Prefazione di Juliàn Carrón di “La convenienza umana della fede”


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La convenienza umana della fede (1985-86-87)

«Nacque il tuo nome da ciò che fissavi»

La fugacità del vivere, la caducità dell’uomo, è uno dei temi ricorrenti nella riflessione e nella poesia di ogni tempo.

È talmente comune questa esperienza di nullità e di fragilità, osserva Giussani, che rappresenta, di fatto, «il primo sentimento, il primo pensiero riflesso che l’uomo può avere su di sé. Siamo come foglie al vento» (p. 25).

Ma a un osservatore attento come don Giussani non sfugge qualcosa che è irriducibile e si sottrae a questa caducità.

Questo qualcosa di grande è il senso del destino, più forte della nostra fragilità.

Non basta il già saputo.

«Diamo per scontato che l’ideale ci sia perché crediamo, lo ricordiamo qualche volta, ma tutto il tessuto della nostra esistenza è come sprovveduto di esso. Così, il livello drammatico della vita, che è la convenienza umana in tutti i campi e in tutti i sensi, come la sentiamo naturalmente, non ha pace e non ha ultimamente letizia». (93/94)

Tutti dobbiamo ammettere che facciamo una estrema fatica «ad accogliere l’ideale dentro la convenienza umana» per paura di perdere qualcosa.

Cosa deve accadere perché la consapevolezza del destino penetri nel tessuto della nostra esistenza?

Dio può essere una parola rispettabile, ma non ha alcun nesso con la vita.

Ma allora occorre scoprire «come rendere vivo, perciò capace di organicità, e come riassorbire in una costruttività quel centro di gravità che sarebbe altrimenti come un piombo, dentro di noi, come qualcosa di estraneo e senza nesso» (pag. 43).

Giussani non ha dubbi: «È Cristo l’incontro che può rendere organico il senso del destino» (pag. 47).

Quello del Vangelo non è un racconto del passato, per Giussani infatti si parla di noi: Cristo è venuto per noi, che siamo «nulla e peccatori»;

«Mi ha chiamato per nome, ti ha chiamato per nome [….] Nel mondo che si muove e che diventa storia, nel tempo che passa, c’è una Presenza che nessuno potrà più estirpare, nessun potere potrà far tacere e che raggiunge l’uomo che il Padre sceglie, e dà in mano a Cristo. è cristo che può rendere organico il senso del destino, redimere il senso del nulla e del peccato» (p.45)

È Cristo che può rendere organico il senso del destino.

«Era la faccia, era lo sguardo, era tutta la persona di quell’uomo [Gesù] che investiva la povertà, la meschinità di Zaccheo, quella smemoratezza infinita della propria dignità che aveva squalificato tutta la sua vita, riempiendola di istintività, di ingordigia; e in un istante, in quella parola: “Zaccheo”, egli si è sentito totalmente liberato, liberato dal giogo del male» (217).

La strada allora diventa facile.

Il cammino è semplice, come quello di Zaccheo.

«Che cosa dunque dobbiamo fare se non tenere fisso lo sguardo su Gesù? È questa la conversione!» (224-225)

Mettendoci davanti agli occhi un personaggio come Zaccheo, don Giussani sfida le nostre solite obiezioni – la nostra incapacità, la nostra fragilità, la nostra incoerenza morale -, che in tante occasioni diventano alibi per non muoverci.

Invece «la moralità è la possibilità di Cristo in noi. L’energia che attua la nostra vita è Cristo: “qualunque cosa facciate in parole e in atti, tutto fate nel nome di GesùCosì l’uomo si perfeziona, vale a dire l’uomo compie quello che deve diventare – come un bambino che diventa grande e si compie».

La nostra statura non è definita dalle nostre capacità e dai sforzi per essere all’altezza: «La grandezza dell’uomo si chiama Cristo: Cristo è l ‘immagine dell’uomo, Cristo è l’uomo, e perciò la mia e la tua fisionomia si compiono nella misura in cui la Sua si compie in noi …..che si realizza nella pazienza»

«Il sacrificio è esattamente […]  il tenere fissi i nostri occhi “dov’è la vera gioia”, il tener fissi i nostri occhi al Padre, perché questo è imitare Cristo» (160).

«Allora qual è il problema numero uno, il problema primo per noi, da risolvere subito, perché non si può procrastinare neanche un istante? Ricominciare!». «Ricominciare! Il risorgere diventa ogni giorno, ogni ora e ogni momento possibile» (pp. 13-14, 19).

«Per ognuno di noi, essendo avvenuto questo incontro, deve accadere la grande novità in cui tutto lentamente, pazientemente, umilmente, ma inesorabilmente si organizza: tutto diventa un corpo, il suo: tutto acquista un significato, il Suo; tutto porta un nome, il Suo» (p. 46).

Questa è l a verifica da compiere ogni istante, come sottolinea don Giussani: «Vivere il momento: forse questa è la formula che racchiude più potentemente la capacità redentivo di Cristo, liberatrice dell’uomo, ciò che la comunione con Cristo fa realizzare. L’impeto di abbracciare il mondo caratterizza il cuore dell’uomo. Ma ciò avviene se uno vive il limite del momento. Se uno non abbraccia il mondo nell’istante piccolo e breve, nella contingenza del suo momento, non solo non abbraccerà mai il mondo, ma oblitererà, perderà di vista anche questo suo spazio del cuore e vivrà con il respiro di quello che sono sotto la tenda a ossigeno, anzi, che avrebbero bisogno di entrarci. Si abbraccia il mondo se uno vive il limite del suo momento» (p.65).

Questa novità assecondata non investe solo ogni istante, ma anche ogni rapporto, a cominciare dal rapporto uomo-donna, fino a quello con l’ultimo degli ultimi: «Da che cosa sarà determinato il loro rapporto? Dal fatto che sono due essere umani in cammino verso l’identico destino, amati e salvati dallo stesso Dio fatto uomo, da Gesù….» (p. 239).

C’è una clausola: «Che la nostra coscienza sia viva, che la nostra coscienza sia all’erta, che la nostra coscienza si muova, così che Egli ci cambi, che Egli ci muti, che cambi il volto e quindi il cuore di tutti i nostri rapporti» (p.110).

«Potrebbe essere così grande e nobile il nostro vivere quotidiano! Non l’occasione eccezionale, non le circostanze anormali, ma il nostro vivere quotidiano, perché ciò che non tocca l’istante non è redentore, ciò che non tocca l’istante banale non è veramente umano». (p.146).

Così diventa possibile fare esperienza di una liberazione, che passa attraverso la cosa più umana eppure più difficile a causa del nostro orgoglio, cioè il domandare.

«La vita, nella sua povertà coperta di stracci e piena di ferite, ma la vita che tende alla perfezione, al compimento, è l’uomo che domanda a Cristo» (p. 235).

Ma che cosa significa domandare Cristo nella nostra povertà?

Che Lui introduca in noi la «coscienza profonda e sempre più invadente che noi apparteniamo a qualcosa di più grande a cui possiamo dire “Padre”. Dobbiamo riconoscerlo nel nostro lavoro e nei nostri rapporti, così da far diventare il primo intenso e offerto, e i secondi pieni di misericordia e di carità» (p.128).

«La prima cosa che fa succedere in noi, la cosa fondamentale che deve far succedere in noi
Cristo come uomo, Cristo come modello della vita, come parametro, come criterio dell’agire è questa: la coscienza che noi siamo “di” qualcosa di più grande, siamo “del” Padre. Questo lo si intuisce bene quando uno capisce che tutta la Sua esistenza è “in funzione del Padre”, è “proprietà” del Padre, è “del “Padre
”» (p. 127).

«Il pensare al Padre, la coscienza del Padre dominava la coscienza di Cristo. Perciò se seguiamo Cristo, se siamo cristiani, il parametro del nostro agire è dominato e determinato sempre più dalla coscienza di questo qualcosa di più grande che chiamiamo timidamente “Padre”»(133).

Il Vangelo è pieno di fatti che documentano il rapporto costitutivo di Gesù con il Padre.

Oggi, come allora questa familiarità sembra impossibile, in un mondo che ha fatto della ragione umana la misura di tutte le cose.

«La nostra cultura ha perso la percezione di questa presenza concreta di Dio, della sua azione nel mondo. Pensiamo che Dio si trovi solo al di là, in un altro livello di realtà, separato dai nostri rapporti concreti. Ma se fosse così, se Dio fosse incapace di agire nel mondo, il suo amore non sarebbe veramente potente, veramente reale, e non sarebbe quindi neanche vero amore, capace di compiere la felicità che promette. Credere o non credere inLui sarebbe allora del tutto indifferente» (Francesco – Lumen fidei).

Così la nostra esistenza si gioca tutta davanti alla grande Presenza che è Cristo entrato nella vicenda umana.

Ed è “i” “problema dei problemi.

Questa è l’alternativa radicale «O amare Cristo, […] vivendo il limite del momento nel rapporto infinito[ … ]o altrimenti uno, nell’istante  effimero, ama se stesso e si corrompe, e l’effimero non ha più storia, non edifica, non genera, è inutile» (p. 66)

«Di fatto, esistenzialmente, stimiamo di più altro che non Cristo. Stimiamo di più la soddisfazione, stimiamo di più la certezza di avere soldi, stimiamo di più la salute, stimiamo di più la fama, stimiamo di più il potere, (anche in casa), stimiamo di più – pensate – il ruolo della comunità, che neanche Cristo, […]. La grande obiezione è che scegliamo di appartenere ad altro. […] Allora la coscienza dell’appartenenza a Cristo e al suo Corpo si blocca. Queste cose possono avvenire senza che uno se ne accorga» (p.104).

Quando vincono il timore e il cinismo, l’uomo perde la sua consistenza e si smarrisce nel groviglio delle circostanze e «la nostra diventa un’epoca di gente alienata. L’alternativa, perciò è tragica: o si ha come parametro Cristo o si ha come parametro quello che stabilisce il potere, con le categorie della cultura in voga» (p. 155).

«C’è una caratteristica sintomatica della nostra compagnia, della verità e della bontà della nostra Fraternità, ed è la gratuità del motivo ultimo: si può entrarvi per qualunque convenienza da cui ci si sia sentiti spinti, anche la più equivoca, ma non si può stare se non per uno scopo che è profondamente gratuito.

La gratuità del motivo ultimo è l’affermazione, nella contingenza, nel momento umano che viviamo, dell’ideale, cioè di Cristo. Si chiama gratuità l’affermazione di Cristo, perché l’affermazione di Cristo, la determinazione che Egli opera, nei limiti in cui lo lascia la nostra libertà, di ciò che viviamo, di ciò che facciamo, non entra nel calcolo di una convenienza puramente umana» (pag.99).

A questo livello Giussani colloca la convenienza umana della fede, che è al di là di ogni calcolo o misura definita dall’uomo e «stabilisce i rapporti tra gli uomini come fraternità» (162).

Perché la nostra vita riesca, non come successo, ma come verità, «quello che occorre è una grande semplicità del cuore. “Se non sarete come bambini…”

In questo modo potremo testimoniare che cosa vince quell’ombra terribile che incombe su di noi e sui nostri fratelli uomini: l’ombra del nulla.

«Quello che viviamo è veramente partecipazione a Dio perché vince il nulla del momento, delle circostanze: ciò che viviamo non ha bisogno di niente per essere grande, eccetto che del proprio rapporto con Cristo» (pp 88-89).

Solo così potremo sperimentare quel «centuplo» che Gesù ha indicato come prova della convenienza umana della fede in Lui.

Julian Carrón


Esercizi spirituali predicati da don Giussani

1° volume «Cristianesimo alla prova»

Titolo: UNA STRANA COMPAGNIA


2° «volume Cristianesimo alla prova»

Titolo: LA CONVENIENZA UMANA DELLA FEDE


3° «volume Cristianesimo alla prova»

Titolo: LA VERITÀ NASCE DALLA CARNE


4° volume «Cristianesimo alla prova»

Titolo: UN AVVENIMENTO NELLA VITA DELL’UOMO


5° volume «Cristianesimo alla prova»

Titolo: ATTRAVERSO LA COMPAGNIA DEI CREDENTI


6° volume «Cristianesimo alla prova»

Titolo: DARE LA VITA PER L’OPERA DI UN ALTRO