1986 Esercizi spirituali -«IL VOLTO DEL PADRE»

Esercizi spirituali di don Giussani 1986



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La coscienza del Padre (118)

(120) Per noi cristiani, ogni momento della vita ha una drammaticità che non lascia spazio neanche per un pelo alla noia, alla ripetitività.

La nostra vita è un dramma di cui siamo attori momento per momento.

«E noi che di notte vegliammo/attenti alla fede nel mondo»

(121) Pensavo, mentre cantavamo questo inno: se le nostre ragazze che sono madri, se i nostri amici, che sono padri, facessero diventare abituale in loro questa coscienza della «fede nel mondo» quando debbono fare il sacrificio di alzarsi di notte per il loro bambino, chissà come vibrerebbero.

Dentro il gesto di un sacrificio è la verità del mondo che urge alla tua porta per essere riconosciuta, e nel disagio della provocazione, che le circostanze ti danno in quel momento, diventa più facile pensarci.

Ma questo è solo un simbolo del fatto che «attendi alla fede del mondo» noi dobbiamo esserlo in tutti i gesti della giornata.

È questo il punto in cui dobbiamo aiutarci, perché è quello che rende vera la nostra vita, che rende la nostra vita lieta, che rende la nostra vita – diciamo – umana: verità e letizia umana.

Non esiste più la banalità, non esiste più, per chi è stato chiamato alla fede, il puramente meccanico, qualcosa che sia puramente meccanico.

La vita diventa umana quando, nel fare quotidiano, accetta e ospita Dio che si è reso familiare a noi, che si è rivelato Padre; lo ospita non solo in questi due giorni, ma sempre in tutta la vita.

( 122) Io sono l’ultimo, non sono neanche degno di essere chiamato cristiano, perché sono pieno di distrazioni e di errori, sono sempre un po’ esausto, eppure c’è in me una capacità di fare, per cui potrei fare anche più degli altri: non io, però, ma la grazia che è in me.

(123) «Colui che ha iniziato, mi porterà fino in fondo»

Ci vuole una grande ingenuità per essere tranquilli e sereni nella speranza che quello che Dio ha cominciato si porterà a termine.

Ci vuole una grande ingenuità: è l’ingenuità del bambino.

Ognuno di noi è come l’ultimo, non sarebbe degno di essere chiamato cristiano, per tutti gli errori, per tutte le incoerenze, per tutta la sua stanchezza piena di connivenza, eppure ognuno di noi può fare più degli altri, può fare tutto: non lui, ma la grazia che è in lui.

La grazia che è in noi è qualcosa che è accaduto nel mondo.

Pensate, è qualcosa che è accaduto, è Uno che è venuto, si chiama Cristo!

(124) La cosa più dolorosa, davanti alla quale non si può dire nulla, perché anche noi siamo così, è l’astrattezza con cui pensiamo o parliamo di Cristo, tant’è vero che non gli parliamo mai.

«Se qualcuno mi provasse che Cristo è fuori della verità e che la verità stesse realmente fuori di Cristo, preferirei essere con Cristo e non con la verità» (Dostoevskij “Lettere sulla creatività“).

È paradossale, perché Cristo è la verità.

Ma io vorrei che la grazia di questa tenerezza e di questa acutezza nel percepire la grande presenza di questo Uomo […] penetrassero un po’ in tutti noi.

(125) «Nell’esperienza di un grande amore […] tutto diventa un avvenimento nel suo ambito».

R. Guardini, L’essenza del cristianesimo

Vi sto parlando come uomo che ha avuto la grazia della fede come ognuno di voi.

Noi dobbiamo giungere a questo, dobbiamo giungere a che l’affezione e, in un modo o nell’altro, vi influisca, perché esse diventino più vere e i nostri rapporti diventino più lieti, cioè la nostra vita diventi più umana, poiché è attraverso la nostra vita diventata più umana che tutto il mondo Lo riconoscerà.

Punto 1° (126)

«Che cosa accade quando io stesso mi faccio cristiano, cioè quando mi sottometto al nome di questo Cristo, approvandolo così come l’uomo modello, come il parametro (criterio) normativo di ogni agire umano?» (Ratzinger in «Introduzione al cristianesimo»).

Ratzinger – Introduzione al cristianesimo

Ratzinger incomincia a dire che essere cristiani vuol dire sottomettersi al nome di questo Cristo – «nome» in senso ebraico – a questa Presenza, alla forza di questa Presenza, «approvandolo così», riconoscendolo, «come l’uomo modello», che deve investire la mia vita, come il criterio, «il parametro normativo d’ogni agire umano».

(127) Una cosa: la coscienza della nostra vita dipende da un Altro ed è in funzione di un Altro!

La nostra vita è in funzione di un Altro.

La nostra vita riconosce il Padre: questa è la grande parola.

Ecco, allora, la prima cosa che fa succedere in noi, la cosa fondamentale che deve far succedere in noi Cristo come uomo, Cristo come modello della vita, come parametro, come criterio dell’agire: la coscienza che noi siamo «di» qualcosa di più grande, siamo «del» Padre.

(128) Cristo, come uomo, era totalmente determinato da questa coscienza, tanto è vero che ha potuto dire:

«Io e il Padre siamo una cosa sola».

Gv 10,30

(129) La mia vita è compiere la Sua opera, perché sono prete; per me è esattamente come te che sei una dattilografa!

«Mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato e compiere la sua opera»

Gv 5,17

La sua coscienza era continuamente specchio del Padre.

«Io non posso fare nulla da me stesso: giudico secondo quello che e ascolto»

Gv 5,30

(130) La volontà del Padre è che io non perda nulla di ciò che mi ha dato: ogni momento, ogni circostanza di vita, ogni provocazione, ogni cosa da fare.

Il movimento è questo cuore nuovo, è un uomo nuovo, cioè una coscienza nuova, è la coscienza del destino.

Non del destino che sta là, ma prima di tutto dal destino che sta dentro di me: sono fatto di qualcosa d’altro.

Non si cerca l’affermazione dei propri punti di vista, ma l’affermazione piena di tentativo e di umiltà della verità, nella ricerca del “parere” di colui che ci ha mandati.

È un atteggiamento diverso della coscienza.

(131) La parola «coscienza» sulla bocca del cristiano è totalmente l’opposto di quella sulla bocca dell’uomo moderno.

Sulla bocca dell’uomo moderno la parola coscienza («io seguo la mia coscienza») significa il luogo dove uno genera i suoi pareri, i suoi pensieri: la coscienza è concepita come la sorgente dei criteri e dei pareri.

Invece, per l’uomo cristiano non è così:

La coscienza è il luogo di sé dove uno cerca e ascolta la verità di un Altro; perciò il cristiano è per sua natura umile, e quando la cosa è chiara, è certissimo, è umilmente certo.

Che tranquillità, che sicurezza, che pace c’è allora!

Quando invece è il nostro parere che conta, vogliamo a tutti i costi che passi: dominiamo.

(132) Pensare al Padre è un modo veritiero di pensare alle cose, è il modo vero di pensare alle cose: è una modalità dello sguardo che porti a tua moglie o a tuo marito, ai tuoi figli, al tuo lavoro, al bene e al male che ti accade, a te stesso.

Siamo fatti da un Altro, non ci facciamo da soli.

Punto 2° (133)

Ho detto che il pensare al padre, la coscienza del Padre dominava la coscienza di Cristo.

Perciò se seguiamo Cristo, se siamo cristiani, se scegliamo Cristo come modello, «l’uomo modello», il parametro del nostro agire, allora il nostro agire è dominato e determinato, investito sempre più dalla coscienza di questo qualcosa di più grande che chiamiamo timidamente «Padre».

Così la coscienza di Dio deve penetrare quel che facciamo; e lentamente col tempo, diventa abituale.

La santità non è una cosa da aureola, è ciò a cui siamo chiamati, è la verità del vivere umano.

(134) Il peccato, che è letteralmente il venir meno della coscienza del Padre, cioè il venir meno della tensione a far accadere questa coscienza.

Il male è l’agire umano che abbandona la coscienza di questo rapporto.

Che importanza hanno allora le preghiere del mattino e della sera! che importanza ha dire il Padre Nostro! Obblighiamoci a dirlo adagio, pesando le parole: che almeno un istante nelle ventiquattro ore uno diventi uomo, perché poi influisce su tutto.

(135) La malvagità è tutto ciò che facciamo per uno scopo effimero, che butta nel nulla il tutto.

Noi dobbiamo andare controcorrente, dobbiamo redimere la nostra vita, che butta tutto nel niente.

La nostra vita è funzione di qualcosa di più grande.

Nella misura in cui la coscienza di ciò non diventa grande in noi e lentamente non sottende tutto quello che facciamo, noi sbattiamo nel niente tutto.

(136) È come una guerra, nel senso che bisogna andare contro la corrente, contro la forza d’inerzia che ci fa fissare l’orizzonte del nostro agire in ciò stesso che facciamo e nel breve calcolo dell’utilità che noi stabiliamo.

Il punto non è fare il proposito di pensare a Dio tutte le volte che si agisce.

Ma, per esempio, se uno moltiplica i “Padre Nostro” durante la giornata, se uno durante la giornata resta fedele a certi momenti – le Lodi, l’Ora media, il Vespro, la Compieta, la Comunione, la confessione -, se uno resta fedele a queste cose, o all’una o all’altra, questo influisce su tutto.

(137) Stiamo attenti dunque al peccato.

[…] Dobbiamo arrivare a entrare dentro la verità: che la ragione della vita è Cristo, vale a dire che senza la fede viene meno la nostra ragione, diventa meno ragionevole il vivere.

(Il peccato) è il venire meno di ciò che costituisce il nostro rapporto con il tutto, il venir meno di quel rapporto che costituisce la vita.

La gente che andava a sentire Gesù era tutta impressionata perché continuava a parlare con il Padre; la sua “idea fissa”, cioè la sua coscienza, la coscienza che aveva di sé, era la dipendenza dal Padre, il rapporto con il Padre, con colui che lo mandava, e di cui era costituito.

Ma l’altro sentimento che vibrava in Cristo era la passione perché la gente fosse felice.

È per una letizia della vita, è per una vita più umana, che le diciamo.

La pace, infatti, non può nascere se non dalla letizia.

«Per sperare, bimba mia, bisogna esser molto felici, bisogna aver ottenuto, ricevuto una grande grazia»

peguy «IL P ORTICO DEL MISTERO DELLA SECONDA VIRTù»

(139) E la grande gioia è questa sicurezza assoluta dell’essere posseduti da chi è più grande di noi, tanto che è lui che ci fa, ci costruisce.

Punto 3° (139)

Non domini una nostalgia determinata dalla malinconia dei nostri errori, non un: «È impossibile», una disperazione sottile, dovuta al tran tran della nostra vita; non il terrore di fronte a prove che possono essere eccessive, no!

Senza paura il pensiero di Dio, la coscienza di Dio, così come l’ha vissuta Gesù, nostro modello.

La libertà si gioca proprio nella scelta tra la paura, l’insabbiarsi del peccato, e il senza timore, il non aver paura.

Il nostro errore non ci impiglia, non ci insabbia più, accadesse cento, mille, centomila volte in un giorno.

(140) La libertà: questo è il mistero più grande, insieme al mistero di Cristo.

Il mistero di Dio che muore in croce ha un solo paragone come grandezza del mistero: la libertà dell’uomo, che l’uomo possa odiare la verità, cioè odiare sé stesso, che l’uomo possa essere così impudentemente presuntuoso.

Trovare qualcuno che fa così con te ti fa venire il vomito.

Ecco, tu fai così tranquillamente e sempre con Dio.

La mia vita è funzione di qualcosa di più grande.

(141) Siccome è più grande, non posso neanche sognare in che modo si stabilisca questo rapporto, questa proporzione.

(142) Allora ecco cosa che accade «quando io stesso mi faccio cristiano, quando mi sottometto al nome di questo Cristo, approvandolo così come l’uomo modello, come il parametro normativo di ogni agire umano»: la mia vita incomincia a riconoscersi appartenente a qualcosa di più grande, in funzione di qualcosa di più grande, di un Padre.

Percepire il proprio peccato è infatti l’inizio della verità, ed è il contrario di quel peso soffocante di cui non sappiamo l’origine e il valore e che subiamo normalmente, essendo schiavi di un ritmo e di un meccanismo senza ragioni, vale a dire che ha solo ne nostre ragioni, cioè che non ha ragioni.

Il peccato è la dimenticanza di Dio nella vita.

(143) Senza paura! Occorre accettare di essere senza paura in mezzo a tutti i propri mali, occorre cioè accettare di abbandonarsi a Cristo, di abbandonarmi a te, o Cristo, invece che restare presuntuoso, risentito, o illanguidito su me stesso, crollando su me stesso.

«Quale tipo di svolta dell’essere, quale posizione di fronte all’umanità mi assumo io così facendo?».

Il mio merito non è quel che faccio io, è la Tua misericordia; il mio merito, il mio valore è nel fatto che tu mi ami, e mi ami perché mi fai

La svolta dell'essere si chiama «sacrificio».

(144) Così, il sacrificio nella nostra vita non solo non è contro la vita, ma è la modalità con cui viene alla luce l’amore della vita, che la vita è amore, cioè l’affermazione di qualcosa d’Altro: amare è affermare qualcosa d’Altro.

La vita dell’uomo è amore, perché è affermare qualcosa più grande di sé.

È nel sacrificio che questo viene a galla.

Il sacrificio è la rinuncia all’affermazione di una proprio misura, ed è nel perdere la mia misura che io affermo la misura di un Altro.

(145) Qualunque lavoro facciate, non esiste nessun lavoro umano paragonabile a questo lavoro della coscienza, cioè al lavoro verso la verità.


Nacque il tuo nome da ciò che fissavi (146)

Alla permanenza della nostra debolezza corrisponde la permanenza della Sua presenza.

«Se Tu vorrai, mi salverai»; io te lo grido «Salvami»


Punto 1° (146)

Il peccato del nostro secolo è la perdita del senso del peccato.

(147) L’uomo commette il peccato senza chiamare per nome ciò che fa.

Amici miei questa è la prima verità; non è la prima verità in assoluto, ma è la prima verità che emerge dall’uomo percosso dal vivere.

Questa però non è la via della liberazione, Essa è soltanto la via della falsificazione della verità.

La via della liberazione giunge a buon fine solo attraverso la verità.

La prima verità dell’uomo colpito dal vivere è il riconoscimento della sua miseria, della sua inadeguatezza, una inadeguatezza connivente.

(148) Il senso del male, del peccato, accade infatti là dove l’uomo ha coscienza della sua dipendenza da qualcosa di più grande.

L’uomo nel mondo di oggi è costruito, è educato sistematicamente a portare via lo sguardo da ciò cui appartiene, da Dio; è educato a quello che abbiamo chiamato la dissipazione, o la distrazione, la smemoratezza.

L’uomo di oggi – tutti noi – è immensamente più debole, più fragile di fronte alla verità.

Ma la perdita del senso del peccato vuol dire perdita del senso dell’appartenenza a Dio: si tratta qui del peccato come rifiuto del logos, come rifiuto del mondo ordinato a un disegno più grande.

Questo è diventato forma mentale.

(149)Molto profondamente, il peccato è indicato non come incoerenza, n

on come debolezza, ma come rifiuto di Dio.

In noi non è un rifiuto consapevole, un rifiuto cosciente, un rifiuto critico: nel mondo sì, è un rifiuto critico, che fluisce, rifluisce anche dentro di noi come rifiuto.

La nostra vita si imposta come facendo al Signore, al Padre che ci genera, al cui cenno dovremmo agire, una nicchia.

Noi costruiamo, per questo Padre, nel migliore dei casi una nicchia, come un aggeggio tra gli altri, non determinante la vita, non determinante l’agire umano.

Il rifiuto di Dio è forma culturale del nostro tempo.

E badate che essa ci penetra totalmente.

Vorrei che ci rendessimo più consapevoli della presenza del peccato nella nostra vita […] non del peccato in senso moralistico o nel senso, così umano, dell’incoerenza – nei gesti, nei fatti – ma del peccato proprio della sua radice totale, che è il rifiuto di Dio.

(151) Non possiamo essere contenti di qualche purità superficiale nel nostro comportamento quando non sentissimo la nostra vita in funzione della lotta per il regno di Dio.

Punto 2° (151)

L’anticristianesimo è qui: se Cristo è l’uomo che ha una coscienza permanente del suo rapporto con il Padre, l’anticristo è la posizione di chi vive dimenticando Dio, anche se incensa e mette ceri a una statuetta.

(Nel libro La coscienza religiosa dell’uomo moderno) sono indicate le tre grandi direttive le flessioni della mentalità mondana, che elimina il senso del peccato nel nostro agire, perché commette il peccato più vero, che sta alla radice: la dimenticanza di Dio.

A

(152) La prima di queste flessioni che stanno all’origine di tutti i nostri errori, riguarda il senso della vita.

il senso della vita come riuscita, il riuscire nella vita, dove il suo contenuto è fissato dal singolo.

La riuscita della vita: proviamo a pensare se nelle nostre famiglie questo non sia, sotto sotto, il criterio determinante.

(153) È questo il primo idolo della mentalità moderna, che penetra come piovra negli interstizi della nostra vita personale e familiare: la riuscita. Il demone della riuscita, in qualunque senso, dal riuscire ad avere la donna al riuscire ad avere figli, al riuscire ad aver soldi, al riuscire ad avere la salute.

È il riuscire come idolo.

B

La seconda flessione è l’istintività.

La seconda caratteristica della mentalità moderna, atea nel senso pratico del termine, è quindi l’istintività, la moralità resa uguale a istinto o a spontaneità.

L’uomo moderno guarda al mondo, alla realtà, non come a un’«opera», riconoscendo la Presenza che si esprime in essa e nel suo ordine, ma semplicemente come a un palcoscenico o a una piazza dove l’uomo irresponsabile, l’irresponsabilità nostra, gioca quello che sente, cioè gioca in base alla reazione che le circostanze producono: l’uomo è ridotto a una fattore meccanico.

C

Terza flessione: l’autonomia della ragione.

(154) Non più il modo opera di un Altro, a cui obbedire, ma la realtà dove l’istinto brandito dalla scaltrezza e dalla dignità della ragione – scienza e tecnica – diventa pretesto perché l’uomo compia l’opera che gli salta in mente, la visione che si crea, come predicava Bertrand Russel.


Punto 3°(155)

Tutto ciò porta ad una inconsistenza dell’uomo.

La nostra diventa così un’epoca di gente alienata.

L’alternativa, perciò, tragica: o si ha come parametro Cristo o si ha come parametro quello che stabilisce il potere, con le categorie della cultura in voga.

Giovanni Paolo II riassumeva questa distruzione dell’uomo che la civiltà di oggi persegue con una frase tremenda: l’uomo ridotto a «un frammento della materia o cittadino anonimo della città terrena» (Discorso ad un gruppo di ufficiali dell’Esercito italiano 9 luglio 1984).

La biogenetica, con tutte le sue scoperte, può rischiare di andare in questa direzione

(156) La punta più acuta della presunzione della scienza moderna di costruire l’uomo rappresenta il tentativo di distruggerlo.

Noi abbiamo individuato nella perdita totale della libertà la conseguenza della dimenticanza di Dio nella vita.

Si può arrivare ad una perdita totale della libertà perché, quanto più la scienza va avanti e quanto più la tecnica si scaltrisce, tanto più il potere ha la capacità di sorprendere il tuoi pensieri e i tuoi sentimenti dalla nascita: “ti decide” lui, mentre sei persuaso di decidere tu!

(157) Alla perdita della libertà concorre l’abolizione del passato, la rottura col passato.

L’uomo è lì solo come un cane, nel senso letterale della parola: il cane non ha il senso del passato, un gatto non ha il senso del passato.

Abolendo il passato, l’uomo rimane come un disgraziato, resta miserabile, e non ha più nulla da dire.

Abolizione della libertà, abolizione del senso del passato e, perciò, una solitudine.

È l’abolizione dell’uomo, che si riduce ad essere «frammento della materia o cittadino anonimo della città terrena».


Punto 4° (158)

E invece la regola della tua azione anche piccola, è l’infinito, è la funzionalità al grande ordine di Dio.

Allora, anche mentre sei lì a lavare i piatti, è l’universo che hai in mano, è l’amore all’infinito che hai in mano.

Infatti c’è la pace.

«Perché la pace, chi la conosce, sa che in parti uguali di dolore e gioia è fatta»: di gioia per il possesso del rapporto con l’infinito; di dolore, per la fatica, appunto, dello strappo.

Uno deve strapparsi dalla misura della sua spanna.

(159) La pace è questo strappo alla tua misura breve, per cui, seguendo la prospettiva dell’infinito, il parametro di Cristo, fai diventare pieno di gioia il tuo momento, che rimane momento, ma diventa più vero, finalmente vero.

E la verità dura in eterno.

Bisogna andare contro corrente, altrimenti si diventa pezzetto di materia o cittadini anonimi, senza nome, della città terrena.

Che cosa fissi alla mattina quando ti alzi?

Che cosa fissi quando sei coi tuoi figli?

(160) Cosa fissi nel tuo tempo libero?

Il sacrificio è esattamente, come diceva la preghiera di stamattina, il tenere fissi gli occhi al Padre, perché questo è imitare Cristo.


Perciò il sacrificio ripropone l'affermazione di una misura più grande, che è l'amore, è l'amare.

L’amare è affermare l’altro.

Solitamente noi affermiamo, invece, la nostra presa dell’altro, quello che ci conviene dell’altro; si chiama strumentalizzazione.

(161) Vuol dire che l’indissolubilità del matrimonio si fonda nel fatto che il rapporto tra l’uomo e la donna non ha come scopo la loro reazione, ma ha come scopo servire il regno di Dio, servirlo in quella situazione, nella famiglia, che ha come scopo la generazione dei figli.

E, per un figlio, per natura, padre e madre sono due; per sempre, per l’eternità, sono due.

La lotta cioè, è fra la concezione dell’uomo e della donna come istintività, secondo «la veduta corta di una spanna», o come servizio al Regno di Dio.

Il sacrificio diventa, da una parte, partecipazione alla Croce di Cristo, al gesto che libera dalla corta veduta di una spanna, dalla schiavitù del mondo – la croce libera da questo -, ma, dall’altra, nello stesso tempo, è l‘inizio della resurrezione.

(162) Il sacrificio che ripropone l'affermazione di una misura più grande, cioè dell'amore, l'affermazione dell'altro, stabilisce i rapporti tra gli uomini come fraternità.

(163) Nel vivere e nel morire nel mangiare e nel bere, nel vegliare e nel dormire, in tutto siamo «di» Cristo, un «di» qualcosa d’altro.

È il sacrificio che rende vero il gesto della madre, perché la rende madre: è quando il figlio nasce che lei diventa compiutamente madre.

(164) La profondità cui giunge questo processo è quella di un mondo nuovo, creato da un modo nuovo di convivenza.

È il modo nuovo di convivenza che crea un mondo nuovo.

(165) Questo realizza un miracolo in questo mondo, il miracolo di una umanità diversa: sarà una realtà piccola, una famiglia; sarà più grande, una Fraternità; sarà una comunità, un movimento; sarà decisamente più grande, una regione del mondo investita da questo, ma il miracolo è sempre lo stesso.

Si chiama miracolo, perché attraverso di esso, la fede dimostra la sua verità.

La metanoia è la concezione diversa della vita e del mondo che nasce là dove si riconosca che la realtà e la vita sono funzione della volontà di Dio, del Padre: «Venga il tuo regno»!

(166) La frase più bella di Ratzinger nel suo libretto Il cammino pasquale è questa: «L’amore in astratto non avrà mai forza nel mondo, se non affonda le sue radici in comunità concrete, costruite sull’amore fraterno». Perché si incomincia dal prossimo.

Continua Ratzinger: «La civiltà dell’amore si costruisce soltanto partendo da piccole comunità fraterne. Si deve cominciare dal particolare per arrivare all’universale. La costruzione di spazi di fraternità è oggi non meno importante che nei tempi di San Giovanni o di San Benedetto, che con la fondazione della fraternità dei monaci fu il vero architetto dell’Europa cristiana, costruendo i modelli della nuova città nella fraternità della fede»

(167) Dobbiamo aver compassione del mondo!

E perciò dobbiamo realizzare ciò che è stato dato a noi perché si diffonda l’umanità migliore, la civiltà della verità e dell’amore attorno a noi, il più possibile.


Omelia (167)

Sarebbe la cosa che il cuore desidera di più: che Dio diventi familiare.

E questo è il metodo che Dio ha usato.

(168) Ma la mente dell’uomo è come se non volesse crederci.

Sarebbe quello che il cuore dell’uomo desidererebbe più di tutto: che Dio, che il Padre sia veramente una realtà familiare come la propria donna che si vede in casa.

(169) La familiarità del Signore non la capiscono, anzi, la prendono come uno scandalo, gli scribi e i farisei, quelli che credono già di sapere.

Che tutto, anche il nostro dolore, come la nostra gioia, anche l’ingiustizia nostra, come la giustizia nostra, la malattia e la salute, la vita o la morte, tutto sia in funzione di Lui, di qualcosa di più grande, e perciò chela vita, non di santa Teresina o di santa Teresa d’Àvila, o di Giovanni, Simone, Andrea, Paolo, ma la mia, la tua, che la nostra vita abbia come legge l’amare, vale a dire affermare Qualcuno, affermare una Presenza più grande di noi.


Icaro, il rapporto con l’infinito (171)

La Madonna non poteva, istante per istante, non sentire se stessa come immolata in un sacrificio per il mondo, non poteva non sentire la propria vita come funzione di qualcosa di più grande.

[….] noi dobbiamo chiederle che ci avvicini a questo livello grande di consapevolezza della propria vita, della propria esistenza, del proprio io, come funzione del disegno del Padre.


È solo la gratitudine che rende capaci di ricevere bene.

Questa è una condizione creaturale, perché siamo creature, siamo fatti.

(172) Il paragone unico di quello che dobbiamo essere vicendevolmente è quello dell’amore che avete ai vostri bambini, perché questo vuol dire essere immagine del Padre, essere fatti come Dio.

Se io devo imitare Dio, qual’è la cosa principale, che Dio è per me?

Amore e misericordia.

Bisogna amare se stessi.

Camminare insieme è un crescendo, o altrimenti non è camminare.

Questo è il valore incomparabile della nostra compagnia.

8173) L’amore a sé stessi deve diventare sempre più grande.


Punto 1° (173)

ICARO: Henri Matisse e la rappresentazione del volo – Colibrì Gallery

L’Icaro del mito antico, così come l’Ulisse dell’antico mito pagano, rappresenta dolorosamente e affascinantemente l’impeto che è il cuore umano, l’impeto con cui il cuore umano tende alla verità, alla giustizia, alla bellezza e alla felicità, al possesso di tutto.

Ma la condizione umana rende incapaci di raggiungere ciò cui si aspira. Questa è la tragedia che sottende la vita.

(174) Ma dall’avvento del Signore, da quando Dio, il Padre, è diventato, in suo Figlio, Presenza tra di noi, da quando è venuto il Signore, questo mito è diventato realtà.

Questa è la moralità: che la concezione, il sentimento di noi stessi sia talmente definito dalla coscienza della grande presenza di Dio, Padre, che ogni nostra espressione, sempre più ovviamente, sempre più normalmente sia compiuta come rapporto con il grande disegno.

Questo Icaro è l’uomo che ha conosciuto il Signore, e perciò vive la sua vita lanciato nel rapporto con il grande universo di Dio.

La moralità di un'azione è misurata dal rapporto tra quell'azione e il disegno di Dio.

Non per nulla la moralità suprema, si dice, è l’offerta, nell’offerta; stessi anche pulendo un bicchiere, io stabilisco un nesso con l’infinito.

(175) L’uomo è tutto se stesso nell’istante, nell’azione, ora, perché l’istante prima non c’è più e l’istante dopo non c’è ancora e non sappiamo come sarà.

La grandezza dell’immagine di Matisse, che per noi non è una fiaba o un mito, ma è il mito realizzato, l’ideale realizzato, deve diventare lo spazio quotidiano.

(176) Ogni nostro gesto, ogni nostra azione, ogni nostro comportamento è una prigione o è un sepolcro, se non ha questo spazio.

E le cose grandi non sono le cose grandi, ma il cuore grande.

Meno di così, meno di questo ideale, si muore: è la figura dell’Icaro spiaccicata per terra.


Punto 2° (177)

La nostra vita deve riuscire non come successo, ma come verità.

Qui sta la vera riuscita: «Forse che fine della vita è vivere? […] Non vivere, ma morire, e dare in letizia ciò che abbiamo. Qui sta la gioia, la libertà, la grazia, la giovinezza eterna!»(P. Claudel ne L’Annuncio a Maria)

Che la vita riesca non come successo, ma come verità: e per questo dobbiamo essere attaccati alla compagnia in cui il Signore ci ha messi.

(178) Egli è realmente tra di noi, ma «i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo».

Normalmente siamo incapaci di riconoscerlo, non è abituale che la nostra compagnia faccia memoria di Lui, sia automaticamente memoria di Lui.

E così discorriamo, discutiamo delle nostre cose, con un tristezza di fondo, non dico cinica, ma con una leggera, terribile disperazione di fondo, perché sì, credevamo, in certi momenti, quando abbiamo incontrato, o in certi momenti felici della vita del movimento, ma adesso….

Fin quando il Signore ha il suo momento, e ci si riaprono gli occhi.

(179) Che cosa meravigliosa è l'adulto, l'anziano a cui maturamente si aprono gli occhi e Lo riconosce.

È questa la giovinezza vera, quando la nostra compagnia diventa memoria, quando il movimento diventa memoria di Cristo, cioè riconoscimento della sua presenza in modo stabile, facile, così come uno porta dentro di sé continuamente il sentimento dei propri figli o della propria moglie, della propria famiglia.

Non c’è niente che riscatti la nostra banalità, non c’è niente che riabbracci in perdono qualsiasi errore che la nostra vita commetta, non c’è niente soprattutto, che spalanchi agli altri, come riconoscere Cristo presente.

Questo è il sintomo che noi stiamo arrivando alla soglia della giovinezza matura.

(180) Cristo è memoria dentro la compagnia perciò io vi conosco per questo e basta, vi conosco perché c’è Lui.

Vi conosco per questo, ci conosciamo per questo.

La nostra compagnia è il luogo dove la nostra vita è aiutata a riuscire, non come successo. ma come verità.

E quello che occorre è una grande semplicità di cuore.

(181) Da una lettera : «[…] Ma la cosa che mi ha sconvolto è che mio marito mia ha fatto notare, con una gomitata, mentre parlavi, che anche il desiderio, pur buono di avere figli, può rientrare nel nostro progetto di essere qualcuno, di riuscire nella vita. È terribile...

Ripetersi che tutto ciò che accade, anche ciò che ti rende più triste e sconsolato, è per un disegno buono […] ci fa scoprire che Cristo è proprio nostro Padre.

Ripetendoselo e ricordandoselo diventa più familiare, diventa coscienza propria. In questo cammino di fede, pi+ diamo noi stessi, e più desideriamo dare ancora».

Ecco, è questa semplicità che occorre alla nostra compagnia.

È una semplicità che ha come vertice la capacità di ritornare, come dice un altro biglietto: «[…] Mancavo dal movimento da almeno 10 anni. […] ma per grazia ho incontrato gli amici della comunità. […] Ho veramente toccato con mano la fedeltà di Dio, e di conseguenza credo di aver finalmente compreso il senso della mia speranza: è la certezza che Lui mi sta cambiando.

(182) Così a quarant’anni mi ritrovo come un bambino pieno di stupore davanti allo spettacolo del mare, ma sento, nella trama di questi rapporti, nella carne e nelle ossa di questa compagnia, di aver ritrovato il Padre, che veramente non poteva essere più prossimo e al tempo stesso più discreto».

È questa semplicità che occorre e basta.

Ma questa semplicità non è automatica, è possibile a chiunque, ma non è automatica: deve essere desiderata, deve essere voluta.

SI PUO' SOLO MENDICARLA.


Punto 3° (182)

Bene, è d’obbligo, a questo punto, che noi abbiamo a ricordare i termini in cui questa compagnia si crea e cresce, e le condizioni.

Questa compagnia nasce in modo totalmente libero, come luogo di aiuto a tener desto l’Icaro in noi, cioè a tener desto il senso del nostro destino, del destino di cui siamo fatti, e tener desto il senso della mia appartenenza al Padre, la coscienza che tutta la mia vita è in funzione del disegno di Dio, del disegno del Padre.

(183) Perciò siate liberi per quello scopo. La vostra libertà si deve realizzare nel desiderio di essere aiutati a raggiungere quello scopo, di attuare quello scopo.

(184) Che bello quando il nostro amico ha detto di capire che Dio sta intervenendo: «Ho veramente toccato con mano la fedeltà di Dio, e di conseguenza credo di aver finalmente compreso il senso della speranza: è la certezza che lui mi sta cambiando». Ecco si tratta di questo.

Siamo uomini non perché facciamo robot o creiamo stabilimenti o facciamo questo e quest’altro, ma per questo cambiamento.

Il lavoro umano è solo questo: spalancarsi ad accogliere l’azione dello Spirito di Cristo e vivere creando una umanità nuova, rapporti con gli altri, in vista di questo cambiamento.

(185) Siamo in cammino. richiamo ora le condizioni di questa compagnia.

1 – Obbedienza

Innanzitutto obbedienza. Possiamo definire che l’obbedienza è definita dalla preghiera e dalla sequela.

A) La preghiera è la prima forma di obbedienza proprio perché è domanda, è mendicanza di Cristo, è mendicanza della verità della vita, è la mendicanza del suo regno: «Venga il tuo regno», e se domando: «Dammi il pane quotidiano», è perché venga il Tuo regno attraverso di me. (186) La preghiera è il primo modo di ubbidire, è il modo di obbedire del povero peccatore. Perciò, la prima cosa in cui la compagnia deve aiutare è la preghiera. Ogni compagnia, ogni gruppo fissi una regola di preghiera, non sovrabbondante; o meglio, si può far tutto, nella libertà, e la libertà è quella espressione di noi che anche nel sacrificio più grande salva una spontaneità originale, una freschezza originale, una verità dell’io.

B) (187) In secondo luogo, vi è la sequela, un altro aspetto della preghiera; un aspetto che sottende la preghiera. «Signore non sono capace perdonami, dammi capacità», e il
Signore mi risponde: «Fà questo, e ti metto vicino delle persone che ti sostengano», ecco, accettare sul serio questa offerta è la sequela al movimento, meglio, la sequela alla Fraternità. Anche se il Centro della Fraternità ti dice cose che ti sembrano esagerate o che ti sembrano sbagliate, devi sempre dire: «Signore, che cosa mi vuoi insegnare con questo che mi sembra esagerato, con questo che mi sembra sbagliato?». E così segui intelligentemente, giustamente.

(188) Non vogliamo il tuo parere, vogliamo la tua preghiera a Dio. Sii umile! La sequela è la preghiera, è lo spirito della preghiera che si attua nella umiltà: uno fa quello che può. Ognuno è povero a suo modo, e ognuno segue nella sua povertà.

(189) Per la sequela ci sono due punti importanti soprattutto. Primo la Scuola di Comunità. La Scuola di Comunità deve essere studiata come quando studiavate a scuola.

A questo punto è meglio che vi legga alcune frasi di Giovanni Paolo II. Guardate che, a proposito della sequela, l’importanza della compagnia in cui ci siamo venuti a trovare è grande.

«Per continuare con l'uomo d'oggi il dialogo iniziato da Dio in Cristo e proseguito nel corso della storia, ha suscitato nella chiesa contemporanea molteplici movimenti ecclesiali»

Giovanni Paolo II, 29 settembre 1984, Discorso al movimento di cl

Ora non lo scegli tu il modo, ti accade.

Perché la vocazione non è mai una nostra scelta, la vocazione ti accade, è qualcosa che ti è accaduto.

Per questo bisogna andare fino in fondo.

Si chiama «movimento» quella realtà che si è sviluppata da un incontro in cui la fede ti è apparsa, anche timidamente, in un modo più persuasivo, più pedagogico, più edificante.

(190) Si chiama «carisma» la modalità con cui la Chiesa diventa viva.

Si chiama carisma la modalità con cui storicamente, di fatto, nella tua vita, la fede della Chiesa ti ha raggiunto in un modo che ti ha mosso persuasivamente, pedagogicamente, costruttivamente.

Questo è il sostegno per il tuo compito oggettivo nel mondo.

«È legge universale il crearsi di tale comunione».

«Viverla». questa comunione è un aspetto dell’obbedienza al grande mistero dello Spirito».

E, infatti la Chiesa resta astratta, arida, soprattutto filtrata dal proprio parere, se non diventa vicinanza, una prossimità illuminante, sorprendente, stimolante, correttiva e costruttiva, come in una compagnia.

Non per nulla il Signore ha utilizzato dall’inizio questo metodo. Questo sistema, che dio ha usato con la natura, l’ha reso sacramento: la famiglia.

2 – Condivisione (191)

Dopo la preghiera e la sequela, ecco la seconda condizione – che corrisponde a quella della verginità -, che è la carità, cioè la condivisione: usiamo il nostro termine, condivisione.

Vale a dire, la fraternità deve diventare una educazione alla capacità di sentire la vita dell’altro come parte della propria.

(192) La condivisione, certo, va dal pensiero fino al bisogno più concreto, dallo scambio, dall’aiuto nella ricerca del vero, fino al bisogno più materiale e banale.

(193) L’amore è astratto, la carità è astratta, se non diventa concreta in una comunità; ma se diventa concreta in una comunità, diventa concreta con tutti.

Allora, innanzitutto, è nel gruppo, è nella vostra Fraternità che imparerete e scoprirete anche che cosa avete sbagliato in famiglia, e incomincerete a desiderare di essere più veri anche in famiglia. Chi invece fa diventare centro della compagnia soltanto un’attività o soltanto certe cose, s’accorgerà di quanto queste cose avranno vita breve.

Invece, il nostro nome, la nostra forza deve nascere da ciò che fissiamo.

3 – Povertà (194)

Voglio infine richiamare la povertà, lo spirito di povertà.

Come mi ha detto uno di voi stamattina, la povertà è la condizione per dilatare il regno di Dio.

(195) Il primo modo della povertà – non quello occasionale, quando incontro il povero – è sostenere gli strumenti di diffusione della nostra esperienza.

Se la nostra esperienza è la modalità con cui viviamo il mistero di Cristo. Così come siamo stati raggiunti dalla bontà di Dio, se la nostra esperienza è questo, allora il primo modo della povertà è quello di usare, dentro la libertà pura e semplicissima, le realtà che possediamo, quello che abbiamo, in funzione dell’espandersi di questa esperienza.

(196) Sostenere la nostra stampa è certamente un atto di povertà, perché, se uno si abbona a tutto, come minimo, all’anno, occorre metter lì duecentomila lire.

Avviso(197)

(In questo avviso si annuncia l’intenzione di acquistare un centro polifunzionale e don Giussani fissa il prezzo di ogni mattone)

Omelia (198)

«Abbiamo contemplato, o Dio, le meraviglie del tuo amore».

È il cambiamento della nostra vita, è il cambiamento il segno o la meraviglia del Suo amore.

Questa pietra, scartata dalla considerazione dei potenti, è divenuta testata d’angolo: sono divenuto, sei divenuto costruttore, edificatore di una casa, di una dimora per altri.

Questa è l’esperienza a cui tutti siamo chiamati.

E, infatti, il miracolo dello Spirito, il miracolo con cui Cristo ha dimostrato al mondo la sua verità, che era vero – come dicono gli atti degli Apostoli -, è una comunità di uomini diversa, è una convivenza diversa di uomini.

Il cambiamento della mia vita, e il fatto d’una compagnia che non avrebbe paragone, non ha paragone, anche se è così appesantita dalla miseria di tutti i singoli – appunto, ognuno di noi sarebbe pietra scartata dai costruttori -, è un miracolo.

(199) È una semplicità maggiore che occorre.

Infatti vedere l’esito, i frutti della Sua venuta nel mondo, sentirli nella propria carne e vederli attorno, nella nostra compagnia, nella chiesa di Dio, nel Papa, vedere questo e vederLo, perché un essere – dice la filosofia – è la dove produce, agisce.

Allora, nella semplicità dell’occhio, dell’occhio purificato, la nostra fede vedrà tutti i segni della sua presenza.

Dice la Bibbia: «La tua verità, o Signore, si è resa palese e dimostrata fin troppo».

Esercizi spirituali predicati da don Giussani

1° volume «Cristianesimo alla prova»

Titolo: UNA STRANA COMPAGNIA


2° «volume Cristianesimo alla prova»

Titolo: LA CONVENIENZA UMANA DELLA FEDE


3° «volume Cristianesimo alla prova»

Titolo: LA VERITÀ NASCE DALLA CARNE


4° volume «Cristianesimo alla prova»

Titolo: UN AVVENIMENTO NELLA VITA DELL’UOMO


5° volume «Cristianesimo alla prova»

Titolo: ATTRAVERSO LA COMPAGNIA DEI CREDENTI


6° volume «Cristianesimo alla prova»

Titolo: DARE LA VITA PER L’OPERA DI UN ALTRO