1992 – Esercizi spirituali: «Dare la propria vita per l’opera di un Altro»

1992 – Esercizi spirituali 1992 di don Giussani: «Dare la propria vita per l’opera di un Altro»


ATTENZIONE: se avete cercato “Dare la vita per l’opera di un Altro” appaiono questi esercizi del 1992. Per la scuola di comunità attuale, che ha lo stesso titolo, anno 2022\23, dovete cliccare qui oppure cliccare sull’anno 97 qui sotto

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Introduzione

(86) Per che cosa ci siamo ritrovati o per cosa siamo venuti e siamo presenti come una cosa sola?

Perché di questa compagnia presente, ciò che veramente importa è qualcosa che ci è inesorabilmente comune.

Anche coloro che non ho mai visti hanno in comune con me la vita come compito da realizzare, a svolgere; un compito non indiziato o voluto da me o da loro, un compito comune, identico, per me e per l’ultimo, il più lontano geograficamente, tra voi: un compito assegnato.

(87) Quello che c’è di comune è che di questo compito vogliamo sapere, desideriamo sapere, esigiamo con tutto il cuore di sapere il «perché»; e vogliamo sapere dove tutta la nostra vitalità, tutta la nostra espressività, tutta la nostra dedizione, tutto il nostro vivere vada a finire, quale sia lo scopo del vivere, con la fatica da portare, le contraddizioni da subire, la vergogna di sé da sopportare.

Queste cose sono comuni a tutti, sono le cose importanti per ognuno di noi.

Siamo venuti per riandare alle cose che sempre ci diciamo.

E ci siamo trovati tutti insieme perché non c’è niente di più di questo, normalmente, che possa aiutare le emozioni del nostro cuore o la vivezza e la percezione della nostra mente.

(88) Niente più del nostro radunarci può servire a illuminare quello che altrimenti resterebbe sempre troppo oscuro.

E in che modo Lui può contribuire alla vita di ognuno di noi, a stimolare la vita mia, a farmi attraversare un po’ più velocemente la vergogna che ho nel ridire queste cose da questa posizione, mentre vorrei essere l’ultimo là in fondo, a sentire con libertà immediatamente più grande?

In che modo possiamo contribuire?

Con una sola cosa: col silenzio.

Il silenzio non è il non parlare, il silenzio è essere riempiti nel cuore e nella mente dalle cose più importanti, quelle a cui normalmente non pensiamo mai pur essendo il segreto motore per cui facciamo tutto.

(89) Il silenzio, dunque, coincide con quello che noi chiamiamo «memoria» e può essere condotto nella riflessione, che personalmente favoriamo, o nell’ascolto, o nel guardare gli altri che ci sono intorno.

Per questo insistiamo perché il silenzio sia rispettato nella sua natura, cui adesso ho accennato, ma anche nel contesto in cui siamo, salvando il contesto per cui questa memoria può essere utile, e perciò anche non parlando inutilmente.

(90) Quello che facciamo insieme in questo giorno e mezzo non è che un aspetto del grande gesto amoroso con cui il Signore, comunque tu te ne accorga, spinge la sua vita verso quel destino che è Lui.

Quello che ci diremo avrà come tema Dare la vita per l’opera di un Altro.

«Dare la vita» non necessariamente significa morire.

(91) Dare la vita significa che tutto quello a cui ci ridestiamo ogni mattina, dal mangiare al bere, dal vegliare al dormire, come dice san Paolo, da tutte le flessioni della vita fino alla flessione ultima della morte, che tutto sia concepito, voluto, tentativamente formulato in funzione dell’opera di Dio.

Che cos’è l’opera di Dio? L’opera di Dio ha un nome: il cielo e la terra, tutto ciò che sta nel cielo e che sta sulla terra, tutto ciò che vige nel tempo, che riempie lo spazio, così come ogni gesto materno, ogni partorire, ogni concepire ha questo nome.

Noi possiamo non sapere e solo balbettarne qualcosa; rimane mistero, indubbiamente, ma il nome non è più misterioso, è qualcosa di più, di più conoscibile, definibile, perché il nome è Gesù Cristo. Egli si è reso visibile lungo tutto il corso della storia nella compagnia di coloro che, chiamati da Lui, si mettono insieme, si riconoscono insieme proprio per Lui.

La nostra compagnia: nella nostra compagnia Egli diventa visibile.

(92) Ma l’opus Dei, l’opera di Dio nel mondo, visibilmente, è la nostra unità, dentro la più grande unità della Chiesa, che vive e sussiste però nella nostra unità, altrimenti sarebbe un messaggio estraneo, fuori dalla nostra porta.

E poi l’ostacolo che in noi percepiamo, non come bambini smarriti, ma con una connivenza che non è pura, che non ci lascia puri. Cioè, siamo peccatori.

Per accostarci al Mistero ricordiamo quanto siamo peccatori.

E quella presenza che ci ha liberati dalle conseguenze della nostra meschinità, del nostro tradimento, della nostra negligenza, del nostro peccare, quella presenza che è proprio Gesù, Gesù diventato carne, che si è reso visibile, permanente.

(93) Questi temi che dunque richiameremo: il grande mistero del Padre, dell’origine e del destino; il peccato che è in noi; la Presenza che ci libera; la compagnia in cui Egli ci fa camminare, così come siamo, ci fa camminare e perciò ci cambia.


Omelia

(95) Vivere il tutto, il più possibile determinati dalla coscienza della Sua presenza, determinati dalla volontà di collaborare e contribuire al mistero della Sua croce e resurrezione, della Sua redenzione del mondo; vivere sempre più determinati da questa suprema verità delle cose è proprio l’essere una creatura nuova, è proprio il tipo di umanità diversa.

Diversa e magari non sopportabile dagli altri, quando capiscono la pretesa che essa implica, la pretesa che noi portiamo, senza badare – dico, gli altri – al fatto che i più stupiti e i più intimiditi siamo noi.


Il disegno di Dio nel mondo

Punto 1°

(98) Non c’è uomo che non senta l’incombenza, l‘inevitabilità ultima del destino.

(99) Qualunque idea abbia, l’uomo inesorabilmente tende a concepire il destino secondo i suoi pensieri, le sue paure.

Ma il nostro pensiero, il nostro ragionare e riflettere, non possono essere l’interpretazione del destino: c’è una sproporzione assoluta.

Così, questo destino giace in un fondo ultimo, anonimo e ultimamente oscuro per chiunque.

Questa oscurità anonima, che ci lascia impauriti, filosoficamente si chiama «panteismo», perché è un anonimato oscuro, dove tutto si omologa, diventa una pasta strana, ultima.

L’uomo, dunque, pur ammettendo questo ultimo destino, in fondo lo interpreta e lo traduce in modo tale da identificarlo con se stesso, con la propria azione.

(100) Nel mondo occidentale il destino tende ad essere concepito come l’attività dell’uomo e quindi come dominabile dall’uomo o determinabile dall’uomo e dal suo fare, dal suo daffare.

O il destino è quello che faccio io o il destino è quello a cui mi lascio andare, perdendo le mie responsabilità.

Ma sia l’una che l’altra posizione sono insane, perché non corrispondono alla realtà così come alla ragione.

Ammettiamo perciò che tutti sentano questo destino, ma di fatto non ci pensano o ci pensano il meno possibile.

(101) Il destino non sta in silenzio; quell’oscurità anonima, che impaurisce, non sta in silenzio. Come «non si nasconde» e «non tace»?

Non si nasconde nel senso che non tace, non sta in silenzio, perciò «si dice».

Che cosa dice il nostro destino, il destino di tutto e di tutti, che sta in fondo a tutto, da cui tutto nasce istante per istante?

L’evidenza più grande che noi, da adulti, possiamo raggiungere, se viviamo la coscienza di noi stessi, in questo istante, è che io non mi faccio da me.

Questo abisso non si nasconde e non tace, non sta in silenzio.

Che cosa dice?

(102) (L’uomo arriva) al nichilismo, a questo nulla ultimo del destino se non attende o non intende la risposta che il destino stesso ha dato parlando di sé.

(103) Dice il Salmo 118: «Se la tua legge», il tuo modo di concepire le cose, che tu mi hai palesato, mi hai fatto conoscere, «non fosse la mia gioia, sarei perito nella miseria».

Siamo fatti per la gioia.

Il cuore non può udire, come corrispondente a sé, se non questa parola.

Può esserci prima un esercito di scoraggiamenti, di «ma», di «se», di «però» e di «no», di negazioni, ma nessuno può rinnegare completamente questa parola che esprime la natura del cuore: gioia, felicità.

Il destino si rivela – cioè il Dio misterioso, il mistero che chiamiamo Dio – parla propriamente, cioè si fa conoscere nella sua definitività attraverso la scelta di un popolo.

(104) Dio sceglie un popolo nato da Abramo […], perché attraverso di esso e attraverso la sua storia Egli ci fa capire meglio che cosa vuole.

Di tutto l’universo sceglie questo popolo per dire: «Io voglio la positività del tutto».

Questo vuol dire che il Mistero realizza un disegno, ha un disegno: nella realtà c’è un disegno che si rivela attraverso una storia.

(105) Il Mistero rivela la propria natura, il proprio scopo, attraverso una storia umana.

Anzi, il singolo uomo vale in quanto è destinato a essere dentro questo popolo e in funzione di esso.

Il singolo uomo appartiene a questa storia e, attraverso di lui, gli altri sono chiamati ad appartenere a questa storia.

Appartenere a questo popolo è il valore del singolo.

Il valore del singolo, il valore, è il rapporto con il destino.

La grandezza, perciò, la proporzione della statura di un uomo , la forza di un uomo, l’apertura di un uomo, la ricchezza di un uomo, insomma il valore del singolo, di me, di te, sta nell’appartenere a questa storia che il destino lancia, ha lanciato nel mondo.

Questa appartenenza è la forza e il miracolo della singola persona nel suo cammino dentro il tempo, che la fa passare attraverso deserti e battaglie, aridità e tentazioni di dubbiezze, lotte e prove.

Ci troviamo di fronte al Mistero, a un destino che è Mistero, ma parla, e ci dice una parola: tutto è positivo.


Punto 2°

(106) Il metodo e la misura di questo disegno, il criterio di questo disegno che funzionalizza il mondo al cammino di quel popolo, […] non “c’entrano” con noi, nel senso che non possono essere commisurati, proporzionati a noi, a quello che possiamo pensare.

(107) In una parola sola: la giustizia, che è la positività di questo disegno, […] non si identifica con metodi e misure nostre.

(107) «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie». La giustizia è il disegno di Dio

La nostra immagine di giustizia è sempre sproporzionata: ridicolmente, se la guardiamo come pretesa; dolorosamente, se la guardiamo dalla sete di giustizia che è nel cuore.

La giustizia è il destino, la giustizia è Dio.

«E Dio disse ad Abramo: “Prendi Isacco e uccidimelo in sacrificio, dammelo in sacrificio”»

Gen 22, 1-3

E Abramo tosto si alzò.

C’è una vicenda più contradditoria, più ripugnante, più sconcertante e sconvolgente la nostra idea di giustizia, della richiesta che il destino fa al padre Abramo, che uccida per il destino, per Dio – sia pure per Dio – il suo unico figlio?

(108) E l’esilio in Babilonia? Loro che dovevano dominare il mondo, fulcro del mondo, resi schiavi dei pagani più plateali, del mondo più pesante, deportati.

Questa è la questione fondamentale.

Nonostante il destino abbia detto: «Io voglio la positività e la gioia, tutto ho fatto per la gioia», nonostante questo, dobbiamo guardare in faccia a questa grande e suprema legge della nostra vita, che il criterio, il metodo, la misura di tutto quanto avviene è secondo una giustizia che con la nostra sembra non avere alcun rapporto.

(109) Che cosa dobbiamo fare noi? Una disponibilità totale; una disponibilità totale di fronte al Destino, al Mistero, a Dio, alla giustizia che non è la nostra giustizia.

La nostra giustizia annida se stessa in un particolare e non libera nulla.

Ci occorre una disponibilità totale.

Che cosa è e in che cosa consiste questa disponibilità totale?

(110) Innanzitutto, la disponibilità totale è una affermazione amorosa dell’essere, della realtà che accade; amorosa perché è affermazione di una presenza.

La realtà rivela una presenza, la presenza del destino, del Mistero.

La disponibilità totale è una affermazione amorosa della realtà, in cui si cela la grande Presenza.

Perciò in questa affermazione amorosa noi siamo abbandonati come bambini tra le braccia della madre.

Se la disponibilità è un’affermazione dell’essere e della realtà presente, in cui è la grande presenza del Mistero, del Destino, la grandezza della vita è dare la vita per l’opera di un Altro. […] significa che il supremo valore dell’esistenza nostra è obbedire: si chiama obbedienza ciò per cui la nostra azione, che dovrebbe affermare noi stessi, realizza noi stessi affermando un Altro.

Dolore, croce, morte non sono obiezione, ma costituiscono l’oggetto di una sguardo positivo e amoroso alla realtà come accade, segno della grande Presenza, del Mistero.

Questa disponibilità, questa affermazione amorosa della realtà, questa obbedienza anche quando c’è il dolore, la croce, la morte, implica come modalità profonda e continua il sacrificio.

(111) Nella misura della serietà della nostra coscienza e della nostra ragione, il sacrificio è una modalità continua.

Non esiste, non può esistere un gesto, se è cosciente, senza sacrifico. Il sacrificio non è saltare la ragione, […] ma è come uno strappo a una chiusura, uno strappo in cui la ragione, la coscienza della realtà, la coscienza del Mistero, del destino esplode.

Solo attraverso il sacrificio diventa vero quello che facciamo.


Punto 3°

(112) [Adamo ed Eva] non hanno fatto quel sacrificio e hanno perso tutto, perché, dopo aver mangiato quella mela, si è corrotto anche lo sguardo che portavano al sole e alle stelle, si è corrotto anche lo sguardo che l’uno portava per l’altra; la cosa più bella e più grande che Dio aveva fatto, l’ultima, la suprema: corrotta.

Il valore di un rapporto con uomini e cose è ciò che rimane dopo il sacrificio.

Dette queste cose, la contraddizione rimane; la ferita della contraddizione la sentiamo, l’ingiustizia noi la sentiamo.

Noi ci ribelliamo

(113) È la ribellione alla non coincidenza del Suo col nostro disegno. Questa è la situazione umana.

Dopo il grande antefatto, la situazione umana è definita da una parola più adeguatamente che da ogni altra: l’esistenza umana è «peccatrice».

(114) Questa ribellione alla non coincidenza del Suo e nostro disegno è generale, quotidiana, di ogni ora, per tutti.

(115) Le ragioni della ribellione sono normalmente riconducibili a due.

Adamo ed Eva si sentono dire: «Non è vero che perirete se mangerete la mela» (Gen 3,4) […] è come se dicesse: «Dio è menzognero. Se Dio vi dà questo istinto, perché non potete soddisfarlo?» Oppure – ed è quello che emerge con la figura di Giobbe – si attribuisce a Dio una menzogna nel senso dell’ingiustizia: in ciò che accade, Dio è nemico, non Padre.

Ho accennato a questo per scivolare subito in un’altra osservazione: il mio essere peccatore comincia come giudizio di valore sbagliato: «Io giudico», qui comincia l’errore; «Io giudico» non: «Tu giudichi», «un Altro giudica», cioè Mistero, che ti comunica ciò che vuole attraverso circostanze inevitabili.

(116) Quando la ragione guarda la realtà tutta, si apre un punto di fuga verso l'infinito.

Il senso religioso dice questo usando il termine «segno»: la realtà è segno di qualcosa d’altro e non c’è niente che possa sopprimere questa dinamica, perché la realtà come appare non appaga.

Due sono le sorgenti di abbaglio della ragione.

Primo: essa parte dall’apparenza delle cose come se l’apparenza fosse tutto. E se uno giudica poggiandosi sull’apparenza non può non finire nel nichilismo, nel nulla.

In questo abbaglio la ragione rivela la sua bugia e la sua menzogna, il suo tradimento dell’esistenza, perché le cose sono, non possono essere spiegate con uno sguardo nichilistico per cui tutto diventa niente.

(117) La seconda sorgente dell’abbaglio della ragione è la mentalità dominante.

La mentalità dominante è l’esaltazione di ciò che preme a chi ha più potere.

Senza soggezione al destino, senza sacrificio liberante verso il tutto, il particolare, il particolare provvisoriamente potente, conia le sue leggi.

Il potente cerca di piegare tutto al suo progetto, in nome della legge che lui stesso conia o che lui stesso esalta, scegliendo tra gli spunti offerti dai valori.

Dobbiamo ammettere che il peccato è lotta contro la giustizia.

Tutto il presente dovremmo viverlo in funzione dell’opera di un Altro, del Destino, del Mistero, di Dio, in una obbedienza senza fondo, accettando il sacrificio di ogni momento.

C’è un’unica vera, reale ingiustizia nel mondo: il peccato.

E questo lo abbiamo addosso come una tigna, con conseguenze amare.

Sorprendere e riconoscere la nostra debolezza mortale di fronte al Mistero diventa perciò il primo consistente impeto di saggezza, […] e insieme, sorprendere la debolezza mortale e il peccato negli altri: noi sorprendiamo la debolezza mortale negli altri se lo facciamo con dolore.

Non si può riconoscere il male nell'altro senza dolore.

Riconoscere il male nell’altro senza dolore si chiama «fariseismo», la parola che opprime l’umanità di oggi, l’umanità più civile, che si dice civile.

Pensiamo a Zaccheo, alla Maddalena, all’adultera, a Giuda: Gesù non fece discorsi contro costoro, fece discorsi contro i farisei.

Chi può avere tanta verità, tanta severità e tanta compassione verso l’universale peccato? Per averle, queste cose, bisognerebbe essere grandi di cuore, grandi di sguardo, come Dio. Ci vuole Dio.


La presenza che libera

Punto 1°

(121) «Dobbiamo riconoscere che il cammino della conoscenza o della liberazione dipende da fattori che sfuggono al nostro controllo e che nel linguaggio religioso portano sempre il nome di “grazia”»

W. Pauli

(122) «Grazia» vuol dire gratuità.

Essa avviene perché da qualche parte della realtà qualcosa si insinua, qualcosa penetra dove siamo noi e a un certo punto ci tocca, ci chiama, ci provoca, con essa stabiliamo un rapporto inevitabilmente drammatico.

La grazia riguarda questo che leggo: «Così parlò Gesù. Quindi, alzati gli occhi al cielo disse: “Padre, è giunta l’ora, glorifica il Figlio tuo, Perché il Figlio glorifichi te. Poiché tu gli hai dato potere sopra ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato. Questa è la vita eterna: che conoscano te, unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo“». (Gv 17,1-3)

L’opera che piace a Dio, l’opera dell’Altro è la nostra fede, la nostra accettazione, il nostro riconoscimento di Colui che il Mistero ha mandato tra noi.

(123) «E il Verbo si è fatto carne».

Il senso del mondo, il destino del mondo, si è fatto uomo, nato in una razza, nato dal seno di una donna.

Questa è la prima cosa orribile per l’umana ragione che si chiama cultura dominante, in qualsiasi epoca.

Bestemmia per i giudei, assurdo per tutte le filosofie; scandalo per l’autentico religioso, assurdo per l’autentico filosofo.

Questo è l’annuncio che da duemila anni penetra il tempo e lo spazio del cuore dell’uomo, della mente dell’uomo, della cultura umana: Dio è diventato carne.

Questo è il focus, il centro dell’universo: quell’uomo!

«Dio tra noi» è la grandezza suprema della storia. Non esiste nella storia, una realtà più grande di questo uomo.


Punto 2°

(126) Andrea e Giovanni, Simone e Natanaele, Filippo, le tre o quattro donne che incominciarono a seguirLo, Lo videro.

Egli è tra noi nel mistero dell’Eucarestia, nel Mistero della nostra compagnia e della Chiesa.

È la cosa più grande che si possa concepire: Iddio tra di noi.

(127) Egli compie l’opera del Padre e ci salva.

La gloria di Dio è la nostra felicità, «la gloria di Dio è l’uomo che vive» (Ireneo di Lione, Adversus haereses), quell’uomo di cui parla il libro della Sapienza, e che Dio ha fatto per la felicità.

Ma la cosa impressionante è ciò che compie questo messaggio, che ci viene come grazia del Mistero attraverso la storia e raggiunge, provocandolo, il nostro cuore.

(128) Egli ci salva – per questo ho detto che è drammatica la situazione, anzi è tragica – in quanto assume su di sé tutti i nostri peccati.

«Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio».

2Cor 5,21

Tutti i peccati, di tutti gli uomini, come concentrati in quell’uomo, lo hanno reso “il” peccato e perciò noi siamo già tutti salvi, gli uomini hanno già tutti i loro peccati perdonati.

Egli ha crocefisso nella sua morte tutti i peccati di tutti gli uomini; tutti i miei peccati sono già perdonati.

Che cosa vuol dire che tutti i nostri peccati sono già perdonati?

Significa che tutta l’ascesi, la dinamica della purificazione, è un lasciar venire a galla, è un lasciar manifestarsi in noi quella forza purificante che ha sostituito il male del mondo sulla croce.

Significa che Egli diventa forma della nostra vita, del nostro pensare, del nostro decidere e del nostro agire.


Punto 3°

(129) Egli ha vinto tutti i nostri peccati, tutti i nostri peccati sono già perdonati in Lui, in quanto morti in Lui, perché Egli è risorto.

(130) La novità nella conoscenza e nella liberazione avviene per grazia. E la grazia con cui Dio opera il compimento nella nostra vita è un uomo, nato da donna: Gesù Cristo il Verbo stesso di Dio.

Tra di noi vive, dunque, tra di noi è presente.

Questa realtà opera per noi, salvatrice dai nostri mali, purificatrice dai nostri peccati, perché con la Sua morte e con la Sua resurrezione ha vinto il peccato in noi.

Sono esattamente queste le cose insopportabili alla cultura razionalista moderna, alla cultura umana che domina e determina il mondo oggi.

(131) Che la bellezza fatta carne, la giustizia fatta carne, la bontà fatta carne, la verità fatta carne, il destino fatto carne in un uomo sia presente […] ad ogni potente questo ripugna, il potente crea una scuola di pensiero, alimenta una cultura in cui questo sia sentito come assurdo: «Non è possibile».

Questa presenza grande e bella e buona, questo uomo così buono che è morto e risorto per noi, è salvatore della nostra vita: è il Salvatore.

Anche questo è insopportabile per la ragione moderna, per la cultura umana in genere, in tutti i tempi, ma soprattutto oggi.

Per l’orgogliosa ragione dell’uomo è intollerabile che io sia salvo perché un altro mi salva: io mi salvo!

È una grazia essere salvati.

La coerenza non è una costruzione di forza di volontà umana, la coerenza è il miracolo compiuto dal Mistero in noi.

Ogni coerenza è grazia; ogni coerenza è la forza di Cristo che investe la nostra debolezza e crea l’unità, ricrea l’unità in noi.

(132) Come è grande potere, con certezza e umiltà, nella tranquillità e nella pace del cuore, riconoscere questa cosa inaudita, impensabile, che è segretamente dentro tutte le aspirazioni dell’uomo e tutte le costruzioni che le aspirazioni fanno realizzare all’uomo.

(133) Per tutti noi Gesù Cristo è questa grazia, è questa Presenza.

Ma accettare tutto quanto abbiamo detto circa questa grazia, che noi dobbiamo servire con tutta la vita, accettare questo è l ‘opera di Dio: «L’opera che piace a Dio è la nostra fede in colui che egli ha mandato» (Gv 6,29).

L’opera di Dio è che questa grazia ci penetri, cioè che questa grazia si manifesti in noi.


Punto 4°

(134) Egli ci ha creato come sé: liberi.

La libertà che ci ha dato è il segno più grande del suo amore di creatore.

La grazia passa attraverso la reazione della nostra libertà.

La libertà, infatti, è per decidere: la decisione della libertà.

(135) Ma se l’uomo è così impotente?

E infatti la decisione è un attimo, prima del quale è già passato tutto, dopo del quale non c’è ancora nulla.

In questo attimo, prima del quale è già passato tutto, dopo del quale non c’è ancora nulla.

In questo attimo, la libertà in che senso può diventare decisione?

Accogliendo!

Non nasce da sé l’energia della libertà, è solo accogliendo qualcosa che essa diviene, si attua, e si arricchisce.

Per questo, la libertà di fronte alla grazia è accogliere la grazia.

Accoglierla. Allora la grazia diventa ricchezza nostra, secondo la misura e i tempi di Dio.

Il creatore ha posto la nostra libertà come affermazione amorosa della realtà.

Noi nasciamo come affermazione amorosa di ciò che ci si presenta.

La libertà, per questo, si può tradurre ultimamente in desiderio.

La decisione della libertà è un desiderio..

Più precisamente ancora: la decisione della libertà si identifica col desiderio, che è proprio la ricchezza del povero, la ricchezza del bambino, la ricchezza di chi da sé non ha nulla, ma può accogliere.

La decisione si traduce in desiderio, ma il desiderio vero è ciò che si chiama domanda.

L’uomo è assolutamente incompiuto, perciò la sua espressione più propria è la domanda, la domanda di essere.

(136) È nella domanda che si rende sconfinato, si rende rapporto con l’infinito.

La domanda è la nostra libertà.

Il desiderio reale, accettato, diventa esistenzialmente domanda, si traduce in domanda.

(137) Ma vi è un’altra preghiera, quella interiore, che è senza interruzione, ed è il desiderio.

Qualunque cosa tu faccia, se desideri Dio, non smetti mai di pregare.

Se non vuoi interrompere di pregare, non smettere di desiderare.

La freddezza dell'amore è l'assenza di domanda, l'ardore dell'amore è il grido della domanda.


Ci sono tre obiezioni, tre blocchi che cercano di fermare la libertà nella sua apertura carica di domanda, che cercano di impedire la domanda, che impediscono il rendersi sconfinato di tutto in noi («sconfinato» cioè rapporto con l’infinito).

A

La trascuranza dell’io

(138) Sì, la trascuratezza nella vera tenerezza verso se stessi, la trascuratezza nel vero amore a sé, la dimenticanza del destino, del destino come qualcosa a cui io sono destinato.

La trascuratezza dell’io non ti fa impegnare con ciò che tocchi, con ciò che vedi, con ciò che senti, con ciò che devi; la trascuratezza di te sfioca le cose, svuota tutte le persone, erige l’ignobilità dell’istinto, senza senso, fine a se stesso, o erige l’orgoglio del puro pensare astratto, arido e inutile.

Ma proprio allora risulterà chiaro come l’uomo non può espellere dalla propria coscienza la parola «mio».

La serietà con cui vivere l’io è data dalla coscienza cui cui si sente la parola «mio».

Ma devo sentire me stesso, per poter dire così.

È questa la parola che cancella la solitudine, paradossalmente: la parola «mio».

B

Centratura su di sé

La seconda obiezione alla libertà che decide, al decidersi della libertà, è data dalla centratura su di sé: l’opposto della trascuratezza dell’io.

(139) Chi è centrato su di sé, sulla propria bontà o intelligenza, sull’ansia o persuasione di aver ragione, finisce per non percepire più la realtà nella sua inesauribile e misteriosa alterità.

Così l’unico entusiasmo che si può provare nella vita è quello di aver ragione, di soddisfarsi: non certo la sorpresa per quello che accade, perla realtà che parla alla persona, per la grazia dell’essere.

«I superbi, mentre si dilettano della propria ragione, hanno fastidio dell’eccellenza della verità»

San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, IIa , IIae , q.162, a. 3 ad 1.

C

Non riconoscersi peccatori

Un terzo ostacolo alla decisione della libertà è non riconoscersi come peccatori.

Riconoscersi peccatori spalanca alla domanda.

È la presunzione dell’onestà, l’insensibilità al peccato.

(140) Invece il vero amore a se stessi, la vera dimenticanza di se stessi, il riconoscersi peccatori sono le cose che producono libertà, che persuadono la libertà a decidere, cioè a spalancarsi, nell’affermazione amorosa di ciò che le viene proposto, della realtà che le si propone e, sopra ogni cosa, della grazia.


La nostra libertà decida.

La decisione autentica della libertà – se quei tre ostacoli vengono tolti e capovolti -, la vera libertà, la vera decisione della libertà è una domanda, è una mendicanza: mendicanti dell’Essere, mendicanti del Destino, mendicanti del Mistero, mendicanti del Padre, mendicanti di Te, o Cristo, nostro fratello, che vivi con noi.


Introduzione

(143) Via sia l’onda incessante della buona volontà del nostro cuore.

«Buona volontà del cuore» vuol dire la verità dell’umano in noi.

Domandiamo che confluiscano le nostre volontà umane perché il vero si realizzi nel suo disegno, subito, da subito, poco o tanto, cadendo e riprendendosi.


«L'unico rapporto etico che si può avere con la grandezza è la contemporaneità»

Kierkegaard

L’OPERA DI UN ALTRO

Punto 1°

(145) L’unico rapporto morale, cosciente, responsabile, attivo, costruttivo, pieno, sensitivo, affettivo con la grandezza è la contemporaneità.

Tutto ciò che non è contemporaneo non c’entra.

(146) Contemporaneo sei Tu, quando dico «Tu», o Dio.

Se Cristo fosse passato, sarebbe oggetto, potrebbe essere oggetto di nostalgia, di ammirazione, ma non giudicherebbe la vita.

Non mi costringerebbe a cambiare.

Se mi costringe a cambiare, è perché è oggi: Cristus hodie.

L’opera dell’Altro incomincia nel tempo della storia, incomincia con la resurrezione di Cristo.

(147) Il risorto appartiene al mondo «celeste».

Il «celeste» non è un'altra cosa dal presente, è la profondità del presente.

È allora (quando ero in seminario) che ho capito che Dio è la profondità del presente.

Cristo risorto percepisce e vede la nostra esperienza, capisce la nostra esperienza più di noi stessi, in quanto è sceso al profondo di essa, laddove essa si origina e laddove essa dice il rapporto al suo fine, al suo destino.

(148) Il tempo e lo spazio sono strumento espressivo del mio pensiero e del mio sentimento, come sono nello stesso tempo limite e prigionia.

La risurrezione è la vittoria sulla morte, che è il simbolo supremo di questo limite, del tempo e dello spazio che diventano limite, che sono limite.

La morte è il limite estremo.

La vittoria sulla morte rende, per Cristo, il tempo e lo spazio puro strumento espressivo della Sua presenza.

Essi non sono più un limite.


Punto 2°

La risurrezione di Cristo inizia l'opera dell'Altro, inizia l'opera del Mistero.

(149) La risurrezione è la signoria di Cristo, signoria sul tempo e sullo spazio e perciò sulla storia, che è la figura del tempo e dello spazio che si dilatano, si svolgono, veicolando, portando dentro la cosa preziosa per cui ci sono: lo spirito dell’uomo, pensiero e amore.

A motivo della resurrezione (gli apostoli) [….] lo scoprono definitivamente nella sua identità: è il Signore del tempo e dello spazio, cioè il Verbo di Dio fatto carne, fatto uno di noi, e aderiscono a Lui senza più ondeggiamenti, dopo il turbamento e la prova inquietante della croce.

(150) Così la fede entra nel mondo a giocare il ruolo decisivo del mondo.

La fede incomincia così.

E che cos'è la fede? È il riconoscimento, dentro una presenza, di qualcosa di ben più grande, di grande; è il riconoscimento di Dio, del divino, del Mistero, del destino.

La fede è un “acume” dell’intelligenza, per cui tutta l’intelligenza è stata fatta, ma a cui non può arrivare da sé.

La fede è un dono, è una grazia, è uno spaccarsi del limite dell’intelligenza, arriva a riconoscere nel presente una realtà più grande, Dio.

Si chiama fede perché riconosce nell’apparenza, nell’apparenza determinata naturalmente, una Persona grande, una Presenza grande: la presenza del Mistero, di Dio, del Verbo di Dio, del destino di tutti e di tutto.

Il Mistero si comunica all'uomo attraverso una realtà umana.

(151) Il primo e decisivo modo di comunicarsi del Mistero qual’è?

Questo bambino, nato da donna, che diventa giovane, grande, è ucciso per noi e risorge il terzo giorno. Ora per compiere la Sua opera[…] Cristo utilizza lo stesso metodo che il Mistero del Padre ha scelto per comunicarsi all’uomo e al mondo.

Si è fatto uomo, ha reso divino l’uomo. Così Cristo si rende presente attraverso una realtà integralmente umana, fatta perciò di uomini e di tutto ciò che agli uomini interessa, cioè tutto.

Questa realtà integralmente umana – fatta di uomini e di tutto ciò che agli uomini interessa, cioè tutto.

Questa realtà integralmente umana – fatta di uomini e di tutto ciò che agli uomini interessa -, che Cristo ha creato per proseguire il metodo scelto dal Padre, si chiama Chiesa […] è una grande compagnia di uomini precisa nei suoi confini.

(152) E come Cristo precisa i confini della sua compagnia?

« Chi mi segue avrà la vita eterna e il centuplo quaggiù»

Mc 10,28-30

Cioè starà meglio come uomo e come umanità -, l’abbiamo letto centinaia di volte:

«Tutti voi, infatti, siete figli di Dio, per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo»,

Vi siete immedesimati con Cristo, Egli vi ha presi e assimilati alla sua personalità divina.

Non solo il tempo e lo spazio non sono un limite per Lui, ma il nostro essere non è un limite per Lui.

(153)«Siete una persona sola in Cristo Gesù. E se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo e perciò siete eredi secondo la promessa»

Gal 3,26-29

Il Mistero, il destino si comunica all’uomo attraverso la carne, delle persone, delle cose, secondo circostanze precise, che delle circostanze naturali mantengono la fragilità e l’apparente futilità: eppure lì dentro c’è Cristo.

Questa è la nostra compagnia.

E, infatti, l’obiezione alla fede qual’è? Che questa realtà è, come diceva il profeta Isaia, fenum, erba secca.

L’obiezione a questo miracolo, al miracolo che la compagnia è, nell’incoscienza stessa nostra, sono i difetti e gli errori che si trovano nell’aspetto umano dello strumento con cui Cristo si identifica per la sua proposta al mondo: perché si identifica con noi per la sua proposta al mondo.

(154) Ma essi sono parte inevitabile dello strumento stesso che Cristo sceglie.

È qui lo sconcerto, il paradosso, la suprema libertà, il segno supremo della potenza divina, che sceglie le cose deboli per confondere le forti.


Punto 3°

La legge è la descrizione della dinamica con cui un essere va verso il destino.

La legge della Chiesa si chiama obbedienza.

L’obbedienza evita che il singolo introduca come ultimo criterio interpretativo del divino, cioè del senso delle cose, la propria intelligenza, la propria fantasia.

(155) L’obbedienza pone il criterio ultimo del rapporto con la realtà di tutti i giorni fuori di noi, in un Altro.

I criteri vanno assunti da qualcosa d’altro, non da noi stessi.

Questo qualcosa d’altro, che si documenta visibilmente nella compagnia, diventa dimensione nuova della coscienza.

Perciò, la coscienza non è saltata: è la coscienza che si cambia, che cambia natura.

I criteri vanno assunti da altro, non da noi stessi, e l’altro non può essere immaginato: l’altro che è sorgente del criterio, è fissato dal grande Altro che è in esso, da Cristo risorto che domina sul tempo attraverso la presenza totale della Chiesa.

L’obbedienza è dunque alla compagnia oggetto dell’incontro, perché la Chiesa diventa anch’essa una cosa astratta se non si identifica con qualcosa che stringe ai fianchi, se non si identifica con qualcosa di presente alla mia vita, se non diventa esperienza.

(156) L’autorevolezza nella compagnia, l’autorità nella compagnia è data da chi la esprime nella sua coscienza ideale.

Il contenuto della coscienza dell'autorità si chiama regola.

La persona obbedisce dunque alla compagnia e all’autorità, in quanto propongono questa regola.

L’obbedienza è a ciò che viene tramandato, spiegato, reso esempio nella propria vita.

È il fiato di Cristo come parola e come affettività del cuore, che attraverso tutta la storia della Chiesa, attraverso la Chiesa, giunge alla mia persona dentro la comunità, dentro la compagnia che incontro.

L’alternativa all’obbedienza è la propria istintività, la propria reattività, il proprio parere.


Punto 4°

(157) Non può nascere un popolo dal tipo di uomo prodotto dalla società di oggi o di ieri, perché un popolo nasce, è fatto, è generato dalla dignità della persona come rapporto con l’infinito.

Solo un io può dire «tu» all’infinito che genera – genera! – qualcosa di simile a sé, rende sé tradizione, porta ancora sé, ripete sé, rivive sé e così si comunica e nasce un popolo.

È questo il soggetto nuovo da cui nasce un popolo.

(159) Questo soggetto nuovo, che crea un popolo nuovo, […] incominciando dallo sguardo che porta sul singolo, svolge una cultura nuova, un modo di pensare totalmente e profondamente diverso.

È una cultura profondamente opposta, diversa e opposta a quella che domina il mondo.

Noi abbiamo definito sempre, dagli inizi, la cultura come coscienza critica e sistematica dell’esperienza.

Perciò, essendo coscienza critica e sistematica dell’esperienza, una cultura nuova sorge non tanto da un lavoro della mente, ma dall’incontro con una realtà umana che muove anche la mente, genera un cuore diverso e un comportamento diverso verso se stessi e verso le cose.

(160) La parola «cultura» investe la totalità della persona, dentro e fuori; non è identificabile con un ragionamento o con un discorso astratto.

«Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia con cui Dio vi ha chiamati, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio»

Tm 12,1

(161) L’offerta non è il pietismo di gesti rituali, ma è un’offerta di sé, che sgorga da una concezione affettiva nuova del proprio destino e del proprio rapporto con il destino e perciò del valore della propria persona.

«Cambiate mentalità»

Mt 4,17; Mc 1,14-15

La mentalità è la misura con cui si giudica tutto.

La mentalità è ciò da cui nasce il giudizio di valore, che stabilisce il “vale la pena”

«Rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, di ciò che è a lui gradito e perfetto»

Rm 12,2

(162) Nonostante tutte le mie incongruenze delle nostre incoerenze, nonostante io mi senta così incoerente, così peccatore, Signore, io ti sono fedele, sto alla alleanza che tu hai stabilito con me.

Allora, la nostra mentalità, il nostro pensare umano e l’affettività del nostro cuore umano assumeranno una posizione diversa da ciò che ci circonda.

«La salvezza non c’è ancora, ma io voglio vivere ogni istante in modo da essere degno di riceverla se essa viene»

Kafka, Colloqui con Kafka

Guardando noi, quanta gente sente nostalgia come l’ha sentita Kafka in quella sua espressione!

Quando ci dicono: «Ma tu sei diverso», intendono dire questo. Magari non capiscono, ma sentono questa differenza.

(163) È una novità critica di mente ed è una novità affettiva quella che caratterizza il soggetto nuovo: c’è in esso una capacità di amore, perciò di gratuità, di affermazione dell’altro, normalmente impossibile.

Tutto questo, nel soggetto che crea un popolo nuovo, può esserci soltanto se è sotteso da una memoria continua di ciò che è accaduto, dalla memoria di Cristo: memores Domini, ricordando il Signore ci ergiamo la mattina.

Bisogna che questa memoria sia resa continua e questo è il prezioso contributo della compagnia, che non ti permette di stare troppo tempo senza questa memoria.


Punto 5°

(164) Il soggetto da cui nasce un popolo è creatore d’una compagnia umana nuova, stabilisce, fa sorgere attorno a sé, «nel paese che sta», un’amicizia nuova, un’amicizia vera.

(165) L’amore al destino dell’altro: c’è una gratuità immaginabile se non questa? No non c’è gratuità se non questa: l’amore al tuo destino.

Ogni altro motivo di rapporto si riconduce a un tornaconto, a una sensazione, a un riverbero desiderato, a un possesso previsto, a una proprietà stabilita, a un gusto da sentire.

L’amore al destino no. Questo è netto.

L’amore al destino dell’altro, la carità, è la legge di quella compagnia guidata al destino, di quell’amicizia unica, vera, che si chiama, con termine soltanto cristiano, soltanto cattolico, «comunione».

(166) Il questo luogo niente è contro di noi, neanche noi stessi.

La compagnia è il luogo del perdono; è «solo il luogo dove tutto è complice», dove tutto è positività, diventa positivo per te.

Dire «mio» significa dire «tu», dire un’altra cosa: «Io sono te».


Punto 6°

(167) Ma perché tutto questo ci è dato?

Perché abbiamo a portare tutto questo agli altri.

«Poiché l’amore di Cristo ci strugge al pensiero che, se uno è morto per tutti, è morto perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro. Cosicché non conosciamo più nessuno secondo la carne e anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così. Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova. Le cose vecchie passano, ecco son nate le cose nuove. Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con Lui mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero»

2Cor 5,14-21)

Il compito della missione.

(168) Perdiamo il senso di quanto abbiamo ricevuto, se non lo diamo agli altri.

Questa è la cosa inconcepibile del cristianesimo: che un uomo sia risorto.

Questa è la contemporaneità di cui abbiamo parlato; se non la si traduce per altri, noi siamo uno specchio che riflette se stesso o una finestra che fa da schermo, che non apre, non è testimonianza, non è più missione.

(169) Almeno confusamente, la domanda esistenziale e religiosa dell’uomo cerca Cristo.

È della struttura stessa del suo essere che ogni uomo cerchi Cristo, il Mistero, il Destino che parla dentro un uomo, che si prolunga nella storia dentro l’umanità, che ha la forma di una compagnia, la Chiesa.

E la Chiesa si stringe attorno a ognuno e diventa compagnia che l’uomo può incontrare.

La compagnia che si incontra: questa diventa la questione fondamentale.

(170) Lettera di un sacerdote sloveno padre Vinko Kobal (1928-2001):

«Caro don Giussani, credo di non averti mai scritto, anche se ci siamo incontrati molte volte. Sono ventisette anni dacché ho cominciato a vivere questa stupenda vicenda di amicizia. […] Credo di aver finalmente capito: è prendere sul serio la vita, la presenza del maestro ed ascoltare con tutto l’essere quello che un uomo simile a me ha appreso dal maestro Gesù. (171) Vuol dire entrare nel grande avvenimento. Appartenere a Lui attraverso chi ha avuto la grazia di capire molto prima di me come è difficile diventare piccoli discepoli coscienti d’aver bisogno di un maestro e cercare di pronunciare con rispetto e affetto quelle parole quei pensieri sorti da un’esperienza. Dico queste cose adesso, dopo aver capito la vostra grande intuizione di Cristo presente qui e ora nella concretezza di una amicizia per fede»

Dopo ventisette anni!

(173) (Risposta ad una lettera) Il fatto che gli altri non sono più estranei è un sentimento, un sentimento che tu puoi comandare: gli altri non sono estranei.

Vieni a sapere, senza che l’altro te lo dica, di un bisogno.

Vieni a sapere ad esempio di una sua necessità economica.

Come si fa a star lì insieme a un disoccupato, senza sentire il suo bisogno come proprio, standosene con le mani in mano?

E si può partire da una lontananza estranea, da una antipatia addirittura, si può partire di lì.

È una descrizione della Fraternità.

(174) (Altra lettera di una mamma )

«Siamo in attesa del nostro primo bimbo, un bimbo che abbiamo atteso […] Tutto è andato bene, fino a quando dopo una visita dal ginecologo, si è evidenziata una grave malformazione. Ecco, è come se la nostra vita fosse cominciata quel giorno davanti a quella notizia. […]

(175) […] Con il nostro piccino stiamo imparando cose grandi, che solo ora si stanno rendendo evidenti nella nostra vita. Stiamo imparando il significato di “appartenenza”, cosa voglia dire “aderire” ogni giorno al Mistero di un Altro che ci ha preso.

Fuori dalla nostra storia sarebbe follia concepire l’insegnamento di un bambino non ancora nato, come pure il dolore sarebbe sordo, isolato.

Attorno a noi, invece, è un continuo fiorire di miracoli, in noi, nei nostri familiari, negli amici, nelle persone della comunità che ci stanno aiutando e seguendo in questo cammino.

Spesso ci sentiamo fragili, la fatica sembra schiacciarci, ma dentro di noi sentiamo che c’è una certezza, chela promessa non è venuta meno e che il Signore, in questo momento, ci è ancora più vicino e compagno della nostra vita e in ogni istante. Non sappiamo cosa accadrà da qui in poi, quando Davide nascerà e non sappiamo come sarà la sua crescita: noi sappiamo che non siamo e non saremo soli e che il Signore completerà questo grande e misterioso disegno su di noi».

No, non esiste paragone al mondo.


Omelia

(177) «Gioia»: questa è la grande parola che Cristo ha introdotto nel mondo e che solo nell’esperienza cristiana è possibile.

Non è possibile altrimenti, la gioia, se non nell’esperienza del rapporto con Cristo, nella vita vissuta alla luce di Cristo.

È attraverso la gioia che «l’umile gregge dei fedeli di Cristo giunge con sicurezza» al suo destino.

Camminiamo con sicurezza in quanto tu, o Signore, ci dai la gioia.

Domandiamo la gioia. Nessuno domanda la gioia.

Noi domandiamo a te, Signore, quella gioia che, come dice la Chiesa, dà sicurezza al cammino del tuo popolo.

Cerchiamola, nel nostro rapporto personale, nelle nostre famiglie, nella Fraternità, nella comunità, con l’estraneo.



Esercizi spirituali predicati da don Giussani

1° volume «Cristianesimo alla prova»

Titolo: UNA STRANA COMPAGNIA


2° «volume Cristianesimo alla prova»

Titolo: LA CONVENIENZA UMANA DELLA FEDE


3° «volume Cristianesimo alla prova»

Titolo: LA VERITÀ NASCE DALLA CARNE


4° volume «Cristianesimo alla prova»

Titolo: UN AVVENIMENTO NELLA VITA DELL’UOMO


5° volume «Cristianesimo alla prova»

Titolo: ATTRAVERSO LA COMPAGNIA DEI CREDENTI


6° volume «Cristianesimo alla prova»

Titolo: DARE LA VITA PER L’OPERA DI UN ALTRO



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