Esercizi spirituali 1988 di don Giussani

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Indice linkato ai vari momenti
- Introduzione
- Omelia
- Avvisi
- Introduzione alle Lodi
- APPASSIONATI A CRISTO
- LA VITA COME COMUNIONE
- Omelia
- UNA CONTINUA SORGENTE DI AIUTO
- Omelia
Altri esercizi di don Giussani
Introduzione
(12) Senza Cristo, che cosa sarei? Vi ricordate il brano di San Gregorio Nazianzeno della Pasqua 1985? «Se non fossi tuo, Cristo mio, mi sentirei creatura finita».
Come potrei riconoscerLo, infatti, che significato avrebbe, se non fosse importante per me, per me?
È importante perché costituisce, dà consistenza a me!
Il soggetto di questi giorni è proprio la nostra persona, quella che si stanca e quella che si dispera, quella che spera in modo euforico, e tante volte così insensatamente, o quella che deve far fatica.
È a ciò che Cristo dà consistenza.
E noi dovremmo essere una risposta immediata a Lui, una risposta intera, dovremmo essere una reazione positiva subito.
(13) Le incombenze della vita, premendoci da tutte le parti, sono la cosa importante, senza nessun paragone.
Dire «io» con il senso della propria origine e soprattutto del proprio inevitabile destino è una cosa strana: strana, estranea alla nostra vita quotidiana, anche se preghiamo, cioè anche se diciamo le preghiere.
(14) Socci scriveva sula figura di Tarkovskij: «Da tempo l’uomo occidentale ha bruciato la bisaccia e il bastone del viandante, con la sua commovente attitudine alla domanda [uno che vive come un viandante, e basta, deve domandare tutto]. La Dimora (ethos) dell’uomo non è più l’orizzonte [non è più una strada quella su cui si è], ma [è] il nascondiglio, dove non incontra nessuno e dove, perciò, comincia a dubitare della sua stessa esistenza».
(15) Dipende da noi se la nostra vita deve avere come dimora un nascondiglio, con tutti i posticini segreti o fissati, oppure se la nostra vita ha un’altra dimora.
Un nascondiglio è la dimora delle bestie, la strada è il luogo dell’uomo in cammino verso il suo destino.
(16) (Giovanni Calzone, giovanissimo insegnante di filosofia, morto in un incidente, a sua sorella): «Sai ho l’impressione che ogni mio gesto scaturisca direttamente dalla fede e ne sono cosciente. È come se non ci fossero più mediazioni»
Chi raggiunge questa maturità, forse Dio lo vuole subito con sé.
Vangelo di san Marco, capitolo 8: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, e chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà. Chi giova infatti all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde se stesso? E cosa potrebbe mai dare l’uomo in cambio di sé?».
Omelia
(17) Pensare veramente a se stessi seguendo l’accorato richiamo che Cristo ci ha fatto nel Vangelo di san Marco è come essere pazzi, è come essere fuori dalla mentalità ovvia, dal modo di ragionare e di sentire tutti.
«Ma che importa se ti prendi tutto quello che ti viene in mente, se riesci in tutto quello che programmi, e poi perdi te stesso?», questa grandezza, così ignorata che noi siamo.
È una grandezza perché è rapporto con l'infinito.
Tu e io siamo rapporto con l’infinito.
E questo Mistero infinito è diventato un uomo per raccoglierci, per salvarci, per essere noi stessi.
I parenti di Gesù quando sono andati a prenderlo: «È fuori di sé».
Certo, è fuori di sé, perché è fuori dalla mentalità comune, è fuori dall’andazzo comune, è fuori dal modo in cui vivono e sentono.
(18) Ecco, è per mantenere questa estraneità che noi dobbiamo combattere, in noi stessi.
Quando diciamo «io» o «noi», infatti, riflettiamo la mentalità comune.
Ed è in questa “estraneità” che Cristo penetra, sostenendola, perché lì è la verità, non l’effimero che pasa.
Noi offriremo la Santa Messa per i nostri giovani e i grandi morti perché non c’è tempo, ci hanno detto, non c’è tempo!
Avvisi
(19) Un aspetto della nostra penitenza quaresimale è indubbiamente la pazienza che dobbiamo avere per il numero in cui siamo radunati.
Ma questo può favorire almeno il silenzio, che è sempre una iniziale riflessione. I percorsi sono stati pensati per favorire un clima di riflessione e di meditazione.
Perciò, se incominciamo, salendo sul pullman, a metterci in silenzio, forse arriviamo qui con un cuore più aperto, perché il valore e l’esito dei giorni come questi sono totalmente affidati alla libertà e alla povertà del nostro cuore.
Introduzione alle Lodi
(20)Luce e calore, chiarezza di coscienza e conforto: questo è entrato nel mondo attraverso una ragazza di quindici o sedici anni.
Ricordare ogni giorno questo momento (Angelus), questa figura, significa attingere o riattingere improvvisamente al pozzo della nostra umanità, per una freschezza che ci rimetta a camminare, che ci rifaccia camminare con più lena.
Appassionati a Cristo
(21)Noi dobbiamo aderire a Cristo e seguire Cristo per eliminare l’uomo illusorio e perché emerga da noi l’uomo vero.
Perché a me è toccato riconoscerTi, conoscerTi e seguirTi e tanti altri no, alla maggior parte degli altri no?
Perché questa è la strada che Lui batte nel mondo: è attraverso noi che arriva agli altri, è attraverso noi che vuole arrivare all’ultimo uomo di questo mondo.
Per questo la prima caratteristica dell’uomo nuovo, la prima caratteristica dell’uomo che aderisce a Cristo, che ha la fede, è la passione della missione.
Dovendo parlare con voi […] voglio ricordare Cristo, perché questo è ciò che manca nel mondo, lo sguardo a Cristo, il riconoscimento di Cristo.
Il Mistero si è fatto uno di noi.
Il delitto del mondo è usare queste come pure parole, è sentirle ancora come parole fuori di noi, come parole strane, anche se devotamente accettate.
Così il mondo cristiano collabora a quella riduzione accanita che viene fatta del messaggio cristiano, dell’annuncio cristiano, l’annuncio del Dio fatto uno tra di noi, l’annuncio che Egli è qui.
Vldimir Zelinskij grande teologo ortodosso: «Mi torna insistentemente alla mente l’immagine di Gulliver immobilizzato per descrivere la Chiesa, oggi condannata alla immobilità dai bavagli delle leggi, dai legami invisibili di innumerevoli disposizioni. L’immobilità significa in ultima analisi, infedeltà a Cristo».
Scrive da Mosca, però non è molto diverso quello che accade qui.
«[…] affinché la Chiesa possa scuotersi dalla sua immobilità per farsi incontro agli uomini, deve liberarsi dalle pastoie esteriori. […] Questo processo ha bisogno della partecipazione attiva di tutti i membri della Chiesa, della collaborazione della gerarchia, del clero e dei laici, lasciando da parte ogni compromesso» (Zelinskij – “Il diritto irrinunciabile alla cultura cristiana).
(26)Ecco, un cristiano che abbia un po’ di fede è come la figura di Pietro, perché a ognuno di noi che è stato chiamato – a chi è stato battezzato è stato chiamato – il Signore dà nelle mani il destino della Sua presenza nel mondo.
Non importa se io sono un punto infinitesimale dentro questo grande mondo e questa lunga, lunga storia.
«Simone, mi vuoi bene tu più di costoro?».
Che domanda carica di realismo, senza sentimentalità! È proprio quell’amore, che nasce dal riconoscimento del vero, dal giudizio, l’amore umano; perché l’amore è umano quando nasce dal riconoscimento di un vero, da un giudizio.
(27) L’uomo vero non nasce dalla donna e da un uomo – per quel male profondo che la Chiesa chiama «peccato originale» -, ma solo, da Dio.
Solo da Dio può nascere l’uomo vero. Per questo «il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua dimora tra di noi».
Abita tra noi.
(28) In una discussione, nel sesto capitolo del Vangelo di san Giovanni, i giudei chiesero a Gesù: «”Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?” [l’opera di Dio è il mondo e la sua storia]. Gesù rispose: “Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato”» (Ef. 1,1-3; Ef 2,1-22)
Questa è l’opera per cui ogni uomo si sveglia, si risveglia al mattino, in qualunque posizione sia, in qualunque stato d’animo sia, in qualunque stato d’animo sia, in qualunque condizione sia, per cui ogni uomo si risveglia al mondo, alla vita: «Credere in Colui che Egli ha mandato, credere in Cristo!».
Io lo ripeto: potrei essere ancora più meschino e più malvagio e più peccatore di quello che sono, ma questo non lo posso perdere, non lo posso dimenticare, questo filo di passione non posso strapparmelo.
Io credo che questo sia il primo sentimento di un cristiano.
Perciò che io mi renda conto, Signore, di quel che sei per me, perché io possa diventare strumento affinché si accorgano anche gli altri di ciò che sei per loro!
(29) «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna».
(30) Non vale né essere Papa, né cardinale, né vescovo né prete, né avere un grande ruolo nella Chiesa o fuori della Chiesa: importa che sei stato chiamato.
«Tornarono i discepoli ed erano entusiasti perché anche i demoni si sottomettevano a loro: «Anche noi facciamo quello che fai tu, abbiamo il tuo potere». «Non siate contenti di questo; siate contenti che il vostro nome è scritto nel libro del cielo» (Lc 10,17-20), cioè che siete stati chiamati.
Tu piccolo uomo che nessuno conosce, che sei spesso dimenticato nella tua stessa famiglia, tu, chiamato: questo è il compito della tua vita come della mia.
«Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato, ciò che le nostre mani hanno toccato, […] annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi.
La nostra comunione è col Padre e col figlio suo Cristo. Queste cose vi scriviamo perché la nostra gioia sia perfetta» (1 Gv 1,1-4).
Queste cose vi diciamo perché la nostra gioia sia perfetta!
(31) Diventerà una gioia con le lacrime, nel dolore del proprio male o nel dolore di ciò che è accaduto; ma è sempre una gioia, pur dentro le lacrime.
Il nostro io è sete di una cosa infinita, di una cosa infinita che è Mistero – è, ed è Mistero per noi -, e che questo Mistero è diventato uomo.
Come si fa a pensare, a sentire questo, a riconoscere questo, e a non dirlo a tutti?
(32) «[…] qui infatti si realizza il detto: uno semina e uno miete.
Io vi ho mandati a mietere ciò che voi non avete lavorato; altri hanno lavorato e voi siete subentrati nel loro lavoro» che era il suo lavoro.
Che commozione! Che commozione, ma anche che riverbero in noi di questa commozione di Cristo, quando, con dentro l’impressione di quella donna (la samaritana) che l’aveva riconosciuto, a differenza di tanti, guardando i campi gli viene in mente l’immagine del mondo – del mondo! – dove tutto già biondeggia per la mietitura, perché il cuore dell’uomo è un frumento già maturo per la mietitura, ha bisogno della risposta oggi, è già carico di maturità, nasce maturo, nasce come rapporto con l’infinito, nasce come esigenza di felicità.
Ed è la prospettiva della felicità, come abbiamo detto tante volte, che rende razionale, ragionevole, o madri, l’aver dato o il dare vita a un figlio, solo questo.
(33) Che dobbiamo dire? Toglici il fastidio della vita, toglici il dolore della vita, toglici la contraddizione, toglici questa contraddizione insopportabile che è il male, il peccato? Dobbiamo dire questo?
Ma se siamo giunti a quest’ora, se siamo nati alla vita per testimoniare, per testimoniare chi è Cristo, per dare gloria al Padre – «Padre, glorifica il tuo nome», terminerà Gesù -, vale a dire per affermar questo disegno affascinante, mirabile, che Dio sia più potente di tutta quanta la nostra non solo fragilità, ma cattiveria!
Perché Egli sapeva ciò che c’è nel cuore dell’uomo.
(34) C’è un solo scopo di tutto, lo scopo stesso di Cristo: glorificare il suo nome, il nome del Padre: «Dio tutto in tutto».
Ho detto ieri sera che questa non è una pazzia.
Siamo fuori dalla percezione normale delle cose, meglio, dalla percezione delle cose normali; ma dalla percezione delle cose concrete, no, non siamo fuori.
(35) Che proprio attraverso la nostra fragilità e meschinità si avveri nel mondo la realtà di Cristo ed essa si dilati secondo un fenomenicità, una visibilità, stabilita dal Mistero, secondo un grande disegno, questo lo poteva pensare l’uomo che passava da queste parti milleduecento anni fa, cristiano, allo stesso modo con cui lo dico io adesso.
Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato.
Ora, come potranno invocarlo senza prima aver creduto in Lui? E come potranno credere senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi? E come lo annunzieranno senza essere stati inviati?.
Il Battesimo è questo: l'essere stati inviati.
(36) «Come sta scritto: quanto sono belli i cammini di coloro che recano il lieto annunzio del bene» (Rm 10,9-15).
L’uomo nuovo, quest’uomo che si è in qualche modo imbattuto in Cristo, è come se fosse definito innanzitutto da qualcosa di assolutamente gratuito.
Non so come dire una cosa che vorrei far passare semplicemente per osmosi dentro il vostro animo, perché io credo proprio che questo sia il punto più puro della nostra gioia, quello che rende possibile la gioia: questo amore alla verità fatta carne, questa affezione quasi senza sentimento, anzi no, carica di un sentimento profondo, l’attaccamento.
Questa è la prima cosa che importa.
(37) «L’amore dimostratoci da Cristo ci strugge al pensiero che uno è morto per tutti, è morto affinché tutti non vivano più per sé stessi, ma per colui che è morto è risuscitato per loro».
Questa passione che si chiama «missionaria» deriva dalla parola latina missus, mittere: «Essere mandati, mandati ed essere mandati».
È Dio che ci manda, è Cristo che ci manda; dandoci il Battesimo, ci ha segnati con un sigillo indelebile, e la nostra vita, il mangiare, il bere, il vegliare, il dormire, il vivere, il morire, dice san Paolo, hanno questo scopo.
È come un cuore dentro tutte le cose che si fanno, è come una preoccupazione, perché voi, che state limando un pezzo di ferro, non potete neanche lontanamente immaginarvi l’infinita sapienza che collabora a rendere organico quel pezzetto di ferro alla meraviglia del cosmo, dell’ordine:
E voi che state lavando i piatti con fatica, o soffrite con fatica una parola amara detta dal figlio o dal marito, non potete neanche immaginare la misericordia infinita – più infinita ancora dell’infinita sapienza, se così si può dire – che rende organica quella vostra sofferenza e umiltà, specialmente se ha la sublimità dell’offerta, facendola collaborare alla salvezza di tutto: anche il cosmo sarebbe infatti una bellezza amara e provvisoria, se non fosse dentro la salvezza, l’amore, cioè Cristo.
(38) Ho sottolineato questo struggimento, questo amore, dicendo però quattro o cinque volte: nonostante quel che siamo!
Non dite: «Ma io…»
Lettera ai Corinti, al capitolo 12, san Paolo dice: «affinché non montassi in superbia, per tutta la rivelazione che mi è stata fatta, mi è stata messa una spina nella carne, come un inviato di satana, incaricato di umiliarmi, perché io non vada in superbia. A causa di questo, tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. ed Egli mi ha detto: “ti basti la mia grazia”», ti basta che Io di ami e ti abbia scelto.
Il male non mi definisce più, perché quello che mi definisce è questo stupore, meraviglia, fiducia totale, ammirazione, entusiasmo, passione per Cristo.
(39)Non è obiezione la debolezza, fratelli miei.
Nell’ultima enciclica di sua santità, al paragrafo 46, si legge: « Uno sviluppo soltanto economico non è in grado di liberare l’uomo, anzi, al contrario, finisce con l’asservirlo sempre di più. Uno sviluppo che non comprenda le dimensioni culturali, trascendenti e religioso dell’uomo e della società, nella misura in cui non riconosce l’esistenza di tali dimensioni e non orienta ad esse i propri traguardi e priorità, ancor meno contribuisce alla vera liberazione» (GPII – Enciclica Sollicitudo rei socialis – 1987).
(40) Senza la vostra presenza nel mondo, senza la presenza di Cristo e della Chiesa nel mondo, il mondo andrebbe in rovina, in un soffio.
Ma uno capisce le cose grandi se le vede nel proprio ambito.
È proprio questa nostra passione per Cristo, a questa missione che abbiamo, così come siamo, lì dove siamo, che il cambiamento del mondo è legato.
(41) L’attentato più grande è la riduzione del cristianesimo a delle norme morali, a degli incitamenti morali:
invece è un fatto presente tra noi, di cui io debbo parlare dovunque vada.
«Ne farete di più grandi; farete le opere che io ho compiuto e ne farete di più grandi».
E, infatti, che cosa c’è di sintomaticamente più grande del fatto che degli estranei si sentano e vivano, nei limiti della loro libertà, come una cosa sola? «Voi tutti, che siete stati battezzati, vi siete immedesimati con Cristo, siete stati portati dentro il mistero della sua personalità, come pezzi di un corpo» (Gal 3,26-29).
Questo brano della Lettera ai Galati non è l’utopia della rivoluzione, è la rivoluzione avvenuta! Noi diciamo e parliamo di qualcosa che è già accaduto e che ci permea talmente che il nostro essere è cambiato: il problema che diventi più cosciente.
(42)Come fare e come capire?
Allora c’è un solo gesto di fronte a Cristo, tutto quello che abbiamo detto arriva a un punto semplicissimo: la domanda.
Ma vi scongiuro, questo punto semplicissimo, di tenerlo presente.
(43) Nell’attesa affascinante e appassionata di sperimentare il cambiamento in sé e attorno a sé, noi abbiamo un solo modo di metterci, di tenerci in rapporto con Lui, così come era per Simon Pietro quando lo stava a sentire: è la domanda.
Bisogna domandarlo, bisogna mendicarlo.
L’uomo vero, quello originale, è creatura; è creatura, cioè ha bisogno di tutto, era niente e diventa essere, perciò gli viene dato tutto.
Allora uno che non ha niente per vivere stende la mano: è la mendicanza.
Noi dobbiamo mendicare Cristo.
Il non riconoscimento smorza, dilapida e svuota l’impeto supremo dell’uomo, l’unico vero impeto umano, che è la mendicanza.
Mendicare Cristo.
Adesso andiamo negli alberghi in silenzio, così magari qualche parola di quelle dette, pur nella rozzezza, può cambiarsi in insinuazione preziosa.
La vita come comunione
Noi vogliamo evitare di avere un progetto di cui essere «padroni e schiavi», perché è troppo evidente che il progetto della vita è di un Altro.
Starets: «Grande sovrano! Quello che noi abbiamo di più caro nel cristianesimo è Cristo stesso. Lui stesso e tutto ciò che viene da Lui, giacché noi sappiamo che in Lui dimora corporalmente tutta la pienezza della divinità». (Solov’ëv – Anticristo)
(46) Se per civiltà si intende la trama stabile e continuamente dinamica di tutti i rapporti che una persona crea, vive, utilizza per un’opera che sia la sua collaborazione alla grande opera di Dio, allora è un metodo di civiltà quello che le parole dello starets implicano: «Lui stesso e tutto ciò che viene da Lui».
Egli afferma che «raggio d’azione» della misericordia, che è il metodo, la dinamica di rapporto tra Cristo e l’uomo, se l’uomo segue Cristo, non trova «il suo termine» soltanto dei rapporti privati.
(47) «Se Paolo VI indicava a più riprese “la civiltà dell’amore” come fine a cui devono tendere tutti gli sforzi in campo sociale e culturale, come pure in campo economico e politico, occorre aggiungere che questo fine non sarà mai conseguito, se nelle nostre concezioni ed attuazioni, relative alle ampie e complesse sfere della convivenza umana, di arresteremo al criterio “dell’occhio per occhio e dente per dente” ( che è l’unica sapienza cui può arrivare la mentalità razionale) e non tenderemo invece a trasformarlo essenzialmente, completandolo con un altro spirito».
Giovanni Paolo II nella enciclica Dives in misericordia – 30/11/1980, 14.
(48) Vediamo i passaggi di questa dinamica enorme.
A
(49) «[…] e se anche distribuissi tutte le mie sostanze ai poveri e dessi il mio corpo per essere bruciato e non avessi la carità, non mi gioverebbe niente»
1 Cor 13, 1-3)
Che pugno nello stomaco, nello stomaco del moralismo! Improvvisamente uno sente che la moralità non si può ricondurre a una legge applicata, a una quantità, sia pure a una quantità di generosità realizzata.
Che cos’è la carità?
Riconoscere la Sua presenza e desiderare, e cercare di conoscerlo.
Perciò uno gli va dietro, e poi con la rozzezza che ci caratterizza dopo il peccato originale, cerca di modulare il proprio comportamento su quello che conosce di quest’uomo, sul riconoscimento profondo di quest’uomo; e il tempo che passa fa diventare sempre più ineffabili tutte le cose.
(50) La carità è riconoscere questa Presenza sui appartengo: «Vivo non io, sei tu che vivi in me».
Un uomo, chiunque, è definito dalla sua appartenenza: il contenuto dell’autocoscienza, della coscienza di sé, è dato da ciò cui pensiamo di appartenere, cui riconosciamo di appartenere.
«Io appartengo a me stesso». Se c’è una cosa ridicolmente mentitrice è questa. È una menzogna ridicola.
Ecco, la carità è riconoscere la presenza di Colui cui tutto di me appartiene.
(51) I valori cristiani rappresentano una moralità che deriva dal guardare Cristo presente, dalla fede.
«Questa è la vittoria che vince il nostro male, la fede»
1Gv 5,4
Cioè il riconoscimento della Sua presenza.
È la coscienza di questa Presenza che mi fa sentire la sproporzione, mi precisa la contraddizione, mi fa struggere di dolore, mi fa tendere in un desiderio, mi fa riprendere continuamente la volontà.
(52) In tal senso la prima missione è verso di noi.
Non si può creare una realtà nuova, che può cambiare, e di fatto cambia, l’uomo e il mondo, senza la coscienza d’appartenenza, se non partendo dalla coscienza dell’appartenenza a Cristo.
Questa adesione è carità e perciò è dono e gratuità, è benevolenza e gratitudine nello stesso tempo.
Così nasce la morale cristiana, solo da questa coscienza.
Il resto, i valori umani, i valori comuni o non comuni, nascono da un’altra coscienza di appartenenza, che non è quella cristiana.
Tutto nobile, ma tutto incompiuto.
(53) La prima posizione, infatti, è appartenenza a quell’Uomo, la seconda è appartenenza alle proprie opinioni, alle proprie idee o ai propri nascosti interessi.
L’unico interesse che vibra in noi, inconsapevolmente, anche, quando guardiamo Cristo, quando riconosciamo questa Presenza, è l’interesse supremo al nostro destino, perché coincidono!
(54) «Lui stesso e tutto ciò che viene da Lui»: tutto deve derivare da questa coscienza d’appartenenza a Cristo, non all’idea di Cristo che abbiamo, ma al Cristo reale, quello che nella storia si prolunga dentro l’unità dei credenti, in quanto uniti al Papa.
Allora uno può fare tutto, ma come conseguenza di questo.
«E ciò che viene da Lui».
Ogni altra origine è moralistica, è moralismo: sono delle formulazioni, o delle leggi, delle norme generate da una convenienza da noi stabilita, anche quando è una schiavitù stabilità dal potere.
B
(55) Perciò koinonìa, la comunione cristiana, era chiamata anche agape, cioè l’«amore», oppure eirène, che voleva dire «pace», la realtà della pace in latino concordia: la Chiesa era chiamata «la concordia», oppure anche pax, che traduce il termine greco eirène.
Avevano in comune il riconoscimento, la scoperta, l’incontro di Cristo, cioè del senso della vita, di colui che era il senso della loro vita e della vita del mondo: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,16).
(56) La legge della koinonìa: la tendenza a mettere tutto in comune, sia i beni spirituali che i beni materiali, dove la parola «tendenza», è la vera formula della legge cristiana, che non è mai una misura, come invece sono tutte le norme normali, o i cosiddetti valori umani che misurano.
Tendenza dunque. Ma la parola tendenza che cosa salva?
Salva l’unico modo di rapporto tra l’uomo e l’infinito, che si chiama libertà: la libertà dell’uomo e la libertà di Dio, che a uno può far compiere la traiettoria in un lampo – come l’ha fatta compiere a Santa Teresina del Bambin Gesù – e a un altro può compiere la traiettoria in quarant’anni nel deserto, come l’ha fatta compiere a Mosè.
(57) Quindi, tendenza a mettere tutto in comune, nella libertà.
Santa Teresina diceva: un sacrificio piuttosto che farlo senza letizia, non fatelo; un sacrificio che non potete fare con letizia, non fatelo.
Parlava dei sacrifici di dipendono evidentemente dalla nostra volontà in tensione verso il bene.
(58) Comunque sia, la legge della koinonìa è la legge di una vera comunità cristiana.
Perciò, ecco, la legge della koinonìa deve arrivare almeno a una soglia, che è la soglia divina, ove l’uomo bussa alla porta dell’eterno. qui l’uomo arriva al confine, per così dire, della casa di Dio, al confine del volto ultimo di Cristo, che è il perdono.
(59) Abbiamo in comune il senso della nostra vita e la consistenza stessa delle nostre ossa e del nostro cuore, non so dire se ultimo o primo traguardo: il traguardo del perdono parola “impossibile”, impossibile all’uomo: è una parola divina, perché il perdono ricrea.
C
C’è un terzo passaggio. Deriva dal brano dello starets che afferma: «Quello che abbiamo di più caro nel cristianesimo è Cristo stesso. Lui stesso e tutto ciò che viene da Lui».
(60) Da Lui, dunque, viene una legge nuova nel comportamento del vivere: la tensione a mettere tutto in comune.
È per questo che non c’è più estraneo; l’estraneo non esiste più.
Non esiste una concezione di socializzazione o di universalizzazione più grande di questa, perché è dentro di me quell’energia che mi fa abbracciare te, chiunque tu sia.
Bene, oltre alla legge generale della vita, ecco un esito visibile, un esito sulla realtà delle cose, diciamo un esito operoso: è l‘apologia dell’opera.
L’amore a Cristo ci rende creatori di opere.
«Le opere sono la costruzione di un pezzo di realtà che ha al suo interno un criterio che nessun altro ha»
(62) Chi fa le opere agisce per uno scopo diverso da quello solito.
Non che eliminino il criterio dell’interesse, o il criterio dell’affezione e dell’attrattiva, perché allora sarebbe snaturare il fenomeno, ma c’è qualcosa che supera, va al di là di questo scopo solito.
Ecco qual è lo scopo diverso: «Agire, come funzione di una esperienza».
Uno, facendo un’impresa, impostando l’impresa, ha dentro di sé qualcosa d’altro:
il contenuto della coscienza nasce dall'esperienza del rapporto con Cristo e con i fratelli, dall'esperienza del rapporto con Cristo.
Tutto questo è una libertà in cammino.
E che si agisca in funzione di una esperienza, dell’esperienza della Tua presenza, o Cristo, della esperienza dell’unità con questi fratelli che m’hai dato, che sono membra di me, come io di Te, che io agisca in funzione di questa esperienza, qualcosa cambia.
(65) Le tre cose che abbiamo viste: la memoria di Cristo, l’amore a Cristo, la carità; la legge della koinonìa, la tendenza a mettere tutto in comune, il costruire l’opera, cioè un pezzo di umanità nuova riguarda il quotidiano.
(l’umanità nuova che incomincia dalla famiglia, dagli amici; e se uno non la impara sui banchi di scuola, se uno non sente la necessità di realizzarla tra le macchine della sua fabbrica, tra il ticchettio delle macchine da scrivere o dei computer – perché è questo che rende umano anche un ambiente di “computeristi” -, diventa astratto).
(66) «Se non facciamo che soffrire – subire, resistere, sopportare – noi non reggeremo, e verremo meno a ciò che ci viene richiesto. Dalla mattina alla sera, non pensiamo a questo male come a qualcosa che ci viene tolto, ma come a qualcosa che noi doniamo, per non demeritare di questo […] Cristo che sta in mezzo a noi, per non lasciarlo solo, [in questa piccola creatura] lui che ci deve trascinare; [«…». Non voglio che noi perdiamo questi giorni, dimenticando di considerarli per quello che sono: giorni pieni di una grazia sconosciuta»
E. Mounier – Lettere sul dolore – (lettera al moglie, si riferisce alla loro situazione con la figlia malata grave mentale)
Pensate a quelle quattro mura, alle quattro mura in cui viveva la moglie e a quella trincea in cui lui scriveva questa lettera.
Questa è un’opera nuova nel mondo, questo è «un pezzo di realtà che ha al suo interno un criterio che nessun altro ha» e che nasce dalla memoria di Cristo, dal riconoscimento di Cristo, dall’impeto timido magari, ma vero e tenace, fedele della fede.
(67) Le vostre quattro mura di casa o di lavoro, non in modo così tragico e drammatico – ma per tanti anche in modo così tragico e così drammatico!-, sono come gli spalti ultimi della realtà, dell’universo.
(68) È questo abbraccio che ci occorre tra le quattro mura dove fate le casalinghe, accudite il vostri bimbi, o tra le quattro mura dell’ambiente di lavoro, che sono poi le quattro mura del cielo e della terra, del mare e degli astri, perché tutto ciò che è finito è come una stanza.
Omelia
Per amare i nemici, fino a pregare per i persecutori, occorre un cuore nuovo, occorre una vita nuova, occorre una umanità nuova.
(69) È vero quello che ci siamo detti […] pensando alla vita nuova, alla umanità nuova che i primi cristiani hanno introdotto nel mondo, che è una tensione, che è una apertura del cuore, che è una attesa, che è molto più una domanda da bambini, una mendicanza da poveri, che una pretesa di volontà, che un progetto proprio.
Questa mendicanza da poveri, questa domanda da bambini non può essere inventata in un momento; è un assetto, un atteggiamento, che implica una concezione della vita, un sentimento della propria persona, un desiderio e una tensione dell’animo, possibili solo nella compagnia di Cristo.
E la compagnia di Cristo ci stringe da vicino nella compagnia della Chiesa, e la compagnia della Chiesa diventa vera, esistenziale – vi si incarna fisicamente il mistero del Signore – come compagnia nostra, la compagnia della nostra amicizia nella fede.
La legge del Signore non è più, come allora, un seguito di comminazioni, di articoli, di paragrafi, non è più un seguito di definizioni: la legge del Signore è la memoria di Cristo, che investe sempre di più il cuore.
La legge del Signore è seguirlo, è seguire Cristo, il Mistero reso carne.
La legge del Signore è seguire la comunità.
Non perché abbia valore chi la guidi o chi la componga, ma perché nella sua concretezza si rende esistenzialmente presente Cristo: da riconoscere, così che mobiliti la nostra vita, pensieri e azioni, e che il cuore si pieghi o si apra alla carità, a quell’amore senza confini che è la perfezione dell’Essere, la perfezione del Padre, a quella imitazione di Cristo, che può giungere, lo si capisce bene, anche fino ad amare i propri nemici e a pregare, offrire la propria vita per i propri persecutori.
Una continua sorgente di aiuto
(74) «Affinché non siamo più come fanciulli, sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, secondo l’inganno degli uomini, con quella loro astuzia che tende a trarre nell’errore. Al contrario, vivendo secondo la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa verso Lui, che è il capo, Cristo, dal quale tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere in modo da maturare se stesso nell’amore»
Ef 4,14-16
(75) Questa è la più bella descrizione che san Paolo fa del metodo che Cristo ha scelto per rimanere con noi: Egli rimane con noi dentro la nostra compagnia e la nostra unità. Dentro il mistero della Chiesa come ci tocca, Cristo prende corpo tra di noi, in noi e tra di noi.
Se non ci toccasse ora attraverso la nostra compagnia e la nostra unità, questo grande corpo, che in tanti secoli ha toccato tutti i confini della terra, questo grande corpo che è la Chiesa sarebbe astratto per noi, sarebbe lontano per noi, non sarebbe una rupe su cui appoggiarci, a cui bere, da cui trarre cioè il criterio, la direttiva e il sostegno della vita; (se non ci toccasse) sarebbe come una grande cosa mirabile e malinconica, ognuno di noi sarebbe nella sua solitudine, lontano, come lo si è da una idea.
(76) Il mistero di Cristo, la realtà di Cristo, la Tua presenza, o Cristo, è dentro il contenuto di questa carità che è tra di noi.
Si chiama carità, infatti, riconoscere la Tua presenza e amarti, o Cristo, e come conseguenza si chiama carità il riconoscerci con Te una cosa sola, tutti noi, e aiutarci, e volerci bene.
(77) Ecco, innanzitutto, la nostra compagnia, la vita del nostro movimento ci sia punto di riferimento come criterio.
Quanta distrazione ci strappa dall’avere una direttiva luminosa, nelle cose che facciamo quotidianamente – che sono le cose più importanti, perché è il quotidiano che ci fa camminare verso il nostro destino-.
Quanta dimenticanza viviamo, quanta confusione, una confusione spesso resa adirata o ansiosa dalla necessità di dare valutazioni su cose che, in fondo, tante volte non toccano proprio la nostra vita personale come le cose quotidiane.
(78) Segnalo un pericolo solo, che è quello di seguire una nostra idea di movimento, curvandoci sulla nostra opinione, invece che aprirci sempre di più a questa esperienza in cui Dio ci ha collocati.
«Se qualcuno crede di sapere qualche cosa, non ha ancora imparato come bisogna sapere. Chi ama Dio [e la Sua opera] invece, è da lui conosciuto».
Io volevo chiedervi umilmente e fraternamente di essere fedeli nella sequela al movimento; in tutto se possibile.
Non ci pentiremo mai di questa obbedienza, tanto più che nelle cose contingenti, o in quelle più facilmente discutibili, dove le opinioni possono più facilmente divergere, il tenerci nella sequela all’unità della compagnia, sempre, presto o tardi, porta alla ribalta la verità che era nella tua opinione, e che viene riconosciuta.
(79) Non sentitevi schiacciati o oppressi dal fatto che non vi sentiste di seguire una cosa, un’altra cosa; ricordatevi che ne avrete tristezza, però innanzitutto noi amiamo la vostra libertà.
Sequela, dunque, nella libertà.
Questa è la roccia su cui possiamo trovare appoggio, la pietra da cui noi possiamo trarre da bere.
Vi leggo note di uno che mi ha mandato:
«Bisogna che teniamo presente due cose. Primo, se Dio è venuto nel mondo, tutto deve polarizzarsi su questa Presenza» tutto, ma proprio tutto! Sì anche in politica anche nell’economia, anche nella vita sociale, «tutto deve polarizzarsi su questa Presenza»: è chiaro, nella misura in cui essa sta nel tuo cuore.
Poi, non è che la memoria o la coscienza della Sua presenza ti detti come fare nel senso tecnico del termine: cambia però il soggetto nell’affrontare la questione, e in qualche modo, muta, qualifica quello che fai.
(80) «E, secondo» prosegue il contributo, «il cristianesimo è qualcosa di vivente, cioè ha a che fare con il carisma».
Il carisma è la modalità con cui il comunicarsi del Mistero tocca la tua carne, le tue ossa, la vita quotidiana.
(81) «Quanto più approfondisco la coscienza di me stesso, tanto più riesco a giudicare tutto con questa esperienza».
La più bella definizione di critica io l’ho trovata nella Lettera ai Tessalonicesi, quando san Paolo scriveva proprio ai più ignoranti, a quelli di Salonicco: «Vagliate ogni cosa e trattenete il valore».
«Vagliate ogni cosa», perciò niente è censurabile, niente è escluso, « e trattenete», lui letteralmente dice, «il bello»; ma il bello, come diceva san Tommaso, «è lo splendore del vero», perciò «trattenete ciò che è vero»; ma il vero in quanto ti muove si chiama «valore»: «trattenete il valore».
«Questa posizione, questa mentalità o cultura, si esprime nel giudizio, e il giudizio è la consapevolezza della esperienza che si sviluppa nei problemi e nelle difficoltà dell’esistenza.»
«Occorre dunque che in noi avvenga una coscienza viva e critica, sempre più chiara, sempre più capace di capire le implicazioni dell’esperienza che viviamo, così che ne nasca una forma, la forma di un nuovo modo di vivere e di sentire.»
(82) Allora la nostra pietra di sostegno è la nostra compagnia, innanzitutto come esempio di giudizio di vita e sul mondo, perciò come direttive, come direttive che ci vengono date, che sono gli esempi di un giudizio, che sono aiuto per un giudizio, per sapere come fare.
Un Fraternità, se fosse veramente vissuta fraternamente, quanto aiuto dovrebbe dare in questo senso!
Non perché ci si sente obbligati a mettere sul tappeto tutti i nostri problemi intimi: sono i criteri da capire!
(83) «Una mentalità nuova dobbiamo portare nel mondo, attraverso una realtà umana nuova».
E una realtà umana nuova è là dove ci si sostenga in una chiara certezza e nell’abbraccio profondo e creativo, manipolatore della vita quotidiana.
Sì il Signore è un fatto storico, un fatto che si rende presente nella nostra vita.
(84) È come una mens, un modo di vedere le cose diverso, e noi non dobbiamo immetterla a viva forza, perché è un’ascesi: si impara, quindi, questa grandezza ideale, occorre solo che abbiamo a camminare insieme, seguendo il mistero che tutto fa, l’Ideale incarnato.
«Non angustiatevi per nulla», non mettere la vostra anima in una strozza «ma in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste con preghiere suppliche, ringraziamenti».
Questa è la grandezza della nostra fraternità e amicizia: che
rappresentiamo Dio per chi ha necessità.
(85) In conclusione, fratelli, tutto ciò che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorabile,, tutto quello che è virtù, che merita lode, tutto quello che è stimato, sia oggetto dei vostri pensieri.
Il simbolo o il segno chela nostra vita cammina, trascinandosi nella tempesta o nel sole, nella serenità, è che esista nel nostro cuore la gratitudine: verso Dio, verso il Suo mistero tra noi, Cristo, verso i fratelli che sono segno reale, vicino alla nostra carne e alle nostre ossa; e gratitudine per quello che ci fa capire e sentire.
E poi camminiamo, camminiamo.
Omelia
(85) La terra è del Mistero, non è nostra. La terra, la vita nella sua esistenza d’ogni momento, nella circostanza secondo la banalità più accanita dei dati chela compongono, è del Mistero.
Dobbiamo riconoscere questo, dobbiamo riconoscerlo, così che diventi abituale sottofondo del nostro pensiero, così che diventi abituale quadro in cui collocare tutto, così che diventi compagnia, senza paura.
(86) Quando riconosco questo, le catene, la realtà come catene si spezza. […] e la vita diventa più vita.
La testimonianza rimane il nostro grande compito, un compito il cui esito non è in mano nostra, ma è nel tempo di Dio.
C’è un segno di questo che è come la voce che hanno sentito nel Vangelo, come un tuono nel cielo sereno: è la gioia, è l’esperienza della gioia, incontrare l’esperienza della gioia.
Incontrare la gioia è l’aspetto più rombante, clamoroso della testimonianza.
È come un compito, per noi, tendere alla gioia, quella gioia che può stare anche con il più grande dolore, come abbiamo sentito dalla testimonianza di Mounier ieri, che può stare anche di fronte alla morte della persona più cara.
(87) Noi dobbiamo supplicare il Signore che ci renda suoi, testimoni nel mondo attraverso la nostra gioia.
Che essa appaia qualche volta nella nostra vita davanti agli occhi di tutti, insomma, che la gioia, secondo il disegno del Padre, punteggi il nostro cammino come pietra miliare che indichi la foce giusta, il destino perseguito in modo esatto, è quello che ogni giorno attendiamo.
Quella gioia che scaturisce soltanto dalla posizione di Abramo: «Dio è tutto», di fronte alla figura di un’ingiustizia peggiore della morte: «Abramo, tosto si alzò»
La gioia nasce solo da questa accettazione totale di Cristo, dalla dedizione totale a Cristo.
Bene, allora vi raccomando l’irruzione della gioia, perché altrimenti se more!
Esercizi spirituali predicati da don Giussani
1° volume «Cristianesimo alla prova»
Titolo: UNA STRANA COMPAGNIA
- Prefazione di Carrón
- 1982 – Il cuore della vita
- 1983 – Appartenenza e moralità
- 1984 – Io vi chiamo amici
2° «volume Cristianesimo alla prova»
Titolo: LA CONVENIENZA UMANA DELLA FEDE
- Prefazione di Carrón
- 1985 – Ricominciare sempre
- 1986 – Il volto del Padre
- 1987 – Sperimentare Cristo in un rapporto storico
3° «volume Cristianesimo alla prova»
Titolo: LA VERITÀ NASCE DALLA CARNE
- Prefazione di Carrón
- 1988 – Vivere con gioia la terra del Mistero
- 1989 – Occorre soffrire perché la verità non si cristallizzi in dottrina
- 1990 – Guardare Cristo
4° volume «Cristianesimo alla prova»
Titolo: UN AVVENIMENTO NELLA VITA DELL’UOMO
- Prefazione di Carrón
- 1991 – Redemptoris missio
- 1992 – Dare la propria vita per l’opera di un Altro
- 1993 – «Questa cara gioia sopra la quale ogni virtù si fonda»
5° volume «Cristianesimo alla prova»
Titolo: ATTRAVERSO LA COMPAGNIA DEI CREDENTI
- Prefazione di Carrón
- 1994 – Il tempo si fa breve
- 1995 – Si può vivere così
- 1996 – Alla ricerca del volto umano
6° volume «Cristianesimo alla prova»
Titolo: DARE LA VITA PER L’OPERA DI UN ALTRO
- Prefazione di Carrón
- 1997 – Tu o dell’amicizia
- 1998 – Il miracolo del cambiamento
- 1999 – «Cristo tutto in tutti»
- TEMI di «Dare la vita per l’opera di un Altro»
