TEMI de «Il Rischio Educativo»


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Lettera «D»



DEMOCRAZIA

(123ss) La notazione è rilevante, perchè il concetto di democrazia e il concetto di apertura, così come è portato da una prevalente mentalità tra di noi, tende a mortificare il concetto di dialogo.

Si tende a identificare come democratico il relativista, qualunque versione del relativismo viva, purché sia relativista: e si tende quindi a identificare come antidemocratico (intollerante, dogmatico) chiunque affermi un assoluto.

Da questa mentalità, o dal compromesso con essa, nasce quel tentativo di definire “spirito aperto” chi sia proclive a “mettere da parte ciò in cui si è divisi, e guardare solo ciò in cui si è uniti“, a mettere da parte la visione che si ha della vita, il che è gravido di equivoci.

Per la nostra mentalità cristiana la democrazia è convivenza, è

cioè riconoscere che la mia vita implica l’esistenza dell’altro, e lo strumento di questa convivenza è il dialogo.

Ma il dialogo è proposta all’altro di quello che io vedo e attenzione a quello che l’altro vive, per una stima della sua umanità e per un amore a lui che non implica affatto un dubbio di me, che non implica affatto il compromesso in ciò in cui io sono.

E questa l’apertura fatta propria dalla coscienza cristiana, che parte dalla affermata unità della natura – origine, valori, destino – al di là di ogni ideologia, e che proclama come legge dei rapporti l’affermazione della persona, e quindi l’affermazione innanzitutto della sua libertà.

La democrazia, perciò, non può essere fondata interiormente su una quantità ideologica comune, ma sulla carità, cioè sull’amore dell’uomo, adeguatamente motivato dal suo rapporto con Dio.


DESTINO

(51s)Il nostro destino si gioca nell’istante e nel luogo in cui si sta vivendo, qui e adesso.

Il rapporto con il nostro destino, se non vuole ridursi ad affermazione astratta o a suggestione sentimentale, deve essere rapporto con un luogo che diventi traccia al destino stesso, a Cristo.

Questa traccia è in senso ampio la Chiesa di Dio, ma, domandiamoci, di che cosa è fatta la Chiesa di Dio? Di uomini convocati.

Un’assemblea: costitutiva del nostro essere a identificarci sempre più con quel mistero.

Dunque quella traccia è fatta di gente chiamata allo stesso modo.

(120ss) 1 – Una idea di dialogo

Se noi fossimo totalmente fuori dal mondo, davanti agli altri e un uomo fosse solo, assolutamente solo, non troverebbe novità alcuna.

La novità viene sempre dall’incontro con l’altro; è la regola con cui è nata la vita; noi esistiamo perché altri ci hanno dato la vita.

Un seme isolato non cresce più; ma, messo in condizioni di essere sollecitato da altro, allora si sprigiona.

L’altro è essenziale perchè la mia esistenza si sviluppi, perchè quello che io sono dia dinamismo e vita.

Dialogo è questo rapporto con l’altro, chiunque o comunque sia.

Che cosa porta l’altro? Porta certamente sempre una sottolineatura di interesse che come tale è parziale, ma che, nel complesso degli ordinati rapporti, aiuta a concreare una maturità unitaria, una compiutezza.

Ognuno di noi proprio perché è un tipo con un determinato temperamento, è portato a sottolineare talune cose: il contatto con gli altri lo richiama ad altre cose e ad altri aspetti della stessa cosa, così il dialogo è funzione di quegli orizzonti di universalità e di totalità cui l’uomo è destinato.

Pensiamo anche quale importante funzione della cattolicità della Chiesa sia il dialogo.

Condizione per il dialogo.

(121) L’apertura senza limite, che è propria del dialogo come fattore evolutivo della persona e creativo di una società nuova, ha una gravissima necessità:

Non è mai vero dialogo se non quanto io porto coscienza di me.

E’ dialogo, cioè, se viene vissuto come paragone tra la proposta dell’altro e la coscienza della proposta che rappresento io, che sono io: non è dialogo, cioè, se non nella misura della mia maturità nella coscienza di me.

Per questo se la “crisi” nel senso di impegno per un vaglio per la propria tradizione, non precede logicamente il dialogo con l’altro, in quella misura io resto bloccato dall’influsso dell’altro, oppure l’altro che respingo provoca un irrigidimento irrazionale nella mia posizione.

Quindi, è vero che il dialogo implica un’apertura verso l’altro, chiunque sia, perché chiunque testimonia o un interesse o un aspetto che avresti messo da parte, e perciò chiunque provoca un paragone più completo; ma il dialogo implica anche una maturità in me, una coscienza critica di quello che sono.

Dialogo vs compromesso

(122) Se non si tiene presente questo, sorge un pericolo gravissimo:

confondere il dialogo con il compromesso. Partire da ciò che si fa in comune con l’altro non significa infatti dire necessariamente la stessa cosa, pur usando le stesse parole: la giustizia dell’altro non è la giustizia del cristiano, la libertà dell’altro non è la libertà del cristiano, l’educazione nella concezione dell’altro non è l’educazione come la concepisce la Chiesa.

C’è, per usare una parola della filosofia scolastica, una forma diversa nelle parole che usiamo, cioè una forma diversa nel nostro modo di concepire, di sentire, di affrontare le cose.

Ciò che abbiamo in comune con l’altro non è tanto da ricercare nella sua ideologia, ma in quella struttura nativa, in cui quelle esigenze umane, in quei criteri originari per cui egli è uomo come noi.

Apertura di dialogo significa perciò saper partire da ciò cui l’ideologia dell’altro o il nostro cristianesimo fanno proposta di soluzione, perché fra concezioni realmente diverse nulla è in comune, salvo l’umanità degli uomini che le portano come vessilli di speranza o risposta.

(124) Il dialogo è proposta all'altro di quello che io vedo e attenzione a quello che l'altro vive,

per una stima della sua umanità e per un amore a lui che non implica affatto un dubbio su di me, che non implica affatto un compromesso in ciò che io sono.

E’ questa l’apertura fatta propria dalla coscienza cristiana, che parte dalla affermata unità dell’umana natura – origine, valori, destino – al di là di ogni ideologia, e che proclama come legge dei rapporti l’affermazione della persona, e quindi l’affermazione innanzitutto della sua libertà.

La democrazia, perciò, non può essere fondata interiormente su una quantità ideologica comune, ma sulla carità, cioè sull’amore dell’uomo, adeguatamente motivato nel suo rapporto con Dio.

DIO

(45) Dio è la nostra definitività nel senso pieno della parola, non soltanto finalistico, ma proprio come definizione di noi.

E Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza

Genesi 1,26

Ora è esattamente questo che l’uomo non accetta. Tutto il problema religioso è qui, tutto il problema della dignità del vivere è qui, il problema della verità e della menzogna nella vita è qui.

Sovente si tende a ridurre la considerazione di noi stessi all’avere o al non avere assecondato certe leggi, e in base a questo definire sé stessi.

Secondo la tradizione cristiana proprio qui si delinea la struttura del peccato: nel fatto di identificare la propria definitività con un idolo, cioè una forma, con qualcosa di dominabile, di totalmente comprensibile, con qualcosa di costruito in modo tale da darci sicurezza.

Per questo il moralismo è idolatria: esso è in realtà un’impostura della vita morale ridotta a cercare certezze in ciò che si fa o che non si fa.

Dire che la definitività dell’uomo è Dio, al contrario, significa che la definizione dell’uomo e del suo destino è mistero.

(46) Noi uomini tendiamo a fuggire via sia dalla contemplazione del fatto che la nostra definitività è il mistero di Dio, sia dall’evidenza del nostro peccato.

Occorre un aiuto per affrontare tale contemplazione e tale evidenza, occorre un sostegno per evitare passo passo la fuga.


DIPENDENZA

Dipendenza da Dio

(54) Un lavoro personale svolto sospesi a Dio.

Se riconosciamo veramente che il mistero autore di tutte le cose è diventato uno di noi ed è rimasto nella storia in modo così paradossale per la nostra mentalità, dobbiamo anche essere sempre pronti a riconoscere che le Sue forme non sono le nostre.

E scopriremo allora che

le nostre forme si salvano solo dentro le Sue,

altrimenti si corrompono come la manna nel deserto quando non era usata nell’obbedienza, ma conservata con un proprio criterio.

Come l’israelita che serbava la manna per l’indomani, non viveva veramente quel luogo che era il suo popolo, perché dimenticava che Israele veniva definito dal fatto di riconoscere la propria vita “sospesa” al Mistero che è la verità del mondo; così noi, senza una educazione personale che ci assimili sempre più al mistero misericordioso che ci ha fatti e salvati, e senza una dimensione personale che nel solo mistero fondi la propria fiducia non creeremo nè apparterremo a nessuna realtà che voglia testimoniarlo.

Dipendenza del discepolo dal maestro

(70) L’educazione consiste nell’introdurre il ragazzo alla conoscenza del reale precisando e svolgendo questa originale visione.

Essa ha così l’inestimabile pregio di condurre l’adolescente alla certezza dell’esistenza di un significato delle cose.

La realtà, ripetiamolo, non è mai veramente affermata, se non è affermata l’esistenza del suo significato.

In questo si risolve quell’esigenza assoluta di unità che costituisce l’anima di ogni impresa dell’umana coscienza.

Indubbiamente ogni dinamismo naturale deve essere rispettato nella sua vera fisionomia.

E’ importante perciò osservare come il processo di dipendenza non debba risultare ottuso: un subire meccanico da parte del discepolo e un imporre sconsiderato dal parte del maestro.

Sia il primo un seguire accompagnato da sempre maggior consapevolezza e il secondo un proporre che trovi la sua forza nei motivi che sa portare e nelle esperienza che sa offrire.

Comunque il principio enunciato in quanto tale è insurrogabile, e, come sempre per le leggi di natura, è solo l’improvvido modo di attuazione che può offrire il fianco a obiezioni e difficoltà.


DISORIENTAMENTO GIOVANILE

(79) L’esperienza insegna che il risultato del prematuro confronto con contrastanti idee sui problemi fondamentali dell’interpretazione della vita disorienta il giovane, non lo orienta: il che non è un risultato confortante per una educazione.

Ed è amaro sentir dire che tale disorientamento è provocato in senso puramente metodologico, come istante di passaggio critico; perché non ci si avvede (o non ci si vuole avvedere) che l’essere buttato allo sbaraglio provoca inesorabilmente nel giovane lo scetticismo.

Ciò avviene soprattutto quando il ragazzo si sente contraddetto, senza essersi preparato, nelle idee fondamentali e sicure che aveva ricevute dall’educazione precedente.

Nel senso più vero della parola gli viene fatta violenza, e si sa per lunga storia dell’umanità che la violenza lascia ruderi e non costruzioni.


DUBBIO

(19) L’identità tra problema e dubbio è il disastro della coscienza della gioventù.

Il dubbio è il termine di una indagine, ma il problema è capire ciò che ho davanti, a scoprire un bene nuovo, una verità nuova, cioè averne una soddisfazione più carica e più matura.

(112) La parola “crisi” è piuttosto legata ad un’altra parola, la parola “problema“: non “dubbio” ma problema che nella sua etimologia greca ci indica l’atteggiamento fondamentale che deve assumere il giovane per costruire una società nuova.

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