che iniziarono a bagnare il mio mantello. Vinceva una dolce tristezza, molto diversa da quella che avevo vissuto tante volte.

Si imponeva sulla ribellione.

Non lo faceva con violenza, ma rendendo soave l’asperità e lasciando indietro l’odio. Era un combattimento a tre, perché colui che era entrato nella lite era il profeta: placava le mie tristezze e vinceva le mie ribellioni. Non so quanto tempo passò.

Qualche momento dopo, il cugino di Giovanni prese in rassegna con lo sguardo le cose che separavano la donna e me: la strada, le pietre intorno, la porta della città, alcuni cespugli aridi che la processione aveva evitato, le persone in lutto…

Mi vinceva: seguii i suoi occhi e attraverso essi cominciai a vedere le cose intorno a me.

Lo imitai quando iniziò a guardare il cielo: ogni squarcio di blu sembrava più radioso e le nuvole di quel pomeriggio caldo somigliavano a grandi batuffoli di cotone che si tingevano di sfumature rosa, viola e rossastre. Nel suo sguardo le cose uscivano dal grigiore e acquisivano rifrazioni luminose e colori differenti. Diventavano desiderabili.

In quel momento feci uno strano collegamento nella mente: passai da ciò che guardavano gli occhi del profeta – e mi costò, perché erano sentimenti per me nuovi, mai provati prima – al volto di Salomè che mi portavo scolpito dentro.

A forza di ripetersi nei miei incubi, si era trasformato in una faccia sfigurata che mi seguiva terrorizzandomi. La vidi in un modo diverso. Desiderai con tutte le mie forze che anche lei potesse sentire il profeta dire: «Donna, non piangere!». Era troppo tardi. O forse, ormai, lei non voleva più sentirlo.

Giovanna e Beulah si avvicinarono e mi portarono con loro. Quella notte la passammo nelle periferie della città, in un accampamento improvvisato ai piedi delle mura. Non dormii, ma non furono gli incubi dati dal cattivo odore o l’immagine sfigurata di Salomé che mi tennero sveglia.

All’alba osservai a cielo aperto tutte le stelle del firmamento, una per una, e mi misi a raccontare le storie con cui i beduini le collegavano – le sussurrai nell’orecchio a Beulah – fu la prima nottata in pace dopo molto tempo.

Aspettavo l’arrivo dell’alba per vedere cosa mi attendeva, ma alle prime luci il sonno mi vinse, profondo, calmo; mi sentivo come un bambino accolto da una mano che non vedevo, una mano che mi cullava».


Questa scena appartiene a un racconto più lungo ed è nato al calore dell’immedesimazione che Giussani faceva degli incontri evangelici e risponde alla esigenza che avevo di conoscere di più cosa significassero i suoi gesti, le sue parole…

E queste di fronte al dolore di una donna addolorata per la morte di suo figlio sono impressionanti. Io volevo scoprire se potessero servire a tutte le donne addolorate.

Infatti, la struttura stessa del romanzo è costituita a partire di questo rapporto tra passato e presente. Sono le diverse voci quelle che rivivono la scena: attraverso le parole dettata ad uno scriba, arrivano ad un’archeologa inglese che alla fine della sua vita si sente accompagnata dalla storia di Miray, storia che traduce in un quaderno; ed ancora questa storia trova una narratrice appassionata che riunisce i materiali, le parole delle diverse donne, e le pubblica.

È un tentativo di fare arrivare la forza e la straordinarietà del gesto e delle parole di Gesù, attraverso il tempo, fino ad oggi. Perché quelle parole arrivano a me oggi. «Donna, non piangere!»

Un camino. Né declino, né salita.

Invecchiamo, gli amori cambiano, le forze diminuiscono, le cose che sembravano fresche ci deludono, i cari se ne vanno… Allora, ci diciamo: «Come è possibile che non diminuisca quell’Amore incontrato in gioventù e che ha fatto brillare l’esistenza tutta?».

Mi ricordo benissimo la volta che ho ascoltato Julián, con più di sessanta anni, dire: «Io non posso alzarmi al mattino senza sentire la Sua voce», erano parole dette con una vibrazione, una vitalità e una gioia che mi hanno fatto saltare dalla sedia.

Ancora ricordo quel nuvoloso mattino di marzo, sono uscita certa: «C’è Uno che non solo è fedele, ma che rinnova l’umanità, ed ancora è possibile vivere oggi di questo Amore» …

E qua viene una cosa decisiva dell’educazione e del pensiero di Julián a mio parere. Lui non si abbandona alle impressioni, alle emozioni di momenti speciali, né a dei sentimenti slegati…Tutto il contrario, lui propone un cammino.

Un camino per il quale è necessario un bagaglio leggero, come Antonio Machado diceva di sé. C’è bisogno soltanto di due cose: attenzione a quello che succede e semplicità di cuore; con queste cose nelle valigia si può iniziare il cammino.

Mi è piaciuto molto come Agostino descrive la scoperta di come pensava che il cammino fosse una ascensione. No. Non è un camino della volontà disegnato per i forti che sanno come salire.

No, il camino lo percorrono gli attenti. E nemmeno è un camino di declino dove le cose vanno perdendo la loro forza: è un cammino aperto all’Imprevisto di Uno che sorprende, che accade, che accompagna, che rinnova.

Credetemi, sono una donna con più di 50 anni e dico: è possibile vivere di questo Amore che ci dona la realtà per cercarlo e scoprire il suo Volto, mai vecchio, sempre nuovo e sorprendente perché Lui fa tutte le cose nuove.