1989 – Esercizi di don Giussani: «Occorre soffrire perché la verità non si cristallizzi in dottrina»

1989 – Esercizi di don Giussani : «Occorre soffrire perché la verità non si cristallizzi in dottrina»


RICERCA per anno dei riassunti degli Esercizi di don Giussani

1982838485 868788899091929394 959697 9899


Titoli linkati ai vari momenti


Introduzione

(93) «Il Signore ha messo un seme» e «il nostro cuore non si è perduto».

C. Chieffo – “Il seme

Dobbiamo parlare delle stesse cose; quando ci ritroviamo tutti, una volta all’anno, di che cosa volete che abbiamo a parlare se non di quel rapporto che ci costituisce, che dà senso alla nostra vita, che si fa compagno alla nostra vita, che ci abilita a guardare, a sentire e a usare le cose in un modo così diverso – quando ne viviamo la memoria – che si crea una socialità diversa, nuova?

Si crea, a partire da quel seme, una trama di rapporti che, se ognuno di noi potesse, se avesse agio, sarebbe realmente un pezzettino di Paradiso in questo mondo, un riverbero del Paradiso in questo mondo.

Invece, quanto impotenza.

(94) Un certezza piena di comprensione, una intelligenza che penetra dentro il grande Mistero e, nello stesso tempo, un gioia, cioè un’affezione, perché la gioia è il massimo dell’affettività: ecco, è come se urgesse sempre più l’unità della nostra persona nella fede.

Il Signore ha posto un seme, che deve diventare grande: e la caratteristica di un seme che diventa pianta è proprio l’unità.

(95) «Attirami tutto al Tuo Amore. Fa’ Tu, o Cristo, quello che il mio cuore non può»; fammi vivere cioè questa intensità affettiva nell’aderire al vero e prima ancora questa acutezza nel percepire il vero, che io non sono capace di realizzare.

«Tu che mi fai chiedere, concedi!»

(96) Quando la persona è ben unita, quando avanza la comprensione della fede e si rende più densa l’affezione al suo contenuto, cioè a Cristo, allora quella che è chiamata gioia da san Paolo può essere definita più precisamente come speranza.

«Con la speranza [...] tutto può essere rifatto fino in fondo, fino all'anima dell'anima»

Mounier – Lettere sul dolore

La speranza mi dà la possibilità di rifare dal fondo, raggiunge l’anima dell’anima: è come se nessun residuo mi potesse tenere indietro.

L’unità della mia persona nella fede genera questa energia vincitrice del tempo e dello spazio, questa vittoria sulla vita, che è la speranza.

(97) Comunque sia, mi sono fatto questa obiezione: «Perché ci ripeti sempre queste cose? Con che diritto tu ripeti sempre queste cose?».

Noi parliamo alla vostra libertà, come la vostra presenza parla alla mia libertà.

La parola che ti dico la dico a me stesso, la dico alla tua libertà perché la dico alla mia.

«Noi non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia»

2Cor 1,24

Che bello non poter pretendere nulla – nulla! – da nessuno e poter dare tutto a tutti, per quello che siamo capaci, per dono di Dio e per gratuità della nostra libertà, per generosità della nostra libertà.

(98) [… ]La gioia è un sintomo, è un test che abbiamo compiuto il sacrificio bene: queste giornate devono aumentare la nostra gioia, la nostra persuasione e la gioia che è propria di chi riconosce il Signore, la gioia della Pasqua, la gioia del Cristo risorto.

«Pace in terra perché la volontà di Dio è benevola verso gli uomini».

Ecco la pace è la caratteristica del cuore di chi è figlio di Dio, di chi – con tutto il peso della sua povertà e anche della sua peccaminosità, è discepolo di Cristo.


Omelia

(99) Esistiamo perché Dio ci ama: tanto ci ama che è diventato compagno sul nostro cammino ed è morto per noi, dandoci l’esempio.

C'è soltanto quel seguirLo umile che si chiama domanda, la domanda di essere come Lui.

Che la carità diventi la dinamica della nostra vita!

(100) In questa carità, in questa imitazione di Cristo, in questo seguire Cristo, in questo amarLo, in questo cercare di imitarLo come il bambino fa con voi genitori, è implicato un ordine di cose, un ordine di condizioni e condizionamenti.

Nel suo insieme grandioso, questo ordine di condizionamenti, per amare e seguire e imitare Cristo, si chiama «Chiesa», che tradotta nella nostra contingenza si chiama «movimento».

Perciò non ci sarà più nulla di piccolo, di meschino, giudicato secondario, perché tutto deve incrementare questa vita che è rapporto col Mistero.


Chiamati a vivere nell’istante

(104) È nella notte del mondo – tutto è oscuro – che noi vegliamo, prendiamo coscienza di noi stessi e delle cose, siamo «attenti alla fede del mondo», perché in questa oscurità ili mondo brama la luce, è proteso alla venuta di Cristo, e per questo noi guardiamo verso la luce.

Nella nostra riflessione, che è come il vostro vegliare dentro la notte del mondo, questa mattina voglio sottolineare tre cose, a me stesso e a voi.


Punto

La prima è molto “antidemocratica”, perciò è molto contraria alla mentalità dominante: per indicarla posso usare la parola «elezione» ola parola «vocazione».

(105) «Io ti ho amato di un amore eterno, ti ho attratto all’essere, ti ho tratto a me, avendo pietà del tuo niente» (Ger 31,3).

«Senza di me non potete fare niente» (Gv 15,5).

Deve dominare il senso della propria creaturalità, dell’essere stati scelti a vivere, scelti a essere: non c’era alcuna ragione per cui io esistessi e non altri, infinitamente altri.

Nessun senso del mio essere peccatore è più grande dell’accorgermi di questa dimenticanza – la dimenticanza della mia dipendenza totale e originale.

(106) Questa parola, elezione, che proprio in questo senso è la più antidemocratica che ci sia, indica quella chiamata all’essere cui nessuno di noi ha il più piccolo e immaginabile piccolo diritto.

(107) Tutto il diritto sta nella volontà di Dio. Si chiama anche «vocazione» perché è chiamata all’essere per qualcosa, per un compito, per una missione.

Una dipendenza originale e totale.

(108) La nostra vita è eletta, tirata fuori dal niente, tirata fuori dalla banalità esecrabile o meschina, frammentata e corrotta di tutto e di tutti, momento per momento «per dare al Suo popolo la conoscenza della salvezza», e per dare al Suo popolo la remissione del male, «grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio» – mai la parola gratuità, gratuitamente, gratis, grazia è stata usata più appropriatamente.

«L’anima mia magnifica il Signore […] perché ha guardato l’umiltà della Sua serva».

Serva. Ecco elezione e vocazione: tratta dal niente, tratta dalla meschinità della banalità senza senso di tutti, per uno scopo.

(109) «D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata».

Noi in questo istante stiamo realizzando la profezia di quella ragazza di quattordici-quindici anni di duemila anni fa: «Tutte le generazioni mi chiameranno beata».

(110) Dunque abbiamo a far memoria due volte nella giornata, abbiamo da ricordarci per forza nel Benedictus e nel Magnificat, di questa iniziativa di elezione dal niente per una missione – vocazione -, e tutto in noi, diventa brivido di questo, altrimenti senza tono, come una realtà morta, senza vibrazione.

(111) Sei eletto, istante per istante, per una missione, per un compito.

Non c’è niente, nessuna realtà più evidente e più invadente tutta la capillarità del nostro essere di questo; che siamo tirati fuori dal nostro niente ora.

Andate a rileggere il decimo capitolo de il Senso Religioso, che è la cosa che mi sta più a cuore di quanto abbia mai pensato e detto, fatelo vostro.

Ne La bottega dell’orefice, Wojtila scrive: «Siamo accecati non tanto dalla forza del sentimento, quanto dalla mancanza di umiltà. È una mancanza di umiltà verso quello che dovrebbe essere l’amore nella sua vera essenza.»

(112) Ecco, abbiamo capito che cos’è il peccato originale.

Questo è il delitto che sta alla radice del cuore dell’uomo, delitto libero […] una mancanza di amore.

Altro che istintività! È una mancanza contro l’amore nella sua vera essenza.

Ma che cos’è l’amore nella sua vera essenza?

Nella sua essenza l'amore è una "reazione", per così dire, una capacità che viene dal riconoscimento, dalla scoperta di essere amati, dalla scoperta accettata dell'essere amati.

(113) Perché noi non siamo Dio, non siamo l’Essere, la sorgente dell’amore.

Deus caritas est, Dio è amore.

L’amore è l’Infinito: noi creature, solo se prendiamo coscienza di essere volute, di essere amate, allora incominciamo a poter amare.

(114) L’uomo può amare solo se riconosce d’essere amato.

L’io sta e agisce solo se ha davanti un tu, per un tu.


Punto 2°

1990 di comunione e liberazionevolantone di pasqua
volantone di pasqua 1990 – come il moralismo può sostituire la Presenza e quindi la morale (ingrandisci)

(115) L’uomo può fare quello che vuole, ma «la realtà è Cristo».

Come aveva ragione sant’Agostino a dire, e dovrebbe essere ripetuta in tutte le parrocchie del mondo: «Questa è l’orrenda radice del vostro errore: voi pretendete di far consistere il dono di Cristo nel suo esempio» – cioè ridurre il cristianesimo a morale – «mentre quel dono è la persona stessa».

C’è una realtà che si rende udibile e visibile attraverso la nostra compagnia – la quale riecheggia in sé la parola del magistero, del magistero come tale, e del mistero della Chiesa diffusa in tutto il mondo -, c’è una realtà che penetra il tempo, creando un flusso, un popolo che non avrà mai fine, a cui tutti gli uomini sono chiamati, c’è una realtà che è Dio fatto uomo.

Ciò che ha fatto tutte le cose si è identificato con la precarietà di una carne.

Ciò per cui l’uomo è fatto è questo Uomo che è tra noi.

(116) Tutte le missione, tutte le vocazioni, tutta la elezione dal niente che Dio fa hanno come centro e scopo questo: Cristo.

Giovanni Paolo II dice: è «Cristo Redentore [….] [che] rivela l’uomo all’uomo stesso».

Per ritrovare tua moglie e tuo marito, per ritrovare i tuoi bambini, per ritrovare i compagni come amici, per ritrovare gli uomini, per ritrovare l’utilità del lavoro, per ritrovare la densità e non la delusività del tempo, per evitare il cinismo e l’illusività di tutto, per evitare il niente ti occorre Cristo: tutto è in funzione di Lui, non di un Dio astratto, del Dio misterioso e lontano, ma del Dio che si è fatto uomo.

(117) Procuriamo che le attività della vita, dalla famiglia al lavoro, dai giochi alla politica, non creino in noi o troppa ansietà o troppa presunzione – «sino al punto da annullare l’impegno di conformarci al nostro Redentore» (Leone Magno «Discorso 15 sulla passione del Signore»).

Conformarsi al nostro Redentore è guardarlo, è vivere, come diciamo noi, la memoria, che è coscienza di una Presenza, della presenza di Uno che è incominciato nel passato, nel passato ultimo e nell’eterno, e nel passato storico di duemila anni fa,, ed è presente.

Dunque, che le attività della vita non creino in noi troppa ansietà o troppa presunzione da dimenticarlo.

Questo è il primo errore, dimenticarlo.

(118) Questa seconda cosa che stiamo dicendo – vale a dire ciò per cui siamo stati eletti e fatti è Cristo – ha un risvolto, ha un solo corollario importante, questo: «Se qualcuno manca di sapienza, la domandi».

L’espressione tipica dell’uomo cosciente è la domanda, ricchezza del povero.

(119) La domanda non può farla che un animo umile.

La virtù più adeguata, più definitiva dell’uomo, dell’uomo che era niente ed è diventato terra, polvere, è l‘umiltà, che deriva da humus, che vuol dire «terra».

(120) L’umiltà è la condizione che diminuisce al massimo gli attriti, di qualsiasi genere: con Dio, con se stessi, con la moglie, con i figli, con gli amici, con tutti.


Punto 3°

volantone di pasqua 1989 stampato da Comunione e Liberazione
volantone di Pasqua 1989 – Occorre soffrire perchè la verità non si cristallizzi in dottrina (ingrandisci)

(121) «È dalla terra, dalla solidità che deriva necessariamente un parto pieno di gioia e il sentimento paziente dell’opera che cresce» «Occorre soffrire perché la verità non si cristallizzi in dottrina»

(122) Occorre soffrire, occorre aderire alla modalità con cui questa Presenza è tra noi: è risorto perché è morto; è morto, ed è risorto, attraversando la morte.

Fà che noi, che abbiamo saputo attraverso l’angelo l’Incarnazione del Figlio tuo Gesù Cristo, per la sua morte e risurrezione siamo portati all’esperienza della sua gloria: l’esperienza della sua gloria è è proprio la trasformazione della vita, il cambiamento della vita e del mondo.

Aderire a Cristo significa che Egli sia fatto penetrare nella nostra carne, cioè che noi abbiamo a guardare, a concepire, a sentire, a giudicare e valutare, a cercare di trattare noi stessi e le cose, con la memoria di questa Presenza, con negli occhi questa Presenza.

(123) Forse potremmo individuare quattro punti, che segnano il cambiamento che, nelle nostre cose, viene generato dalla fede.


A

Dalla banalità delle cose quotidiane[…] alla apparente dignità delle cose importanti, cambiare significa che la banalità apparente non è più banalità e l’apparente dignità non è dignità, le cose solite non sono solite e le cose importanti non sono importanti.

Si chiama offerta questo gesto che deriva dalla coscienza della Sua presenza, della Tua presenza, o Cristo.

L’offerta genera una insublimazione, genera il sentimento del sublime come una cosa abituale.

(124) Sentiamo la voce della liturgia. L’eterno è la verità del presente, dell’apparente «Tu doni alla Chiesa di Cristo di celebrare i misteri ineffabili nei quali la nostra esiguità di creature mortali si insublima in un rapporto eterno e la nostra esistenza nel tempo comincia a fiorire nella vita senza fine».

«Così, seguendo la Tua presenza d’amore, l’uomo trascorre da una condizione di morte» – perché tutto è labile, tutto morirebbe – «a una condizione di salvezza».

È la coscienza con cui dobbiamo aiutarci a vivere.

Questo è l’uomo nuovo, il protagonista nuovo della storia, come ha detto il Sinodo, è il battezzato, è l’uomo afferrato da Cristo.

Per questo non ci possono capire, ci debbono odiare.

(125) Innanzitutto, quindi, l’offerta, che rende sublime la vita.

Il sublime è il rapporto con l’infinito, cioè il rapporto con Cristo, perché l’infinito è un Uomo, a cui una donna ha baciato i piedi lavandoli con le sue lacrime, che è tangibile, udibile adesso, in una forma in cui si possono ancora paciare i piedi.

B

(126) La Sua presenza, la memoria di Cristo – per la quale siamo stati eletti e chiamati – ci costringe a una lealtà con gli scopi immediati dell’azione.

Momento per momento, attraverso i condizionamenti della vita, le condizioni, essa ci provoca all’azione.

Si produce una lealtà con gli scopi immanenti all’azione, scoppia un gusto del lavoro che non si può conoscere altrimenti.

Si chiama moralità.

Questa è la moralità: se viene la grazia, cioè la Sua presenza, la legge non è tolta, ma è resa finalmente possibile, godibile.

C

In ogni azione scaturisce, zampilla una sorgente per la vita eterna: si chiama gratuità.

(127) Il gratuito è ciò che non si può ricondurre a una “recriminazione”, a un calcolo.

Come diceva Péguy, quel che è grande «è di andare poveramente» – senza presunzione – «nella piccola processione dei giorni ordinari, Grande per la salvezza», che è Cristo.

Che il rapporto uomo-donna sia per la gloria di Cristo, che questo penetri dentro come fattore determinante, nel senso dell’aria che si respira, è la gratuità.

La sublimità è l'essere grande dell'azione, la gratuità è il riverbero psicologico e affettivo di questa sublimità.

La gratuità, insomma, è la dove il calcolo non può dire tutto, nessun calcolo può dire tutto, anzi, dice sempre di meno.

D

(128) Ricapitolando: innanzitutto l’offerta che rende sublime l’azione; poi la moralità, cioè la lealtà con gli scopi immanenti all’azione; in terzo luogo, la gratuità come affezione al regno di Cristo, che è la Chiesa e che è il movimento, in tutto quello che si fa.

E diciamo ora, quarto, nel sacrificio: croce e resurrezione.

È nel sacrificio che la verità non resta dottrina cristallizzata, ma nasce dalla carne.

Cristo deve nascere dalla carne sempre! È nato nella carne, Dio.

È una vita cambiata.

Non per nulla si chiama metànoia; un cambiamento totale di immagine, come percezione, come concezione, come sentimento.


C’è una parola, però, che somma questi quattro punti.

Perché nel sacrificio la verità nasca dalla carne, perché Cristo entri nel mondo di oggi attraverso noi, il nostro tempo e il nostro spazio, la nostra vita, noi, membri Suoi, occorre che la dinamica della vita sia obbedienza.

(129) È esattamente questa la grande regola: «Fatto obbediente fino alla morte» (Fil 2,8), alla morte del proprio modo di pensare, di sentire; il contrario del “ciò che pare e piace”, grande regola del mondo. Obbedire! Obbedire!

Il sacrificio si identifica con l'obbedienza.

L’obbedienza è infatti quel principio di azione che supera la propria misura e la propria volontà, cioè il proprio criterio e la propria affettività; è un criterio di conoscenza, di affezione e di azione che supera, cioè distacca, stacca dal proprio criterio e dalla propria affezione, dalla propria misura e dalla propria volontà.

L’obbedienza non può che essere a una persona presente e viva: «Ti obbedisco».

Voglio dire che questo modo di pensare è destinato a incidere nella storia, nel senso letterale del termine.

(130) Lo documenta un brano di MacIntyre citato in un articolo de «Il Sabato»:

«Un punto di svolta decisivo nella storia più antica si ebbe quando uomini e donne di buona volontà si distolsero dal compito di puntellare l’imperium romano e smisero di identificare la continuazione della civiltà e della comunità morale con la conservazione di tale imperium. Il compito che essi si prefissero fu la costruzione di nuove forme di comunità entro cui la vita morale potesse essere sostenuta, in modo che sia la civiltà sia la morale avessero la possibilità di sopravvivere all’epoca incipiente di barbarie e oscurità […] Dovremmo concludere che da qualche tempo anche noi abbiamo raggiunto questo punto di svolta.

Ciò che conta […] è la costruzione di forme locali di comunità al cui interno la civiltà e la vita m orale e intellettuale possano essere conservate attraverso i nuovi secoli oscuri che già incombono su di noi».

A.MacInyre – Dopo la virtù. Saggio di teoria morale

È un compito storico quello che noi abbiamo, proprio come compagnia, come famiglia, tu, i tuoi amici, la tua comunità, la tua Fraternità, la nostra grande Fraternità benedetta dalla Chiesa, grazie a Dio e grazie a coloro che ci hanno voluto bene.

(131) Guarda, Dio onnipotente, l’umanità sfinita per la sua debolezza mortale e fà che riprenda vita per il sacrificio di noi, che siamo parte del Tuo Figlio.


La risposta all’amore ricevuto

Punto

(132) In quello che abbiamo evocato stamattina, la nostra situazione qual’è?

Quello che emerge, come tempesta vincente, è la nostra incapacità.

Alla nostra incapacità ha risposto Dio: l’amore dato è in risposta alla nostra incapacità fondamentale, che è il nulla.

Alla nostra incapacità esistenziale, che è il peccato d’origine, che è questa originale e tremenda divisione, al male immenso della storia, alla menzogna della storia, ha risposto l’amore di Dio.

La nostra incapacità è vera, ma la risposta non è nostra: la nostra è una risposta a una risposta, è la nostra risposta alla risposta di Dio che Dio dà alla nostra incapacità.

(133) «In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: che Dio ha mandato il suo Figlio unigenito a morire per noi».

(134) Dalla situazione della nostra incapacità, per il fatto che Dio vi si imbatte, vi penetra dentro, la investe e la traduce in positività, nasce una strana posizione, una posizione sconvolgente la logica di una giustizia fatta con le nostre mani.

È una posizione sconvolgente ogni moralismo.

(135) Quando Gesù gli ( a Pietro) domanda la prima volta: «Simone di Giovanni, mi vuoi bene tu “più di costoro”?».

Proviamo a immedesimarci nell’animo di quell’uomo schietto e rude: davanti al Signore aveva l’anima tutta piena del ricordo del suo tradimento.

Il suo tradimento era però semplicemente l’epifania, l’epifenomeno, il manifestarsi, in un momento di qualcosa che aveva dentro, cioè di una ruvidità, di una ingenerosità, di una caparbietà, di una paura, di una timidezza, di una vigliaccheria, di una meschinità che era lui.

(136) Il tradimento era come una punta rivelatrice: veniva a galla la sua miseria, tutta la sua miseria.

«Signore, tu sai tutto: nonostante tutte queste apparenze, nonostante tutte le apparenze di me a me stesso, tu sai che ti voglio bene, che “ti” voglio», perché «ti voglio bene» vuol dire «Ti affermo, riconosco quel che sei per me e per tutti» -, questo è stato lo sconvolgimento del moralismo e della giustizia fatta con le nostre mani.

Allora il Signore gli disse: « Ti affido la testimonianza mia nel mondo»

Ha affidato la testimonianza Sua, ha affidato il Suo regno nel mondo a quel meschino peccatore.

(137) Allora Cristo mi dice: «Sì, affido a te la mia testimonianza nel mondo, e guarda che non si svolgerà come pensi tu, non come puoi immaginare tu».

È questa dunque la strana posizione: la questione non è la perfezione misurabile della nostra esistenza, non è una corrispondenza a delle leggi a degli ideali, ma è il riconoscere la Sua presenza per quello che è, il riconoscerLa nel fondo del cuore.

(138) Una incapacità di fronte a tutto di fronte a tutto ciò che abbiamo detto stamattina; ma è una incapacità che Dio penetra e travolge, salvandoci dall’ira, dalla illusorietà, dalla menzogna, dalla negatività dell’esistenza.

Ecco allora la strana posizione: io non mi posso vantare di niente.

Fratello e amico, non puoi vantarti di niente.

Se il valore dell’esistere è la gloria di Cristo, è l’affermazione del Mistero, non puoi vantarti di niente.


Punto

(139) Vediamo adesso la dinamica che può investire e trasformare questa situazione.

«Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che ha amato me e dato se stesso per me» (Gal 2,30).

Romano Guardini: «Nell’esperienza di un grande amore […], tutto ciò che accade diventa avvenimento nel suo ambito».

(140) È provvisorio, nell’esperienza di un grande amore: con Cristo no.

Si tratta di un soggetto nuovo che implica una identificazione con Cristo, in cui non diventa più obiezione la mia miseria: mai la mia miseria incomincia ad essere così consapevole di sé, così vergognosa di sé, a farmi diventare così timido di fronte a tutto, a farmi venire la tentazione quasi della disperazione, come quando debbo rispondere alla domanda: «Mi ami tu?».

Ma sono costretto a dire: «Sì Ti riconosco!».

Tutta la mia miseria non definisce più il nostro soggetto.

Ecco allora che questo soggetto si muove, agisce, ma con una ragione, con un movente ben preciso: ciò che lo muove ultimamente è una imitazione, non è un tornaconto, non è un calcolo.

(141) Ciò che muove il “soggetto Gesù” è l’imitazione del Padre, il Suo è il riverbero dell’amore di un Altro.

Quanto più vivo la memoria di questa Presenza, tanto più il mio agire, l’agire del mio soggetto ha come movente l’imitazione Sua.

Si chiama carità, e la carità è solo questo.

«[..] E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo alle fiamme per essere bruciato, ma non avessi la carità, niente mi gioverebbe

1 Cor 13,1-3

Ma che cos’è ciò senza cui anche il dare la vita sarebbe inutile, anche il possedere tutto, il governare e rendere ordinato tutto, come il protagonista de Il padrone del mondo, sarebbe niente?

(142) La carità è il rapporto che il mio soggetto stabilisce per imitazione di Cristo.

Vale a dire, il mio soggetto stabilisce e vive i rapporti per il movente stesso per cui Cristo si muove: è l’amore all’uomo, riverbero di quell’amore del Padre che ha evocato dal nulla gli uomini e che, attraverso una storia, li sta salvando.

Per questo l’unica giustizia è l’amare.

Ma c’è una sorgente di questo motivo.

Ecco questa è la purità della carità, che è stabilire e vivere i rapporti guardando a quello che è Cristo per gli uomini, guardando a quello che ha fatto Cristo, guardando a quello che il Mistero ha rivelato, ha riverberato in quell’uomo in cui si è incarnato.

La legge dell’essere, insomma, l’agire in questo modo, pur dentro tutta la montagna dei nostri errori e delle nostre scorie, non è da noi.

(143) «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato»: questa è la sorgente.

Il soggetto che è mosso da quella imitazione – come il bambino guarda suo padre e sua madre – è così mosso perché, dal profondo di sé, dove s’innesta il Mistero creatore, lo Spirito di Cristo lo investe.

(145) C’è un punto drammatico che non si può togliere: si chiama libertà.

(146) La libertà, infatti, agisce sempre nell’assoluta, e imprecisabile discrezione.

Egli ci ha dato sé stesso e ci h a dato di essere noi stessi davanti a Lui, per cui nessuno si salva se non lo vuole, se non vuole essere salvato.

Qui si gioca la libertà dell’uomo.

«[…] la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque, infatti, fa il male, odia la luce, e non viene alla luce, perché non siano svelate le sue opere. Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte da Dio»(cioè nella verità).

Gv 3,16-21

(147) Se uno domanda, se uno anche tacitamente domanda, se uno spalanca l’occhio del cuore, è perché le sue opere vengano alla luce; e la via di Dio può sembrare lunga, lunga fino all’ultimo, magari, ma quello è salvato.


Punto

In terzo luogo voglio parlare dell’itinerario dello Spirito.

Abbiamo visto dapprima la situazione, poi lo svolgimento, la dinamica che può investire questa situazione: Spirito e libertà.

«L’amore di Cristo ci strugge, al pensiero che […] se uno è morto per tutti, è morto affinché tutti non vivano più per sé stessi, ma per colui che è morto e resuscitato per loro».

2Cor 5,14-15

È la legge, questa è la legge della vita per l’uomo eletto a conoscere Cristo.

L’itinerario dello Spirito è, dunque, uno struggimento per la gloria di Cristo, perché Cristo sia conosciuto, per far capire Cristo.

(148) L’unico modo per testimoniare Cristo è la carità.

Non sarà mai una dottrina schematizzata, come dice la frase di Mounier.

Il segno quindi del cristiano, dell’uomo che riconosce Cristo, è l’amore scambievole.

A

(149) Innanzitutto l’amore è personale, nel senso che il suo oggetto è proprio la persona; non una ideologia sulla povertà, ma il povero, questo povero.

L’amore è un rapporto personale. E se il traguardo è la persona dell’altro, le persone sono prese nella loro concretezza: Cristo ama l’uomo, il singolo uomo, uno su quattro miliardi di persone, tu.

Ecco, allora occorre vivere quella grande parola che è in uso nel nostro movimento: condivisione.

Occorre perciò condivisione del bisogno, dell’esigenza.

Questa prima condizione è importante: tutto ciò che viene generalizzato, genericizzato, cessa di essere carità.

Il rapporto con una persona è sempre un incontro.

Ma se una persona è una trama di bisogni e di esigenze, il rapporto con una persona è l’incontro con un bisogno e con una esigenza.

Questa è la condivisione.

B

(150) Seconda condizione: per essere tali, incontro e condivisione devono essere costruttivi nel tempo.

Anche per il sacerdote, per il levita, fu un incontro con il bisogno di un “povero cristo” che stava morendo, ma solo per il samaritano fu vero incontro costruttivo nel tempo.

C

La carità è di una concretezza assoluta. […] però la concretezza fino all’ultimo è propria dell’amare, è propria della carità.

(151) «L’errore consiste nella incapacità di valutare l’importanza del movente, vale a dire della situazione concreta quale strumento di espressione della personalità, solo in rapporto alla quale l’attore diventa vivo».

Ch. N. Cochrane – Cristianesimo e cultura classica

L’attore – il soggetto umano – diventa vivo; solo in rapporto alla situazione concreta, altrimenti non diventa vivo; fuori dalla situazione resta astratto, nonostante tutte le sue buone intenzioni.

«In tale situazione, il complemento della persona è l’evento»

N. Cochrane – Cristianesimo e cultura classica

Ma questo è Dio con noi!

Il cristianesimo non è un insieme di regoli morali, un insieme di riti, un insieme di dottrine, ma un evento, un avvenimento – come una persona che trovo seduta qui al mio fianco: «Chi sei?»

(152) Quelle che ho chiamate “condizioni” sono le conseguenze dell’amore a Cristo.

E l’amore a Cristo non è là dove uno è perfetto, ma dove uno ne fa memoria, lo ricorda e dice: «Vieni, Signore!».

Non sai come venga, non sai come si espliciterà dentro quello che vivi, ma viene.

D

Un’altra caratteristica conseguenza è che l’amore, oltre ad essere personale – condivisione -, costruttivo nel tempo, lealissimo con le condizioni concrete fin nelle sfumature, è lieto.

Lieto: questo è proprio il sintomo più cristiano che esista.

E

Un’altra condizione, o conseguenza, è l’assenza della contraffazione, della menzogna, che è il capovolgimento dell’amore: invece che «io amo», «io affermo me stesso».

(153) «Non dobbiamo desiderare che esistano disgraziati per permetterci di compiere opere di misericordia; meglio non aver bisogno di dare pane agli affamati e di vestire ignudi», il contrario di certo teologismo post conciliare.

«Più autentico è l’amore che dai a un essere che non puoi in alcun modo aiutare […] giacché quando aiuti un povero, desideri forse elevarti davanti a lui e ai tuoi occhi occhi e che egli stia sotto di te. Desidera, invece, che sia tuo uguale».

F

Ma questo, amici miei vale anche – ed è un’altra conseguenza – rispetto a ciò che chiamerei «la cura del più debole».

Innanzitutto i più deboli sono i bambini.

«Guai a chi dà scandalo al più piccolo di questi bambini. Sarebbe meglio per lui che si legasse una macina da mulino al collo e si gettasse nel profondo del mare» (Mt 18,6)

Come si può far male a un bambino?

[…] parlava dello scandalo, del fare del male morale a un bambino: a questo chi ci pensa veramente?

(154) Mi diceva una mamma: «Guai a farsi sentire dai bambini a parlar male degli altri, a usare una certa ironia».

«Al bambino bisogna portare un rispetto assoluto».

È quello che si osservava nel brano che mi è stato affidato: «Desidera che sia tuo uguale».

Quando l’uomo è più indifeso nella sua vita? Quando sbaglia – i peccatori – quando sbaglia o non sa di sbagliare.

La cura del più debole: bambini e indifesi, soprattutto chi ha sbagliato.

Guardiamo Cristo: i suoi prediletti erano peccatori.

«Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato». (1cor 1,26-29)

(155) Un traditore, una donna di strada, della povera gente ignorante: si è servito di questi per arrivare a noi, per arrivare fino al nostro cuore.

G

Ecco l’ultima conseguenza, l’ultima condizione […] che è il più importante di tutti: il perdono.

Il perdono è proprio il diventare fisicamente sensibile, affettivamente sperimentabile della perfezione di Dio, di questa positività senza limite che è il mare dell’Essere, vincendo nel bene anche il male.

Il perdono è il veicolo a questo Essere, a questa vita, a questa pace, a questa giustizia, all’amore: amore e perdono sono la stessa croce e la stessa risurrezione.


Omelia

(157) La parola di Dio è come una sorgente sempre ricchissima e ogni anche apparentemente insignificanti.

«E noi siamo il suo popolo».

Per questo Egli, il Signore, usa di noi, suo popolo: dove non è concepibile il popolo senza di me e non sono concepibile io senza popolo.

Nessuno è astraibile da quella comunionalità o da quella unità profonda che tutti abbiamo nel Signore, in Cristo.

Siamo usati secondo la nostra ricchezza originale, secondo la misura della grazia che ci è stata data.

Il Signore chiede la testimonianza di tutto ciò che Egli ha dato ai «suoi».

(158) Perciò dice a noi, come ha detto ai suoi primi apostoli: «Andate e testimoniatemi fino agli estremi confini della terra».

La nostra vita allora è stranamente squassata, bellamente squassata: pur nella piccolezza del suo agire quotidiano, ognuno di noi abbraccia – perché gli strugge il cuore l’amore di Cristo – tutto il mondo, così che sentiamo pesare sul nostro piccolo atto la responsabilità di tutta quanta la storia, secondo il mistero di Dio.

Perciò abbiamo una grande confidenza: la parola fede, la fortezza della fede, cui accenna san Paolo, è la capacità stupefacente del bambino di affidarsi al padre e alla madre, a chi lo ha generato, a chi lo genera.

Così è per noi, bambini nelle mani del Padre, seguaci di Cristo.

Quella confidenza si concreta, nel nostro rapporto con Cristo, in una drammaticità, se non in una tragedia quotidiana, dove l’aspetto più acuto, più doloroso non è che il mondo ci odi, ma che nel nostro cuore abbiamo ancora a trovare resistenze a te, o Cristo.


Avvisi

(159) Io voglio ringraziare ancora di tutto cuore il direttore, i solisti e tutto il coro: come avete sentito oggi, la loro prestazione è proprio carità verso Cristo.

La carità verso Cristo si coniuga con il loro gusto del canto; perché si identifica, Cristo, con il particolare umano, con la precarietà della carne.

Insisto nell’affermare che il servizio del coro è la cosa più bella e più importante – specialmente se si sviluppa come contenuti – per una comunità: perché il canto è vita, è il linguaggio del Paradiso.


La nostra strada

(161) Ricordo velocemente solo alcune cose che mi premono, discusse e approfondite insieme all’Esecutivo della Fraternità, in attesa che la Diaconia centrale, […] si raccolga.

A

(162) Innanzitutto, lo scopo della Fraternità coincide con lo scopo del movimento: non si possono dividere.

(163) Ho sottolineato lo scopo del movimento e quello della fraternità: il movimento, la Fraternità ha come ideale la dedizione di tutta la vita a Cristo.

È questo il cuore del messaggio cristiano.

Dio è venuto tra noi e dunque tutto è centrato su Cristo, è «per», è «in funzione» di Lui.

Coloro che si dedicano a Dio nella vita di verginità, proprio come forma di vita, sono tra noi non perché abbiano scopi particolari, ma perché come forma di vita richiamino tutti all’unico scopo di dedizione che ci accumuna, ci affratella: lo scopo di dedizione a Cristo.

Ma se il Signore è venuto tra noi, che tutto giri intorno a Lui non è una esagerazione pietistica, non è spiritualismo integrista, non è un massimalismo di umore religioso: Cristo è la più grande cosa della nostra vita.

(164) La Fraternità sarà il luogo dove sei aiutato a vivere la spiritualità del movimento, l’esperienza cristiana della fede come l’hai incontrata.

B

Il carisma è la modalità con cui lo Spirito ti raggiunge, usando un tempo e uno spazio precisi, un temperamento e una storia precisi, una persona precisa, in un incontro.

Si chiama carisma la modalità con cui lo Spirito mi raggiunge persuasivamente.

Un movimento nasce da questa identificazione del Signore e della Sua presenza con una precarietà, in sé fragile: eppure lol Spirito sceglie quella e passa attraverso quella.

(164) Il carisma, per affinità, si comunica a chi lo incontra.

Il luogo dove Cristo è riconosciuto, vissuto e amato è la Chiesa; ma la Chiesa vive dove tu vivi, tocca quello che tu pensi, senti.

La Chiesa mantiene l’oggettività della sua proposta, ottiene da te la verità di una obbedienza, che è il supremo atteggiamento di virtù, attraverso una compagnia più stretta, come per il bambino.

Per i vostri bambini, la famiglia è il primo movimento, e i caratteri del papà e della mamma incidono sulla modalità con cui la fede viene comunicata.

C

Ci sono due regole fondamentali perché il carisma sia vissuto con una obbedienza che lo renda movimento capace di comunicare la memoria di Cristo e di testimoniarLo.

Innanzitutto l’unità come riferimento, reale e determinante, al punto originale.

(166) O l’obbedienza, o l’interpretazione.

Nell’obbedienza affermi qualcosa che hai incontrato, più grande di te.

Nella interpretazione non hai nient’altro che affermare te stesso nella tua misura, cioè nella tua limitazione e nei tuoi difetti.

L’obbedienza fa fiorire davanti a una Presenza più grande.

L’interpretazione tende a ridurre, a ricondurre anche la presenza più generosa e grande, più nobile e ricca, alla propria misura mentale, a quel che ti pare e piace; e allora non c’è più cammino, ci sono soltanto – come ridiremo dopo – discussione, parole, presunzione e divisione.

La seconda caratteristica del movimento che nasce da un carisma è la libertà.

Libertà che è responsabilità personale, piena di intelligenza e di cuore, nell’aderire al fatto che ci è stato offerto, nell’aderire alla grande Presenza.

Dunque, unità e libertà.

D

La Fraternità di realizza concretamente nei vari gruppi.

Che un gruppo sia un aiuto alla carità fraterna, vuol dire che deve favorire una trama di rapporti, di attenzioni, di sacrifici per aiuti personali.

Il gruppo è là dove si instaura una attenzione vicendevole.

(167) Si può avere più cuore nel mangiare insieme, che neanche in un eterno discutere che spacca o che cerca di spaccare il capello in tre o in quattro.

Un aiuto alla carità fraterna: il gruppo è un rapporto in cui si esplicita la carità fraterna: il gruppo è un rapporto in cui si esplica la carità fraterna, più che una riunione o – peggio – una interpretazione e un giudizio propri sul movimento e su quel che fa.

E

Da ultimo, ricordo che l’opera della Fraternità è il movimento.

E così ritorno alla prima osservazione:

la Fraternità è l’espressione più matura di quella esperienza di vita di fede che si chiama movimento.

(168) L’edificazione del movimento deve essere una passione profonda per noi.

L’edificazione del movimento è, infatti, il dilatarsi della testimonianza a Cristo.

Altrimenti c’è sempre il rischio di ridefinire i limiti del conveniente e del giusto, continuamente richiudendo un cerchio.

(169) Non è la consacrazione della perfezione di ogni gesto: è una modalità profonda che anima ogni atteggiamento e perciò rende facilmente correggibile.

(Don Giussani legge una lettera): «Ci sono persone che riducono L’esperienza movimento a un discorso dal quale, da una parte si prende liberamente quello che interessa e, dall’altra, che si contesta anche apertamente per ciò su cui non sono d’accordo».

No! Non è obbedienza e non è edificazione: se il Signore ci mette insieme e ci mette insieme in tanti, è perché tutti abbiamo ad aiutarci.

(170) L’obbedienza è al centro della questione, è all’origine, è là dove il Signore mette la fonte di quello che ci unisce.

Fuori dal rapporto con chi, in modo libero e cosciente, ha risposto all’iniziativa dello Spirito di Cristo in lui e fuori dal rapporto con tutto quello che si è generato, la memoria di ciò che è accaduto non reggerebbe l’urto del tempo.

È nell’obbedienza che uno diventa sempre più se stesso, e l’obbedienza è riferimento al punto originale, anche «letteralmente», tenendo ben presenti le lettere che vi si scrivono, gli esercizi spirituali, le pagine su cui fate il Raduno regionale o il Ritiro mensile.

(171) «Al nostro raduno concorde/un Ospite nuovo s’aggiunga : / confermi la debole fede / mostrando le piaghe gloriose», Il segno della Sua identificazione con la circostanza umana più brutta, il dolore e la morte; «confermi la debole fede» anche attraverso quelle piaghe gloriose, che sono le nostre compagnie.

Vale per te per tua moglie, per te e per tuo marito: «un Ospite nuovo» s’aggiunga a voi due, «Confermi la debole fede» di ognuno, «mostrandole piaghe gloriose», cioè attraverso un abbraccio doloroso o faticoso, sostenuto e vissuto perché è riconosciuta questa Sua presenza, la presenza di quest’Ospite nuovo.

Così è per i nostri gruppi e per tutta la Fraternità.

Avvisi

Io mi permetto di ricordarvi il fondo comune, l’offerta del fondo comune, è ciò da cui deriviamo tutte le nostre possibilità, che si stanno, grazie a Dio, aggravando.

Mi sono permesso di intervenire perché l’offerta mensile deve avere il sapore di una realizzazione della virtù della povertà.

Ho detto nella mia lettera che questa povertà non ha un senso diverso da quella di coloro che prendono i voti religiosi o dei Memores Domini, che infatti richiama ciò che tutti sono chiamati a vivere.

Fosse cinquecento lire il sacrificio che uno può fare al mese, lo faccia con regolarità e per generosità verso Cristo.

Voglio sottolineare il calore di povertà per cui è stato pensato il fondo comune: non è una colletta, è proprio un esercizio della virtù della povertà, un ricordare a me stesso questo distacco profondo dalle cose, che è l’unica strada per possedere, imitare Cristo, e quindi per possedere di più la vita.


Esercizi spirituali predicati da don Giussani

1° volume «Cristianesimo alla prova»

Titolo: UNA STRANA COMPAGNIA


2° «volume Cristianesimo alla prova»

Titolo: LA CONVENIENZA UMANA DELLA FEDE


3° «volume Cristianesimo alla prova»

Titolo: LA VERITÀ NASCE DALLA CARNE


4° volume «Cristianesimo alla prova»

Titolo: UN AVVENIMENTO NELLA VITA DELL’UOMO


5° volume «Cristianesimo alla prova»

Titolo: ATTRAVERSO LA COMPAGNIA DEI CREDENTI


6° volume «Cristianesimo alla prova»

Titolo: DARE LA VITA PER L’OPERA DI UN ALTRO