1990 – Esercizi spirituali don Giussani «Guardare Cristo»

Esercizi spirituali predicati da don Giussani 1990


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Introduzione

(179) Tutto è più complesso e faticoso e doloroso e problematico, come del resto l’amore dell’uomo e della donna quando fanno famiglia, ché lo sviluppo rende tutto più complesso e doloroso e faticoso e problematico.

Attraverso la complessità, comunque, occorre ricongiungersi alla purità, alla semplicità e alla freschezza originali: ecco gli Esercizi.

Solo una purità e una generosità di accoglienza e di sequela possono far sentire tutta la ricchezza della crescita e della storia.

Tutto è grazia: «Della grazia di Dio è piena la terra il mondo non lo sa e noi lo sappiamo

(180) Investiti, stupefatti dalla grazia di Dio, grati a Dio, condividiamo la passione di Cristo per il mondo, una passione fattiva e operosa.

(181) Che abbiamo a diventare spalancati al dono della grazia, che abbiamo a diventare sempre più adeguati a servire il mondo affinché diventi più umano, cioè più vero!

È l’augurio che ci facciamo.

Perché il gesto sia veramente fecondo, fecondo di quest’augurio, perché sia un passo nuovo nel cammino verso la sua realizzazione, non abbiamo altro da fare – lo sappiamo – che incomincia chiedendo a Dio che compia ciò che ha iniziato, che porti a compimento quel desiderio che ha suscitato in noi.

Omelia

(182) Quello del matrimonio, fratelli miei, è il simbolo più impressionante, l’unità e l’indissolubilità del matrimonio è il segno o il casso più impressionante di quello che la liturgia ci ricorda oggi: che il criterio della vita è uno – uno! -: Dio.

II criterio di Dio incombe su ogni nostra espressione e azione.

C’è un criterio solo nella vita, Dio.

Da questo criterio soltanto nasce una capacità di comprensione, di perdono, di amore, nasce la misericordia.


Avvisi

(183) L’avviso più importante che devo dare si chiama «silenzio»: il rendersi fisico della memoria di Cristo nel cuore di una persona, il lavoro che il pensiero fa entrare nel Mistero e che l’affetto fa aderire alla Sua persona.


Il Mistero è entrato nella storia

(184) Una donna ha generato un uomo che è Dio; una ragazza, come fosse una di noi.

Non c’è niente di più commovente per noi che ricordare questo momento, perché esso è decisivo del nostro momento, della nostra giornata.

Non c’è niente di più commovente per noi che la devozione all’ Angelus, dove tutto il dramma della libertà, la libertà di Dio e la libertà dell’uomo, si gioca.

Che la Madonna di aiuti a dire «sì»; non dobbiamo dire altro che «sì», in qualsiasi condizione versiamo, nella vita e nella morte, sia che viviamo sia che moriamo.

(Preghiera dell’Angelus)

(185) Come ha «conquistato» Gerico, la grande città di Gerico, con un pugno di ebrei, così Dio conquisterà il mondo, persuaderà il mondo, si farà noto al mondo, si manifesterà al mondo attraverso un pugno di uomini, noi.

Nella notte del mondo, nella distrazione che penetra fino al midollo delle ossa tutta la gente, nella grande distrazione noi vegliamo, abbiamo coscienza dell’origine, della natura e del destino delle cose, siamo attenti alla fede del mondo, perché tutto il mondo grida al Mistero.

(186) Noi possiamo togliere il velo che appesantisce di sonno e di meschinità il cuore di tutti; possiamo togliere questo velo e accorgerci di ciò di cui siamo fatti, di ciò per cui è fatto il nostro cuore: «Dio, Tu sei il mio Dio, all’aurora Ti cerco, […] a Te anela la mia carne» (Salmo 62,2-9).


Punto 1°

(187) «Solo un Dio ci può salvare [può dare senso], occorre preparare l'attesa»

Heidegger – Scritti politici

Ciò è vero per chiunque, ma per noi non si tratta di attesa, bensì di riconoscimento, perché Dio è venuto.

«È venuto e si è rivelato a noi attraverso il Figlio suo».

«Dio nessuno lo ha mai visto, il Figlio unigenito ce lo ha narrato

Ma noi nella nostra vita possiamo dire facilmente: «Padre nostro che sei nei cieli», dimenticando che Egli è Mistero.

(188) Il Mistero da cui siamo, per cui siamo, di cui siamo.

E al di là di tutti i nostri possibili pensieri, di tutti i nostri possibili progetti, noi ne sorgiamo, senza poter pretendere di conoscere questa sorgente inesauribile, ineffabile, indicibile.

(189) Bisogna proprio scivolare dentro il midollo della liturgia per sentirsi penetrare fisicamente dal sentimento chiaro, dal riconoscimento netto di questo Mistero che ci supera da tutte le parti.

«Signore, Tu mi scruti e mi conosci, […] sei tu che hai creato le mie viscere, mi ha plasmato nel seno materno»

Ma, dice Gesù, questo sentimento soltanto l’umile di cuore lo può vivere.

Pensiamo al bambino con gli occhi sgranati e il cuore spalancato e pieno di fremito, intimidito e nello stesso tempo assetato.

(190) Non c’è nessun uomo più grande dei «piccoli» di cui Cristo parla. Nessuno è più grande dell’uomo così piccolo.

«Se non […] sarete come bambini non entrerete nel regno dei cieli», cioè nel chiarore e nella verità delle cose, nella luce e nel silenzio.

Dio, dunque, è il Mistero.

Tutto di noi dipende da qualcosa di più grande di noi; di più grande non nel senso di più voluminoso rispetto alla nostra immaginazione, bensì nel senso di altro, «totalmente altro», come ha ricordato una volta il Papa citando un grande teologo protestante; la nostra ragione non ci arriva, nulla può essere paragonabile a Dio, noi siamo un nulla di fronte a Te.

Punto 2°

Ora questo Mistero è un Mistero che entra nella storia: il Dio è un Dio storico.

(191) Questo è l’insopportabile dalla cultura umana di tutti i tempi.

Tanto meno possiamo concepire come il Mistero possa stare dentro e con la miseria del tempo e dello spazio, quella miseria che ci sentiamo addosso e che ci porta dal mattino alla sera stanca.

Dovete andare a leggere il capitolo trentaduesimo del Deuteronomio perché il mistero di Dio ha creato, come segno pedagogico, educativo per tutta l’umanità, la storia di un popolo.

(192) Se il Mistero ha rapporto con l’esistenza e con la storia, questo rapporto come si palesa? Come si manifesta? Il Mistero di manifesta in quanto di più banale, di più insensato noi possiamo rendere oggetto dei nostri occhi e della nostra considerazione: l’istante, le circostanze dell’istante, l’istante circostanziale.

La tua attenzione di adesso, il tuo stare ad ascoltare ora, la mia fatica di parlare adesso: questo è il rapporto con il Mistero; il tuo silenzio mentre sali sul pullman, la fatica che hai fatto a strapparti di casa per venire qui, il salire sul treno: questo è il rapporto con il Mistero.

(193) Non c’è niente di più pieno di pathos, di più appassionante, di più affascinante, del fatto che in questo momento io sono rapporto con il Mistero e il Mistero è rapporto con me.

E il bisogno di questo momento, la lotta di questo momento, il dibattermi di questo momento collaborano al disegno che il Mistero vuole realizzare, sta realizzando, e che si chiama storia.

Il mio bisogno, percepito in questo momento, già collabora al mondo.

Il bisogno non mi può dettare un progetto, perché il progetto è di un Altro: vivendo, nell’istante e nelle circostanze, il bisogno che provo, se lo offro, accetto che sia collaborazione a un disegno non mio.

(194)L’ultima lettera della mamma di uno di noi, missionario in Messico, scritta a lui pochissimi giorni prima di morire: «Qui in ospedale non si può pregare come si vuole» – neanche il progetto di pregare uno può pretendere di attuare -, «Però al mattino ci portano la Comunione e durante la giornata accetto tutto senza lamentarmi. Ciao carissimo figlio, non ti rattristare per queste cose, fa’ bene il tuo dovere e il padrone della messe saprà darti la ricompensa dovuta».

(195) La sottolineatura del valore dell’istante ci fa scivolare anche in un altro pensiero: proprio qui è l’origine del nostro peccato.

Noi ci ribelliamo a Dio che emerge dalle circostanze.

Non ci ribelliamo a Dio, anzi, diciamo: «Padre nostro che sei nei cieli»; ma, coscientemente o incoscientemente, più o meno coscientemente,

ci ribelliamo al Suo emergere, al Suo manifestarsi, al Suo comunicarsi, al comunicarsi della Sua volontà, che è la circostanza.

Ci ribelliamo alla circostanza, vorremmo che fosse diversa la circostanza.

Non diciamo fiat, «sì», come la mamma della lettera, e anzitutto come la Madonna.

La resistenza si mostra soprattutto nella incapacità di stare nell’istante.

L’immaginazione nostra fugge nel futuro o nel passato e lascia inquieta, timorosa o rabbiosa l’ora.

Così per sentirci consistere, per avere una consistenza noi non obbediamo alla circostanza.

Crediamo di consistere, cerchiamo la nostra consistenza nel fare quello che pensiamo, nel fare quello che si pensa o si vuole; mettiamo la nostra consistenza nella reazione alla circostanza, invece che nell’obbedienza alla circostanza.

Mentre nell’obbedienza al Mistero, dentro la circostanza, cresce il nostro io, come ci ha testimoniato la mamma del nostro amico.

Ma, dentro l’inevitabile sgretolamento dell’immagine di me, che quotidianamente avviene – per affermare la nostra consistenza ci sgretoliamo, perché non costruiamo; costruire vuol dire aderire al disegno di un Altro che ci convoca, che ci chiama momento per momento-, qualcuno continua ad amarmi, qualcuno mi vuole, l’Essere mi vuole, il Padre mi vuole, il Mistero mi vuole: dentro lo sgretolamento che io produco tutti i giorni, mi vuole.

Così continuo a vivere.

(197) L’abbandono, la capacità di abbandono è la prima libertà della consistenza di se stessi, è la piena e prima libertà.

(198) «Signore, non si inorgoglisce il mio cuore e non si leva con superbia il mio sguardo; non vado in cerca di cose grandi, superiori alle mie forze. Io sono tranquillo e sereno come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia. Speri Israele nel Signore, ora e sempre»

Salmo 130 1-3

Punto 3°

Il far consistere il valore della persona in questo abbraccio dell’istante, delle circostanze, implica un rintuzzare la reazione, implica uno strappo da me, implica il cambiare direzione a un desiderio, implica un non “artigliare il possesso delle cose, implica il sacrificio.

(199) Non possiamo non considerare questa mattina la figura di Abramo, nel momento in cui Dio gli disse: «Ammazzami in olocausto tuo figlio».

Immedesimiamoci con questa circostanza, immedesimiamoci con quell’uomo, con quel grande uomo, padre, di fronte al suo unico figlio, speranza unica della sua vita.

«E Abramo, tosto si alzò».

Qui, in questo parole, sta tutto lo scatto della grandezza umana, dell’uomo di fronte all’infinito, di fronte al Mistero, di fronte al suo destino, di fronte alla sua giustizia.

Il rapporto con l’infinito supera ogni nostra concezione etica, e mentre la fonda, mentre le dà corpo, stabilisce al nostro impeto morale un orizzonte senza fine, che è l’orizzonte del Mistero, come nel caso di Abramo.

Abramo non ha smesso di amare Isacco dicendo sì a Dio.

(200) Il sacrificio è nell‘amore, è un amore più grande dentro l’amore terreno, è l’amore più grande che dà eternità all’amore terreno.

Solo perché lo ama, ne fa il sacrificio.

«Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?»

Gb 2,10

Il grido, il riconoscimento e l’abbandono di Giobbe devono essere nostri, perché nel sacrificio della circostanza l’amore al nostro io diventa più grande.

Così l‘amore a noi stessi diventa grande nel sacrificio di noi stessi: l’amore a noi stessi diventa eterno, tocca il suo destino.


Punto 4°

(201) Tutto, proprio tutto – l’istante, le circostanze, la nostra disponibilità, la nostra obbedienza, fino all’incomprensibile sacrificio – è per una costruzione: non una costruzione al di là dell’orizzonte ultimo, dove l’Eterno apparirà come il volto di nostra madre, dove l’Eterno sarà posseduto come possediamo la persona amata, ma una costruzione in questo mondo.

Il Dio storico si lega alla storia per una costruzione dentro la storia, una costruzione dentro l’effimero.

(202) La dimora di Dio tra gli uomini: questa è la costruzione.

Terminiamo ora; anche se è una conclusione un po’ lunga

Ci ribelliamo, eppure ci conserva nel suo amore.

Dio è misericordia: ci vuole, ci conserva nell’essere, e con noi intende costruire la Sua dimora tra gli uomini dove Lui sia riconosciuto e amato e seguito.

(203) Ma noi ci troviamo di fronte a tutto questo, incerti, confusi e soprattutto deboli.

Mi scopro incerto e debole, confuso e debole; e allora la tristezza, l’accidia mi invade.

E, siccome, come dice san Tommaso d’Aquino, «nessun uomo può abitare nella tristezza» (De malo 11,4), allora prevale la fuga che Ratzinger annovera tra le «figlie dell’accidia», le figlie della tristezza.

Prevale la fuga, cioè la dimenticanza.

Prevale l’irrequietezza, cioè la presunzione – uno è inquieto perché presume, pretende -, e prevale la volubilità, cioè la violenza.

Ogni volubilità è violenza.

È la distrazione che tende a essere totalizzante per noi: la fuga dal Mistero, la distrazione.

(204) Facciamo il contrario, invece: stiamo attaccati a Lui!

Ancora una volta Cristo ci dà l’esempio, perché Egli, che è venuto a rivelarci il Mistero, come uomo ha vissuto il rapporto con il Mistero: «Padre, se possibile che io non muoia. Però non la mia, ma la tua volontà sia fatta».

(205) Non è un progetto, la giustizia, ma l’abbandono alla circostanza, la circostanza inevitabile per cui Dio ci fa passare: l’istante.

O fratelli miei, essere attaccati a Lui non è impossibile: è umano, e lì sta la consistenza della nostra persona.

Essere attaccati a Lui non è impossibile.

Come per voi mamme coi figli: pensate a come siete attaccate a loro!

[…] È un essere attaccati continuo, come si è con i veri amici, con i quali si ha la passione per il destino l’uno dell’altro, detto o non detto, consapevole o inconsapevole.

Essere attaccati a Lui è così.

Essere attaccati a Lui non è impossibile, ma è umano.


Il metodo dell’elezione

(209) «Il mio popolo è malato della sua infedeltà […], il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione

Os 11,7-8

È vero quanto dice san Bernardo: «L’uomo incomincia la sua verità nel riconoscimento della sua miseria» (Bernardo di Chiaravalle – De gradibus humilitatis et superbiae.

L'umiltà dell'uomo e la carità di Dio camminano insieme.

Ci sia questa verità in noi: il punto d’appoggio per l’infinito, il Mistero, nella sua volontà di amore all’uomo, è il nostro riconoscerci peccatori.


Punto 1°

(210) Fermiamo la nostra attenzione innanzitutto su questo Cristo nato da donna, Parola eterna del Padre fatta carne e ora udibile e toccabile nella Chiesa.

Ecco, noi di fronte a queste cose ci atteggiamo normalmente come se fossero una favola, perché altrimenti niente di noi sarebbe lasciato intatto da questo annunzio.

(211) Dunque se Cristo è morto per noi, perché, «sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui», la parola «totalizzante» non è esagerata.

(212) Ora su queste cose bisogna semplicemente fissare gli occhi.

«Il Verbo si è fatto carne» per noi, per noi uomini e per la nostra salvezza, per la nostra vita.

È disceso dal cielo, si è incarnato, ha patito ed è morto.

«Dio ci ha salvati e ci ha chiamati ad una vocazione santa [vera], non già in base alle vostre opere, ma secondo il suo proposito [il suo disegno cioè] la sua grazia; grazia che ci è stata data in Cristo Gesù fin dall’eternità» (2 Tm 1,9).

Ma io voglio ora sottolineare la parola «chiamati» a una vocazione santa.

(213) Fa scandalo che Dio diventato uomo penetri la storia, si renda udibile e toccabile attraverso pochi, relativamente pochi uomini, attraverso uomini scelti, chiamati.

Innanzitutto Dio deve parlare in termini umani, altrimenti non lo riconosceremmo; in secondo luogo occorre che il suo svelarsi non elimini, rattrappisca o riduca il mistero, ma lo aumenti, così che noi conosciamo sempre più il Mistero come Mistero, penetriamo nel Mistero, lo conosciamo sempre più come Mistero.

«Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo ha reso peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di Lui giustizia di Dio» (2Cor 5,21).

È accaduto: il mio peccato e il tuo peccato sono perdonati, la nostra grande debolezza cattiva è già perdonata.

(214) […]bisogna che il perdono, che già ci è stato dato, si manifesti.

E si manifesta dal di dentro di noi, da quel fondo in cui noi nasciamo da Lui, nasciamo come libertà.

Bisogna che si manifesti il Tuo amore, bisogna che si manifesti nel mio amore a Te.

(215) Per noi «la sua salvezza» dovrebbe essere già la nostra gloria e questa stessa tua salvezza è «luce per illuminare» gli altri.

(216) Mi permetto di leggervi, al termine di questo primo punto di meditazione, qualche brano dell’enciclica Redemptor hominis, che deve essere, in tutte le nostre case, la grande colonna dell’insegnamento di Giovanni Paolo II:

«L’unico orientamento dello spirito, l’unico indirizzo dell’intelletto, della volontà e del cuore è per noi questo: verso Cristo, Redentore dell’uomo; verso Cristo Redentore del mondo. (n°7)

L’uomo che vuol comprendere se stesso fino in fondo – non soltanto secondo immediati, parziali, spesso superficiali, e perfino apparenti criteri e misure del proprio essere – deve, con la sua inquietudine e incertezza ed anche con la sua debolezza e peccaminosità, con la sua vita e morte, avvicinarsi a Cristo. Egli deve, per così dire, entrare in Lui con tutto se stesso, deve […] assimilare tutta la realtà dell’Incarnazione e della Redenzione per ritrovare se stesso. Se si attua questo profondo processo, allora egli produce frutti non soltanto di adorazione a Dio, ma anche di profonda meraviglia di se stesso» (n° 10).

(217) Cristo è stabile principio e centro permanente della missione, che Dio […] ha affidata agli uomini. (n°11)

E se tale missione sembra incontrare nella nostra epoca opposizioni più grandi che in qualunque altro tempo, tale circostanza dimostra pure che essa è nella nostra epoca ancor più necessaria e – nonostante le opposizioni -, è più attesa che mai.» (n° 11)


Punto 2°

(218) Dunque ci è stato detto, siamo stati chiamati, siamo stati eletti per annunciarlo, non perché siamo più belli degli altri, più bravi degli altri, […] ma per il mistero del disegno di Dio.

È il mistero dell’Amore che ha toccato me e che ha toccato te, e mi ha toccato e ti ha toccato perché noi l’abbiamo ad annunciare agli altri.

Il Papa è stato perentorio: con la totalità del nostro essere.

Siamo stati eletti per comunicare.

Non è per un moralismo che siamo cristiani.

Comunicare ha un senso.

È eminentemente spalancato e attivo: per comunicare.

È un compito: non una morale, ma un compito.

La nostra compagnia è, nell’«organismo universale» dell’umanità, nell’organismo dell’umanità in cammino verso la sua perfezione esplicitata, la Chiesa.

(220) La nostra compagnia è una unità imperfetta ma reale, a cui l’uomo può appoggiarsi.

Non si può appoggiare, infatti, a una Chiesa astrattamente concepita.

L’uomo si appoggia sulla Chiesa che incontra in una realtà udibile e toccabile.

Questo deve essere la nostra compagnia.

Peguy: «Non si è cristiani perché si è giunti a un certo livello morale, intellettuale, magari spirituale. Si è cristiani perché si “appartiene” a una certa razza ascendente» tesa all’ideale, che è Cristo, a «una certa razza mistica» – che fa l’esperienza del Mistero, perché il Mistero si è reso presenza e perciò si è reso sperimentabile – a «una certa razza spirituale e carnale, temporale ed eterna, ad un certo sangue».

Ora, in questa appartenenza a un «unità imperfetta ma reale», […] che cosa è il mio soggetto, la mia persona?

(221) La personalità, la persona, il soggetto è consapevolezza di un avvenimento che è diventato storia, l’avvenimento di Cristo nel suo comunicarsi al mondo: Chiesa, corpo suo.

Questo avvenimento in cui è la salvezza, e in cui è l’inizio della fine del mondo, della risurrezione finale, è diventato storia per me, l’ho incontrato.

Il mio soggetto è consapevolezza di un avvenimento che è diventato storia.

Questa è l’essenza della mia persona, tutta giocata nella libertà. È un avvenimento che diventa, dunque, per me, origine del mio modo di concepire, scopo di ogni mio progetto, metodo per ogni mia azione: cultura, lavoro e morale.

(222) È origine di concezione, scopo di ogni progetto, metodo di azione.

Ma è anche di una semplicità assoluta, come mi ha scritto un nostro prete:

«Un ragazzo gravemente malato, che quindi frequenta la scuola solo saltuariamente, è rimasto impressionato dal fatto che molti suoi compagni di classe gli hanno detto di essere molto colpiti dalla sua testimonianza di fede, più da lui che non da altri che partecipano da più tempo a GS. Raccontandomi la cosa, quasi con disagio, l’ha commentata così: “È proprio vero che, quando uno appartiene, basta che respiri per essere una presenza”»

È una coscienza totalizzante che investe le cose, che investe innanzitutto l’istante, a questo livello.


Punto 3°

Voglio fare un ripresa dell’insistenza di questa mattina.

Infatti, è soltanto nella coscienza dell’appartenenza che l’istante diventa qualcosa di grande, diventa qualcosa di turgido e di fecondo, proprio dentro le nostre mani, dentro gli occhi, dentro il cuore; fisicamente uno è lieto del suo istante anche doloroso.

È il genio di Santa Teresina del Bambin Gesù. Tutta la sua vita può essere descritta in questa frase: passione per l’istante.

(223) La ricchezza di un momento operoso è la memoria che si vive in esso; «Fate questo in memoria di me».

La memoria, infatti, è un passato che diventa così presente, o meglio, è un passato così incommensurabile, così grande, che diventa così presente da determinare il presente più di ogni altra cosa presente.

(224) «Il conformista» – vale a dire chi vive secondo la mentalità di tutti – «prende persino le cose dello spirito per il loro aspetto esteriore» formale: prende Cristo, la Chiesa, l’Eterno, Dio per il loro aspetto esteriore formale.

«L’obbediente» – invece, chi aderisce, chi riconosce e aderisce, chi vive la memoria – «prende persino le cose della terra per il loro aspetto esteriore» (H. de Lubac – Paradossi e nuovi paradossi), per il loro rapporto con l’infinito, cioè per il loro aspetto sublime.

(225) Siamo stati eletti per comunicare, ma non comunicheremo se non apparterremo con tutto il cuore.

Come dice san Tommaso, «la vita dell’uomo consiste nell’affetto che principalmente lo sostiene e nel quale trova la sua più grande soddisfazione».

Tu Cristo, dentro questa compagnia cui appartengo, che m’hai fatto incontrare, in cui ho incontrato Te, con una consapevolezza matura.

L’appartenenza è come un essere posseduti da questa gente: da te, o Cristo, in questa gente; da te,, o Cristo, in questo rapporto con la moglie, col marito – non si chiama «sacramento»? -, in questo Mistero della Chiesa in cui siamo immersi.

Questa appartenenza significa essere posseduti, ma il Suo possesso di me è la mia liberazione; questo essere posseduti è la nostra liberazione: positività, tenerezza e letizia.

(226) E la sorgente non sono le persone chela compongono, che sono tutte come noi, ma è il Mistero che si è “impigliato” in esse.


Punto 4°

L’appartenenza è a Cristo, ma non c’è appartenenza se non ci apparteniamo tra di noi, con quella libertà che è pari soltanto alla totalità che essa esige ed implica, è un umanità nuova ciò di cui dobbiamo parlare.

Cristo introduce nel mondo una umanità nuova.

Pensiamo all’accoglienza che si sprigiona in famiglia e si getta dentro il bisogno dell’altro, ili bisogno che si incontra, si fa accoglienza del bisogno degli altri.

(227) Ma affinché non sia l’emozione del bisogno, ricordiamoci che il test supremo dell’accoglienza è l’accoglienza dei soliti, della gente solita.

La famiglia è il primo caso, ed è particolarissimo, ma l’accoglienza della gente solita è accoglienza dei compagni di lavoro, di studio, degli amici, della gente della comunità, della compagnia, così come Gesù ha accolto me, ha avuto e ha pietà di me.

«Passare accanto al Cristo, senza vederlo, può avvenire nei modi più svariati, ma tutti questi hanno una cosa in comune, il fatto [...] di non sostenere con lo sguardo la forma di Cristo»

H.U. von Balthasar – La percezione della forma

L’indisposizione della volontà rende l’oggetto reale inconoscibile.

Non sostenere con lo sguardo la forma che Cristo assume significa non riuscire a sostenere la compagnia, la famiglia, le vicende altrui, la gente solita, così come sono: allora si perde il riconoscimento di Cristo.

(228) L’obiezione all’accoglienza sono le cose che ci seccano, è il fatto che non corrispondano gli atteggiamenti e le figure e le forme a quello che noi vorremmo, ci aspetteremmo.

Ma l’oggetto reale non lo riconosciamo più se facciamo così, perché l‘oggetto reale, Cristo, si incarna dentro le circostanze, in ciò che ci circonda e con cui ci fa camminare.

Per perdonare i fratelli – io dico sempre che perdonare significa accettare il diverso, cioè accogliere – occorre sacrificio, altrimenti c’è una sola cosa: la vendetta.

(229) Ma possiamo imparare ancora da quanto scrive una di noi: «È da ciò che uno soffre, se ama, che impara ad obbedire, impara la libertà. Dicendo “no” al sacrificio, dico “no” a Cristo, cioè alla modalità storica nella quale mi chiama» – Non si dice “sì” a un Cristo astratto, ma alla modalità storica nella quale mi chiama. «perdo il contatto con la storia nella quale mi chiama, cioè con la realtà. Cristo, se non è presenza concreta, è una astrazione; se non aderisco, se la mia libertà non si muove, nonostante il disagio, io vengo soffocata da questo disagio e perdo come pezzi della mia carne, del mio volto, perché la verità di me stessa, che è Cristo, è la mia vita, il mio corpo, il mio volto».

Comunque sia, questa umanità nuova che sa accogliere, per cui non esiste l’estraneo, non esiste estraneità, è il segno della totalità.

(230) In questa umanità nuova che sa accogliere, attraverso tutte le difficoltà e i disagi, il segno più cospicuo, più acuto, è la preghiera; non pietistica, non sentimentale, ma la preghiera che è domanda del regno visibile in questo mondo.

Se io accolgo di essere amato, è impossibile che non perdoni a chi mi sta attorno; è impossibile: stenterò, farò fatica, ci impiegherò tre minuti invece di uno, ma è impossibile non perdonare, cioè non accogliere, in modo imperfetto, come diceva Solov’ëv, «imperfetto, ma reale».

(231) Se il segno dell’umanità nuova è la preghiera, la condizione è la passione per la verità.

«La comprensione e il rispetto per l’errante esigono anche chiarezza di valutazione. La comprensione e il rispetto per l’errante esigono anche chiarezza di valutazione circa l’errore di cui egli è vittima. Il rispetto, infatti, per le convinzioni altrui non implica la rinuncia alle convinzioni proprie»

Giovanni Paolo II, Discorso al Convegno della Chiesa italiana, 11 aprile 1985,4 – Loreto

La verità rende umilissimi di fronte a chiunque, perché la verità è la coscienza del Mistero, ma non è ambigua mai, neanche su se stessi».

(232) Se nella nuova umanità, il segno è la preghiera e la condizione è la passione per la verità, l’efficacia di questa nuova umanità in azione, che vive, che si muove, sono le opere: alla mercé della volontà di Dio, secondo quello che Dio permette, dà, lascia. impedisce, mortifica, vivifica.

Sempre alla mercé della volontà di Dio, ma questa nuova umanità diventa efficace fino all’opera.

«Attraverso il lavoro l’uomo costruisce costantemente su ciò che è già stato creato. L’opera del Creatore è sempre al principio. […] Il compito dei cristiani oggi, per il bene di tutti gli uomini è quindi quello di testimoniare con le opere del loro lavoro una vera umanizzazione della natura lasciando in essa una impronta di giustizia e di bellezza e rendendo manifesto il vero senso umano del lavoro e rendendo in questo modo obbedienza e gloria al Creatore».

(233) «L’impulso per intraprendere tali opere può nascere soltanto dal senso di gratuità che deriva […] dalla consapevolezza di far parte di un comune destino di liberazione iscritto nell’economia della creazione e della Redenzione»

Giovanni Paolo II – Omelia – Santiago alla Giornata Mondiale della Gioventù . 20 agosto 1989, 4,6

Ognuno di noi è il soggetto responsabile di tutto questo.

Tu, io siamo responsabili di questa umanità nuova, che sappia accogliere tutto, al di là dell’obiezione della nostra sensibilità, perdonando nel segno della preghiera, nella passione della verità, efficace fino a creare opere.

Così daremo gloria a Cristo.


Il vicendevole sostegno alla memoria

(234) Il peccato è il gesto, è il rapporto con la realtà che non nasce dalla memoria di Cristo; la risurrezione è il rapporto con la realtà che nasce dalla memoria di Cristo.

Spero che questo avvenga, che questo passaggio avvenga alla mia età; e a maggior ragione alla vostra.

Non c’è momento della vita che possa sottrarsi, in cui sia impossibile questo passaggio.

Punto 1°

«Non è a forza di scrupoli che un uomo diventerà grande. La grandezza arriva, a Dio piacendo, come un bel giorno».

È questo il valore dell’incontro che abbiamo fatto e che continuiamo a fare.

(235) Abbiamo già in noi, già ci è stata data quella quella vita che non muore, e l’incontro è la presa di coscienza di questo.

Mentre prende coscienza di questo, uno si sente anche fisicamente fresco, come se nascesse, come un bambino.

Diceva Mauriac che: «l’infanzia è una vittoria, una conquista dell’età matura».

Comunque sia, questo incontro, in cui abbiamo preso coscienza del passaggio che occorre alla vita perché diventi vita – dal peccato, dalla dimenticanza, dal tradimento, alla memoria -, ci ha messi insieme.

Non ci conoscevamo, siamo stati messi insieme da questo avvenimento.

Perciò si tratta, fra noi, di praticare una solidarietà dove «si condivide qualcosa di più delle merci» o delle convenienze.

(236) E che cosa è questo «qualcosa di più» se non la fede, il riconoscimento di Colui che è tra di noi, così presente da avere la forza di farci trovare insieme, di radunarci per sempre?

Si aderisce per la coscienza del dono che ci è fatto della Sua presenza.

Ciò che mette insieme i fratelli è la Sua presenza.

Nella fragilità e nell’effimero della nostra compagnia è veicolata, si porta dentro la nostra vita la realtà di Cristo.

«Occorre» come mi ha scritto uno di voi «un grande sostegno vicendevole, perché la punta di ogni capello sarà contata per ili grande scopo che ci è stato donato. Cos’è la Fraternità se non questo sostegno, questo soccorso […] nei meandri e nelle pieghe di tutta la vita sociale

(237) Siamo insieme per ricordare, per sostenerci in questa memoria.

Potete radunarvi quando e dove volete […] ma deve risultare un sostegno vicendevole in questa memoria, attraversando qualsiasi convenienza umana.

Se ci trattiamo male, «se» come dice san Paolo «ci mordiamo a vicenda», come facciamo a richiamarci, a sostenerci al richiamo?. È impossibile.

(238) Se la Fraternità deve essere una realtà vissuta in questo modo, deve anche essere un luogo di carità.

Ma la parola più riassuntiva è la parola «perdono».

(239) Anche per sovvenire al bisogno dell’altro, bisogna infatti perdonarlo, bisogna perdonarlo di avere bisogno, bisogna perdonarlo di costringerci ad aiutarlo, perché abbiamo dentro di noi l’esito del peccato originale che ci fa di un egoismo spaventoso.

La Fraternità ha questa funzione capitale e immediata per noi.

Essendo stati raggiunti in questo modo, esso è necessario, e abbandonarlo, frantumarlo, dimenticarlo, non utilizzarlo è tradire Dio.

Perciò è attraverso questa nostra compagnia e amicizia, per quanto fragile possa essere, che noi andiamo da Lui.

(240) Aiutiamoci: questa è la strada per cui il Signore ci richiama a sé, alla vigilanza; una strada così fragile, una strada da tanti punti di vista discutibile, ma è lo strumento pedagogico, la modalità educativa che per te il Signore ha preparato.

Punto 2°

La partecipazione alla Fraternità è una pedagogia alla tua santità, cioè un metodo, una modalità pedagogica alla tua santità, lo starci è come una preghiera.

(241) L’essere insieme, l’accettare di stare insieme, questo è il gesto missionario primo.

Si può dire che il gesto missionario primo è il comportamento della mia persona, illuminato e sorretto, animato dalla fede, è l’esempio della persona, la testimonianza.

Non è un giudizio quello che convince gli uomini, non è un discorso, ma una compagnia umana.

Una compagnia che ha come test il perdono, che ha come anima e spinta, anche se appena balbettata, il desiderio del destino dell’altro, come una madre ha il desiderio della felicità del figlio.

«Guarda come si vogliono bene!», dicevano dei primi cristiani i pagani.

(242) Allora, nella passione per condividere il bisogno, appare come il più grande bisogno sia il richiamo della memoria di Cristo.

Senza di quello noi siamo poveri, anzi, siamo più che poveri, miserandi.

Lettera: «[…] So con certezza da quindici giorni di essere ammalata di sclerosi a placche. Sono già semi invalida. A detta del medico, con manifestazioni latenti, l’ho da ventisette anni. Questo anno è precipitata. Detto questo, ti devo dire tutta la mia gioia. Nel momento dell’angoscia e ancora del dubbio, il signore mi è venuto a trovare attraverso il mio amico – un sacerdote della Fraternità di Milano.

Quando la mattina mi sveglio e mi torna la frase fatidica, “sclerosi a placche”, dico un’Ave Maria. Riesco a dire a Gesù: “Aiutami a dirti di sì”. (Questa è una madre con prole). Ecco, questo è finalmente, lo tocco e mi invade, vivere l’istante: il pensare, il preoccuparsi e tutto il resto è diavolo.

Appena riesco a dire così, mi invade il desiderio di tirarmi su, scendo e vedo le mie figlie, mio marito, tutti i doni umani di cui il Signore mi circonda, anche l’essere vissuta 27 anni senza ch esplodesse prima la malattia.

(243) E allora tutta la giornata diventa una gioia. […] Quando è morto il mio bimbo, mio papà mi ha scritto – lui ha una paresi da 6 anni ma è contento -: “Quello che il Signore chiede non è mai troppo e tutto può trasformarsi in preghiera”»

(244) Il desiderio di cambiare, la domanda di cambiare, questa è la novità di ogni mattina; altrimenti sarebbe pretesa e presunzione.

Per questo dico che anche solo l’iscriversi, la vostra iscrizione alla Fraternità, ha già un sapore missionario, perché sottolinea, aiuta a sottolineare nella Chiesa di Dio questo carisma che ci è stato dato, questa modalità che ci è stata donata di sentire il dogma – ciò che Dio ci ha rivelato di sé – piena di luce e affezione.


Esercizi spirituali predicati da don Giussani

1° volume «Cristianesimo alla prova»

Titolo: UNA STRANA COMPAGNIA


2° «volume Cristianesimo alla prova»

Titolo: LA CONVENIENZA UMANA DELLA FEDE


3° «volume Cristianesimo alla prova»

Titolo: LA VERITÀ NASCE DALLA CARNE


4° volume «Cristianesimo alla prova»

Titolo: UN AVVENIMENTO NELLA VITA DELL’UOMO


5° volume «Cristianesimo alla prova»

Titolo: ATTRAVERSO LA COMPAGNIA DEI CREDENTI


6° volume «Cristianesimo alla prova»

Titolo: DARE LA VITA PER L’OPERA DI UN ALTRO



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