
Prima presentazione in spagnolo del libro di Mikel Azurmendi il 18 di novembre 2018 con Fernando de Haro moderatore a Madrid.
Premessa: ho desiderato trascrivere questa prima conferenza di presentazione perché troppo densa per esaurirsi in una visione, troppo ricca di spunti da perderla, troppo chiarificatrice della personalità vulcanica e del percorso umano e culturale di Mikel Azurmendi.
Mikel si presenta per quello che è e non dà mai una risposta in poche parole: prima descrive sempre il suo percorso culturale e poi risponde.
A volte possono sembrare divagazioni noiose per chi attende una risposta secca ed immediata, ma in realtà, in quel percorso, rintracciamo facilmente i filtri culturali che fermano la visione anche nostra della realtà, che la fanno sparire o la deformano a nostro uso e consumo.
Averla davanti in forma scritta permette di fermarsi senza rincorrere chi sta parlando.
Per chi volesse approfondire con calma, stamparlo, fare delle note a parte ecc— è disponibile in Pdf: basta richiederlo a felino.tassi@gmail.com

Fernando de Haro – moderatore
Buona sera e benvenuti alla presentazione dell’ultimo libro di Mikel Azurmendi “El abrazo”.
Quest’ultimo libro di Mikel(parlo da lettore) mi sembra sia un libro provocatorio.
Mikel Azurmendi,, sociologo, filosofo, con tutto il suo patrimonio, le sue conoscenze, con tutta la sua capacità di interpretazione, con tutta la sua capacità di guardare, compie un esercizio particolare, provocatorio, di osservazione, compie un viaggio che mi sembra si riveli interessante, di un soggetto molto particolare: una tribù molto particolare.
L’oggetto di questo studio è un gruppo di cristiani.
In questa presentazione, oltre allo stesso Mikel Azurmendi, abbiamo con noi Joseba Arregi, dottore in teologia e sociologia, che è stato consigliere alla Cultura del governo basco, nei governi di Ardanza dal 1986 al 1991, la persona a cui Bilbao deve il volto che presenta oggi.
Senza Joseba Arregi, Bilbao non avrebbe il Guggenheim, non avrebbe visto il recupero della baia, tra le altre cose, tra le altre molte cose.
Josepa è stato sempre un uomo dalla grande capacità critica, e ha compiuto un percorso politico e culturale che mi sembra affascinante.
Oggi è un giornalista, e devo confessare che non c’è articolo di Joseba Arregi che esca e che io non legga e non arrivi a sottolineare.
In fine è con noi Julian Carron, dottore in teologia, professore di teologia all’università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e presidente della fraternità di Comunione e Liberazione.
Cominciamo dunque questa conversazione su El Abrazo.
Grazie a tutti, grazie ai tre ospiti, credo che abbiamo davanti a noi un interessantissimo momento di lavoro, una interessante conversazione.
Josepa, cominciamo con te se sei d’accordo.
Permettimi di svelare un piccolo segreto.
L’altro giorno parlando con te, mi dicevi che questo libro di Mikel è stato per te una rivoluzione, è stato un fenomeno che ti ha provocato.
Ricordo che è stato proprio questa l’espressione che hai usato: «Questo libro mi ha ribaltato», in senso positivo, hai chiarito subito: «Mi ha ribaltato in senso positivo. Mi ha costretto a rimettermi davanti a molte cose della mia vita, e mi ha interessato un nuovo senso della realtà che si percepisce qui».
Cos’è che ti ha ribaltato, Joseba, leggendo questo libro?

Joseba Arregi – Dottore in teologia e sociologia
Beh, fondamentalmente, uno, con l’età che ha, crede di aver conquistato il diritto a sistemarsi in un ambiente tranquillo, confortevole.
Io viaggio verso la fine della vita, sono agli ultimi anni, tranquillo, non mi capiteranno più grandi cose, salvo quella più grave che deve accadere, non dovrò cambiare il mio modo di pensare, non mi aspetto più altre grandi crisi, ecc…ecc….
E all’improvviso arriva il libro di Mikel e mi mette in discussione un’altra volta da cima a fondo.
Mi fa tornare a domandarmi ancora una volta un sacco di cose, a ripercorrere la vita e soprattutto mi costringe a una cosa che mi è apparsa fondamentale, come dicevo poco fa allo stesso Mikel.
Negli stessi giorni, nelle settimane in cui ho ricevuto il libro, ho ricevuto altri due libri da un altro amico.
Li ho letti come abitualmente leggo i libri, tranne la Bibbia, e i due Testamenti, perché leggo con lo spirito teso ad imparare, a lasciarmi interrogare, a criticare quello che sto leggendo, a intavolare un dialogo intellettuale con il libri, ma questa cosa con il libro di Mikel non si può fare.
Con Mikel non si può argomentare a livello intellettuale, bisogna avvicinarsi
al libro di Mike il un altro modo, proprio come lui alla fine dice di essersi avvicinato all’oggetto: non come antropologo, dice alla fine del libro, un antropologo neutrale, freddo, che traccia una sorta di contabilità della tribù che ha visitato, la mette per iscritto e volta pagina;
lui si è lasciato colpire da quello che ha visto.
Io sono, in seconda battuta, uno a cui è successa una cosa simile.
Il libro di Mike presenta alcuni testimoni che parlano in modo diverso, che ragionano in modo diverso e tramettono qualcosa.
E questo qualcosa cosa è? Una cosa molto semplice, che anch’io nella mia vita in un certo modo ho sentito forse in una forma più elementare: è l’aver incontrato, in un certo momento della vita, qualcuno.
Ho sempre avuto l’idea di dire: non so se le testimonianze che presenta Mikel sono incontri di quelle persone con Dio, con Gesù, o se è Dio o Gesù che le incontra, se trovano o sono trovate.
Ma quell’incontro è ciò che rompe la percezione della vita che avevamo,
e sperimentano il fatto che qualcuno,
Dio in Gesù, si svuota completamente,
e credono che da quell’incontro nasca un impulso, – starei per dire un obbligo, ma è una parola che più volte Mikel dice che va cancellata – ; non è il dovere di fare kantiano, l’impulso che nasce è quello di
svuotarsi a propria volta nei confronti degli altri,
e di cominciare a partire dagli altri, a comprendere se stessi a partire dallo sguardo degli altri, perché loro hanno ricevuto il loro ideale nell’esperienza di quell’incontro, hanno scoperto che qualcuno ha aperto loro la porta, li ha guardati, e anche loro devono guardare e vedere se stessi a partire dallo sguardo agli altri.
Ci sono tre parole, o concetti, idee, intuizioni che mi interessa sottolineare in questo primo intervento sul libro di Mikel e sono queste:
un nuovo significato
della realtà,
della verità
della libertà.
Soprattutto la prima è quella che ha richiamato maggiormente la mia attenzione, un nuovo significato della realtà, del mondo; volenti o nolenti, viviamo in un mondo tecnico-scientifico, e ormai lo interpretiamo attraverso gli strumenti che usiamo, siamo diventati degli utilizzatori della magia degli strumenti e della tecnica, e vediamo la realtà attraverso quello che più o meno ci dice la scienza, anche se poi abbiamo un sacco di giustificazioni che non confessiamo.
Ma c’è un nuovo senso della realtà, c’è una vita nuova, un nuovo modo di vedere la realtà, compresa la natura.
I Picos de Europas che sono così importanti nel libro di Mikel e nell’esperienza di Comunione e Liberazione.
C’è una natura, un modo di vedere la natura, e soprattutto un nuovo modo di vedere la realtà che parte dalla vita e dalla vita degli altri.
Verità. Dio si può argomentare?
Sì si può argomentare, ma Mikel non lo fa, e percepisce che i membri della Fraternità di Comunione e Liberazione non lo argomentano a partire dai libri e dai dogmi;
lo argomentano a partire dalla verità della loro vita,
dalla vita di Dio che in Gesù si consegna sino alla morte in croce, alla verità di coloro che, nel seguirlo a partire da quella esperienza, da quell’incontro, credono nella necessità di aprirsi agli altri, di consegnarsi agli altri,
di svuotarsi per gli altri
e di guardare agli altri.
Una frase che mi stupisce, e che la ripeterò probabilmente molte volte parlando della caritativa, di Macario e di quelli che vanno a Valdemingomez e in quella zona.
E non vanno a convertire nessuno, non vanno a insegnare a nessuno.
Vanno per stare con loro
a fare compagnia a quelli che sono lì, che sono gli scarti, gli emarginati di quella grande città che è Madrid:
vanno a rispettarli nella loro dignità di uomini.
Mi sembra che sia una espressione molto bella, molto attraente:
«Saper vivere guardando e rispettando la statura umana degli altri».
Questo ti lascia – lo dice a un certo punto, commentando con qualcuno – un senso di invidia.
Ovvio, uno prova invidia.
Potrei finire questo primo intervento così. Mi sono sentito un po’ come la volpe nella favola, che dice che l’uva è verde.
Invece dico: no, no, l’uva è ben matura, è dorata, imbiondita dal sole dell’autunno, sono io che sono molto piccolo e non riesco a fare quelle cose.
Tutto ciò ti tira fuori dal tuo ambiente confortevole,
ti provoca, e ti fa dire: questa cosa mi interroga, mi richiama, mi costringe a prendere posizione.
Lui dice: nei pochi anni che ho davanti mi piacerebbe essere una persona migliore.
Bene, come posso essere una persona migliore, cosa significa nella vita quotidiana, con gli amici, in famiglia e tutto il resto, vivere a partire dall’altro?
C’è un modo – lo so, abbiamo già parlato troppo e lui non è molto affezionato a Lévinas, ma Lévinas in una delle sue letture talmudiche, interpretando la Mishnah, afferma che c’è prima il fare e poi il sentire, e lo spiega.
Che cosa è il fare? È accogliere il messaggio.
E che cosa è il sentire? Comprendere il mondo e la vita successivamente con il messaggio, e comprendere il messaggio dopo averlo accettato.
Non argomentare per ricevere il messaggio, ma al contrario, mentre il sapere è la tentazione delle tentazioni – dice Levinas –, è avvicinarsi, avventurarsi nel mondo dove il bene e il male convivono, ma senza perdersi nell’ambiguità tra il bene e il male, ma chiamandosi fuori come soggetto.
E’ qualcosa che non lascia fuori nessuno, non può lasciar fuori nessuno.
Se si legge il libro chiamandosi fuori dal libro, non si capisce niente.
Bisogna scegliere:
o accetti il messaggio o non l’accetti;
poi si parla sul messaggio, ma prima c’è il fare, l’accettare il messaggio, e poi comprendere il messaggio.
Fernando de Haro
Grazie, Joseba. Julian, abbiamo visto che in quello che ci ha appena detto Joseba si prolunga la stessa dinamica che descrive Mikel nel libro.
Mikel nel libro
parla di una presenza radicata in una immensa gioia,
e dice anche che nessuna ha fatto una qualche magia – stava partecipando a una vacanza – per far entrare a forza Cristo.
È l’esperienza che rende più solida in ognuno dei presenti la presenza di Gesù.
Qui vediamo come questa esperienza si dilata in qualcuno semplicemente per aver letto il libro, e leggendo il libro -mi sembra – sta evidenziando una dinamica simile.
Non un ragionamento, una teorizzazione, ma l’impatto con una testimonianza
– così ha detto lui – che mette in discussione e che ribalta.
Guardando questa tribù, Mikel vede una presenza gioiosa; noi che cosa possiamo imparare da questo sguardo di Mike e di Joseba?
Al di là di uno sguardo che vede la testimonianza in diretta e di una che la vede in forma indiretta, che giudizio sulla natura del cristianesimo suppone, e che luce getta sul momento in cui ci troviamo?

Julian Carron – Presidente della Fraternità di CL
Io non so che impressione abbiate avuto voi nell’ascoltare Joseba, ma
parlare di una presenza che ribalta,
che tira fuori dal suo ambiente confortevole, che risveglia in lui tutte le esigenze della vita perché gli interessa, e che questa sia la modalità con cui la vita si rimette in movimento, e che tutto questo possa accadere ad una età in cui uno non si aspetterebbe più nulla…
Non so se sia possibile andare a dormire questa stasera come prima, come siamo entrati qui.
Perché parlare di un luogo così, cosa significa per la vita, per le tre parole che diceva?
Per la realtà, il modo di rapportarsi con la realtà, per la scoperta della verità: chi potrebbe pensare, andando a visitare un campeggio, a visitare una caritativa, vedendo un gesto di carità, che potrebbe avere qualcosa a che vedere con la speranza della vita?
Il fatto è che
siamo troppo abituati a dare per scontato quello che dice il Vangelo,
perché in realtà quello che stavi descrivendo è letteralmente quello che raccontava il Vangelo.
Che alcuni uomini hanno incontrato una persona che li ha tirati fuori dal loro ambiente confortevole e li ha ribaltati, ha rivoluzionato così profondamente la loro vita che da quel momento hanno lasciato le barche e la loro quotidianità per Cominciare a vivere un’altra cosa: ossia, li ha letteralmente fatti uscire dai gangheri, e nessuno di loro avrebbe pensato:
«Bene, ma perché andare a pescare con Lui – invece di andare ad ascoltare il rabbino e le sue elucubrazioni sull’antico Testamento – dovrebbe essere più interessante per la vita?»
Non ho potuto leggere le pagine di Mikel senza ricordare un’espressione di De Lubac che ho letto tempo fa.
A un certo punto,
quando si sono separati i gesti,
che compiamo tante volte,
dalla loro origine, il cristianesimo è diventato irreale,
dice lui, perché non appare più come un irradiarsi dell’origine, e allora i gesti diventano forme vuote.
Un ideale senza vita è come degli idoli troppo fragili,
diafani, perché non mettono in moto niente e non è più possibile che uno possa – per usare un’espressione che usa Mikel – guardare per vedere.
Potremmo dire che questo è il metodo che lui ha usato: guardare per vedere.
Ma poter dire del cristianesimo che è un guardare per vedere non è altro che dire, con un linguaggio laico, «Venite e vedete»: Gesù non li sta invitando a nient’altro che a vedere quello che Lui ha visto.
Quello che sorprende è che una persona a settant’anni, avendo percepito un accento assolutamente nuovo ascoltando uno alla radio, incontrando uno che lo guarda e lo tocca nel più profondo di sé, o incontrando uno che compie un gesto di gratuità nei suoi confronti, ha visto risvegliarsi in sé tutta l’esigenza, tutta la curiosità, così da passare due anni andando a vedere tutto quello che aveva a che fare con ciò che gli era accaduto.
Poter tornare a parlare del cristianesimo come dei fatti che accadono è una cosa cui non siamo abituati.
Ma che cosa abbiamo perso per strada per rimanere così sorpresi?
Perché come ha sorpreso voi, così ha sorpreso me il fatto che uno descrivendo semplicemente le cose, senza ragionarci sopra – nel senso che dicevamo -, come conseguenza, come esito di un ragionamento…
No,
è come se ci fosse una nuova apologetica, che coincide con il fatto che accade
che ti fa cogliere
nel fatto che accade la presenza di qualcosa di più grande,
di qualcuno, perché è impossibile spiegare questa cosa, come dice lui, senza introdurre qualcuno che possa dar ragione di quello che sino ad allora uno non poteva nemmeno immaginare, che possa comunicarsi in un modo così assolutamente facile che uno non ha bisogno di prendere un master ad Harvard.
Basta semplicemente che vada,
come altri andarono a pescare con Uno e attraverso questa esperienza cominciarono ad introdursi in una conoscenza di Dio, che sarebbe impensabile:
perché nessuno poteva pensare che andare a pescare fosse più importante che andare a fare qualcos’altro.
Nel nostro caso, che andare ad un campeggio, o andare a un gesto, andare a delle vacanze potesse avere quella pienezza di verità, che provoca così tanto la libertà che uno non può rimanere immobile davanti a questo.
E qui Mikel identifica, senza ricorrere a grandi filosofi, come
dall’ontologia di questo fatto così descritto, con questa carnalità storica, nasca un’etica, una risposta della libertà piena di gratitudine.
Cioè, è impossibile che uno, leggendolo, non faccia il paragone con tutto quello che vive, che cosa lo ha lasciato stupefatto del modo di stare nel mondo di queste persone che incontra?
Dice:
«Trovandoci nel cuore di una società perennemente insoddisfatta, mi sono imbattuto in una presenza radicata in una immensa gioia. È stato un imbattermi in un darsi totalmente, senza ostentazione, è stato trovarmi faccia a faccia con questo modo di agire, vedere che esso generava una solida letizia esistenziale e una grande certezza».
Mikel Azurmendi
Qualcosa che oggi è praticamente un pezzo da museo, è una cosa rarissima trovare qualcuno che abbia una certezza: rappresenta una differenza fondamentale, perché non è una maggiore intensità di altruismo, così che si possa pensare: beh, questi sono migliori degli altri.
Non è una maggiore intensità di altruismo, non è un senso profondo di empatia universale, non è un sentimento di fraternità.
No, la differenza è il modo di vivere, il modo di intendere la vita, il modo di viverla.
Allora la domanda che sorge è:
ma cosa abbiamo perso della natura del cristianesimo?
Perché questo, in persone come voi due, uno che lo vede, l’altro che lo legge, e non siete gli ultimi arrivati, non siete gli ultimi ingenui, provoca questa reazione, e in me provoca lo stesso: cos’è che stiamo perdendo, di cui tante volte neppure noi che siamo parte di questo popolo ci rendiamo conto?
Mi sembra allora che, stando semplicemente alla descrizione dei fatti, senza aggiungere niente alla descrizione dei fatti, si stia dicendo qualcosa: perché quando lui arriva a uno di quei momenti, e immediatamente dopo essere arrivato, dopo pochi minuti, dice:
«qui sta accadendo qualcosa», significa che l’unica maniera per spiegare adeguatamente ciò che sta vivendo è una cosa che sta accadendo, è un avvenimento.
Non un avvenimento del passato, come lo abbiamo ridotto tante volte, ma qualcosa che sta accadendo ora, come è accaduto duemila anni fa.
Ma adesso noi abbiamo questa opportunità unica di viverlo nel presente.
C’è un testo di uno scrittore russo che in modo molto sintetico dice queste due cose: leggendo un passo del Vangelo, uno si sente commosso, e, dice, questo
riconoscere nel presente qualcosa che riecheggia nel passato e nel passato qualcosa che fa risuonare il presente è ciò che rende possibile il cristianesimo.
Una catena tale che se tocco il terminale ultimo del presente non posso non far risuonare il passato, o leggendo il passato non posso che far vibrare il presente.
E questo vuol dire che il cristianesimo o si comunica così, come avvenimento presente, come avvenimento presente o non è in grado di farci uscire fuori di noi e non è capace di modificare il nostro ambiente confortevole, e di conseguenza possiamo continuare a fare questi gesti religiosi di tanto in tanto aggiungendo qualche gesto devoto in più alla vita, ma abbiamo già visto tutto.
Questo mi sembra il grande contributo che il cristianesimo può offrire al mondo di oggi, perché oggi abbiamo tutto ma manca qualcosa che ci tiri fuori di noi, che risvegli quanto di più profondo è in noi, ossia ciò che in questo momento il cristianesimo può produrre, può generare:
un io sono fatto di un’altra pasta.
Perché tutto il resto ci trascina in quell’ambiente confortevole.
Non è che questo sia per forza una disgrazia, però una vita così non ha più la freschezza dell’origine.
Allora uno non può non pensare ad Eliot, quando dice che stiamo perdendo la vita vivendo.
Invece di guadagnarla vivendo la fede, possiamo continuare a perderla vivendola.
Ma questo a chi può interessare? Partecipare a una cosa, anche se afferma essere la verità.
Se quello che sto vivendo è che sto perdendo la vita vivendola, non può interessare a nessuno, tanto più in un momento come questo in cui nessuno può forzare niente perché sarebbe una assoluta perdita di tempo.
Accade il contrario quando uno si imbatte nel presente in una realtà – fatti, presenze, persone -, cioè nel fatto che questo si è fatto carne e che si comunica solo facendosi carne, e che si può trasmettere solo attraverso la carne.
Tutto ciò senza ridurlo semplicemente a un buon esempio, perché sono persone normali, con tutti i loro limiti, che conosciamo tutti, noi che siamo parte di questo popolo che conosciamo molto bene i limiti di tutti quelli che citi, e tutti gli altri sanno i limiti che abbiamo noi.
Ma questo non ti ha impedito di essere ribaltato, allora vuol dire che noi abbiamo qualcosa da imparare dal tuo sguardo, perché
noi non stiamo vedendo delle cose che diamo per scontate.
Perciò questo libro provoca, perché dice: io che sguardo ho?
Io posso dire molte cose giuste, identificare dei limiti reali, che nessuno nega, ma non si tratta solo di questo, perché se fosse solo questo non avrebbe suscitato una cosa così.
E questo – e concludo – ci può aiutare a capire la natura della testimonianza.
Quello che tante volte abbiamo ridotto a buon esempio non è sufficiente, perché quello che si rende presente qui, attraverso questa modalità nuova di stare nel reale, è la presenza di Cristo che passa attraverso l’unica umanità su cui può contare Cristo se vuole perpetuare la sua incarnazione nella storia, che è quella fatta da persone limitate.
Quello che tante volte è una obiezione, qui
l’obiezione non indebolisce la potenza della luce, la potenza dell’attrattiva.
Questa è una cosa di cui dobbiamo essere grati a Mikel, perché ci ha insegnato a guardare qualcosa che noi…….
Mi ha sempre richiamato l’attenzione un testo di von Balthasar che dice che quando uno è vicino ad un torrente, dopo un certo tempo non ne sente più il rumore.
Noi siamo davanti a certe cose, che dopo un certo tempo non vediamo più, e allora diciamo: «Perché devo dire Gesù?». Questa è la domanda da un milione.
Perché stando insieme dobbiamo dire Gesù?
Come se quello che stiamo vedendo cadesse dal cielo o qualcuno lo tirasse fuori dal cilindro.
Una persona immigrata aveva vissuto per 18 anni nei Paesi arabi del Golfo, aveva vissuto sotto un responsabile di una azienda, il suo capo, che lo aveva trattato con durezza.
Arriva in Italia e si trova in una casa di accoglienza per rifugiati; uno lo chiama e gli chiede: «Tu (e dice il suo nome), vuoi carne o pesce?». E lui si mette a piangere.
Era un sentimentale? Dopo 18 anni che lo avevano trattato a legnate non credo, e dal percorso che aveva dovuto fare per arrivare in Italia, non mi pare che fosse un gran sentimentale.
Quando ho raccontato per la prima volta questa cosa, perché mi ha colpito tantissimo, ho detto:
«Per poter capire questo bisogna che il Verbo si sia fatto carne».
E mi hanno risposto: «Non esageri? Questa capacità non è il frutto di una educazione che abbiamo ricevuto?».
E io: «Fate i vostri conti e vedrete se questo è solo il prodotto di una educazione».
Noi abbiamo perso la capacità di cogliere in ciò che succede la presenza di Cristo
e di conseguenza il cristianesimo ha assunto una natura diversa, perché lo identifichiamo con certe cose e non ci sorprendiamo più, non andiamo a dormire con gli occhi pieni di quello che abbiamo visto.
Fernando de Haro
Grazie Julian. Credo che in questi due densissimi interventi sia già emersa la grande questione.
Il libro di Mikel racconta l’incontro con il cristianesimo così come è, ma nell’ultima parte, Julian, tu hai insistito su uno sguardo, su una capacità di vedere, una capacità di cogliere.
Leggendo il libro si vede che lo sguardo di Mikel non è uno sguardo acritico.
È uno sguardo che viene da un lungo percorso umano, che ha un background di pensiero importante.
Per questo, Mikel, dato che questa questione dello sguardo è venuta fuori nei due interventi, questa capacità di vedere, ed è stata posta come esempio, mi piacerebbe che il tuo primo intervento fosse su questo tema, perché anche tu ti sarai reso conto, anche tu scrivendo il libro ti sarai reso conto che stavi andando al di là di ciò che ti consentiva una scienza positivista.
Di fatto tu concludi il libro dicendo:
«Per vedere bisogna guardare».
E dialoghi con il metodo sociologico, e concretamente con Hervieu-Léger che raccomandava, nell’analisi sociologica, di evitare la comunione con l’oggetto.
Cioè,
la comunione con l’oggetto non permetterebbe di vedere oggettivamente, adeguatamente.
Nel tuo bagaglio tu hai questa regola della sociologia, tuttavia tu non ne tieni conto.
Perché questo ragionevole?
Perché tu hai deciso di entrare in comunione con l’oggetto per conoscerlo?
Mi pare infatti che qui stia in parte il segreto dell’aver visto.
È ragionevole per te, Mikel, entrare in comunione con l’oggetto per vedere, o ti stai compromettendo?
Perché chi si compromette non vede, direbbe un certo metodo.
MIKEL AZURMENDI filosofo e antropologo sociale
Questa è la grande questione. Non pensate che Mikel abbia scritto un libro.
Mikel ha scritto tutto ciò che stava vedendo,
quando andava ai Picos, quando andava a Masella, quando andava a casa del tale e discutevano, ogni volta che….
Vale a dire tutti i miei movimenti, quello che ho fatto è stato scrivere, continuare a scrivere pagine e pagine che mi facevano pensare.
Non crediate che questo libro sia «Mikel ha scritto un libro», come «Cesare ha fatto un ponte», più o meno.
Certo, è un libro, ma questo libro è il prodotto di un sacco di pagine su pagine, visite e discussioni, chiacchiere e dibattiti con le persone.
Tutti sapete un po’ come mi sono mosso.
Vi dico qual è l’aspetto fondamentale di questo libro, e credo che lo sia di tutto quello che penso dell’antropologia, e non solo, ma anche della sociologia, dell’economia, della demografia insomma di tutte le scienze umane.
Ho cominciato a guardare così a El Ejido, quando scrissi un libro che di intitolava «Ritratti di El Ejido».
Questo libro avrebbe potuto intitolarsi «ritratti di CL».
Sono come dei ritratti di CL, ma non sono delle figure stampate.
C’è una riflessione su di me, cioè sui miei pregiudizi, di me che guardo.
Vi spiego. Per vedere bisogna guardare, vi spiego cosa succede a me, non voglio pontificare che sia proprio così, ma se io oggi avessi una cattedra a scuola insegnerei l’enorme errore delle scienze umane, che sono state codificate e imposte nell’università secondo lo schema delle scienze naturali.
Le scienze naturali servono per prevedere, usano dei quantificatori applicabili ad ogni cosa, come sapete voi, per qualsiasi X o per qualsiasi Y – X ha la proprietà F, e quindi Y ha la proprietà G – e potremmo identificare anche dei collegamenti per sapere quando quei quantificatori si producono o si concretizzano. Le scienze naturali funzionano così, e questo è ciò che si è tentato di fare con le scienze umane.
Non è più così,
in questi 150 anni questo modello è completamente fallito,
le scienze umane non possiedono – incluse l’economia, la demografia, come le più potenti, non parliamo della psicologia -, non possiedono, hanno completamente perso, mancano totalmente della possibilità di quantificare attraverso le previsioni, hanno totalmente fallito.
Oggi nessuna scienza, nemmeno in economia, esiste una simil-legge che abbia il potere di una previsione.
Attenti a quel che dico.
Allora, da dove viene fuori tutto questo affidarsi all’economia e cose del genere?
Gli economisti ex post, quando le cose sono già accadute, spiegano perché le cose sono accadute: la stagflazione, la crisi, nessuno lo dice prima, lo avete visto.
Allora qual è il problema?
Il problema è che l’unità di misura delle scienze umane non è un atomo,
non è una stella, non sono dei circuiti di atomi; è l’umano, lo chiameremo “uomo”, voglio parlare di uomini e donne.
Parlare dell’umano mi suona astratto, parliamo dell’uomo.
Dunque che cos’è l’uomo?
L’uomo è un insieme di desideri, di intenzioni, di obiettivi, di credenze che lo rendono assolutamente imprevedibile….ed esiste la casualità.
Ed esiste la casualità!
Il naso di cleopatra. Oggi stavamo parlando del cavallo del capitano Ney: se non fosse stato per lui, che cadde e si ferì, e Ney si trovò senza cavallo e non vide le truppe … Napoleone era in cattive condizioni per la sua malattia, in una baracca, e aveva lasciato a Ney tutta la battaglia di Waterloo praticamente vinta.
Se non fosse stato per la ferita del cavallo, Waterloo sarebbe andata in altro modo.
Napoleone, con Ney a capo delle truppe avrebbe vinto certamente.
Vale a dire,
IL CASO PUò STRAVOLGERE COMPLETAMENTE TUTTO
Non dico le intenzioni, notate bene.
Se io per esempio avessi avuto l’influenza che ho adesso, o l’avessi presa due anni fa e mi fosse rimasta …. Mike non avrebbe scritto il libro, è così: voglio dire, il caso, questo è imprevedibile.
Le scienze umane non si possono impostare secondo un modello delle scienze naturali proprio per questo. Punto primo.
Per questo hanno fallito, salvo solamente la letteratura.
La letteratura è l’unica attività umana che ha reso visibile un caleidoscopio, un ventaglio umano di azioni, di tipi umani e di personaggi attraverso i quali si può seguire la trasformazione della sensibilità umana.
Oggi per sapere come si è trasformata la sensibilità umana bisogna leggere i romanzi, da allora ad oggi, bisogna leggere.
L’economia non dice niente, la filosofia non dice niente.
Bisogna leggere romanzi, una cosa che poca gente fa, vedete? Eppure la letteratura possiede questa forza.
Allora il mio modello … come ha scritto questo libro Mikel?
Scrivendo fogli, che non erano il libro, ma erano fogli che poi sono stati strappati e ne sono stati scritti altri.
Il problema fondamentale che ho sempre è che niente di ciò che è umano mi è estraneo.
L’ho detto a pag. 311, qui – attenti – in un altro modo, perché non volevo sciorinare il mio latino: “homo sum, humani nihil a me alienum puto”. Vuol dire che sono uomo e niente di umano mi è estraneo.
Bene, qui lo dico in questa altra forma per non scaldare gli animi, perché è troppo, bastano alcune frasi, lo dico così:
«Il mio sospetto – è verso la fine – è che forse possa esistere intorno a me – attenzione, parto da questo sospetto – qualcosa di diverso dall’egoismo del ciascuno per sé – attenzione, dico la stessa cosa, adesso vi spiego quando – o dell’insolenza del “che si arrangi”, non è altro che un (potete aggiungere “vagabondo”,, “drogato”, “immigrato”), uno spagnolo…”, voglio dire che potete aggiungere quello che volete».
Cioè, io consideravo che il criterio dell’uomo è l’uomo.
Nulla che vada bene a un uomo è estraneo a un altro uomo, perché immediatamente…lo ha detto Julian un momento fa, ha detto: «Il paragone con tutto quello che vive».
È qui il punto, il paragone.
Vi spiego come lo vedo io, meglio, come lo sento;
credo che le scienze umane vadano male perché non scendono da questo piedestallo.
Tutto va male, e le scienze umane sono dentro a ciò che va male, non possono andare bene, se no sapremmo qualcosa, giusto? Invece non sappiamo niente.
Cosa vuol dire che io mi sono messo a cercare di vedere se c’era qualcosa al di là di quel “si arrangino”, senti, che si arrangino che già faccio fatica ad arrangiarmi da me.
Lo faccio in un momento in cui c’è una crisi che ci ha lasciato Zapatero, il mondo, e questo e quello, i prime e i subprime …
una grossa crisi da cui si esce grazie al fatto che alcuni anziani, alcuni vecchi nonni aiutano i loro figli e si prendono cura dei nipoti, li accolgono in casa, si aiutano.
In Spagna c’è stata una solidarietà.
Non si tratta di filantropia, questo è amore filiale, è darsi da fare, è il rispetto che uno ha per l’altro.
Bene di questo oggi non parla nessuno.
Ogni tanto qualcuno diceva che la portata di questo aiuto … questo era il tema interessante per le scienze umane, attenzione: «Perché la Spagna non affonda?», era la domanda dei sociologi, si spendono milioni e milioni e questa domanda non figura in nessun progetto di ricerca delle scienze umane, in nessuna università.
Perché la Spagna non affonda? Dove sono le famiglie che la tengono in piedi?
L’esempio che è stato fondamentale per me e tra i miei amici, l’ho già raccontato qualche volta a qualcuno di voi, è quello delle carte di credito fantasma.
Allora l’1%, dove è quell’1% che avrebbe potuto salvare Sodoma e Gomorra?
E’ la domanda che le scienze umane dovrebbero porre sempre, dov’è l’umano?
Quello che fa permanere la società, la famiglia, le istituzioni.
In questo momento in cui siamo in una specie di costante tiro al bersaglio contro le istituzioni, da tutte le parte, pim, pum, pam…vediamo quello che cade.
Se le istituzioni crollano, può crollare tutto … sono il bene più grande che abbiamo, le istituzioni, cominciando da quelle più basse fino a quelle di vertice, sono loro che tengono in piedi la società.
Bene, vediamo quello che sto per dire adesso. Sì lo so dove voglio arrivare.
Stavo parlando delle scienze umane.
Il punto chiave è: niente di ciò che accade e che abbia a che vedere con un altro uomo può essermi estraneo.
Beh, se fosse così… c’è un testo, adesso mi ricordo, da dove è presa questa frase, attenzione, è una frase potente, è una frase di Terenzio nello Heautontimorumenos, che significa colui che punisce sé stesso, è circa del 200 avanti Cristo, probabilmente del 175, è una commedia.
Vi racconto come comincia. All’inizio ci sono due vecchi contadini, uno passa davanti all’altro e dice: «Cremete, cosa fai qui? Sei pieno di soldi, hai appena comprato questa terra, hai quelle terre e quelle altre, sei ricchissimo, hai già sessant’anni, hai degli schiavi; allora non sarebbe meglio se invece di lavorare la terra te ne stessi a casa tua a organizzare il lavoro, a far lavorare meglio e più efficientemente gli schiavi?».
E l’altro risponde: «Perché vieni qui a darmi fastidio? Hai tanto tempo libero, sono questioni che non ti riguardano».
E il primo: «Mi riguardano perché homo sum – la commedia è in latino – e niente di ciò che è umano mi è estraneo; ti faccio questa domanda per vedere se tu mi dai delle ragioni, così che io le imiti se sono valide o le rifiuti e ti spinga a rifiutarle se non sono valide».
Attenti, questo tizio sta paragonando sé stesso con l’altro e sta intavolando un dialogo, sta dicendo: spiegami perché fai quello che fai, dammi le ragioni, perché se sono valide ti imiterò, se non lo sono cercherò di dissuaderti.
Ecco – e sto per finire – quello che accade sempre a Mikel.
Allora, attenzione, questo è il nucleo decisivo di come dovrebbe essere fondata di nuovo, per la prima volta in forma comparativa.
Tutto ciò che fa l’altro, si tratti di società primitive, o di comunità come le vostre, altre comunità, i tossicodipendenti, chiunque sia,
la cosa fondamentale è accostarsi a lui, parlare, dare ragioni e chiedere ragioni per arrivare a spiegare l’agire dell’uomo.
Questo è il punto centrale.
Non è quantificare, fare quantificazioni universali. No, è comprendere l’altro, comprendere le sue ragioni, e ragionando vedere: se sono valide te le copio, ossia le imito, e se non sono valide, cerco di convincerti.
Fernando de Haro
Mikel, in questo esercizio di paragone che stai descrivendo ….
Mikel
Paragone. L’espressione di Carron era: «il paragone con tutto ciò che vive», il paragone, attenti. Questo è il nucleo di ciò che dovrebbe essere una scienza umana. Scusa.
Fernando
In questo esercizio di paragone per me c’è un momento decisivo dell’itinerario contenuto nel libro, che è il capitolo 8.
Tu vai a una vacanza con questa tribù sui Pirenei, in Catalogna, e dopo una settimana passata lì sei disposto – è esattamente quello che hai appena descritto -, sei disposto a dar credito, stai paragonandoti con la tribù, con questi cristiani, e sei disposto a dar credito a quello che loro dicono di se stessi; dici: «Chiamano Dio la guida o l’origine della stessa».
Nel tuo esercizio di paragone questi cristiani dicono di sé che Dio sta dietro a tutto ciò che succede, e tu a pagina 291 ti poni una domanda che io torno a farti adesso.
Perché è più ragionevole questa convinzione cristiana riguardo all’origine divina di quanto accade nella tribù, che non spiegare quello che lì accade come una forma di effervescenza collettiva?
Questa domanda mi sembra decisiva.
Io mi sono paragonato con loro, loro mi hanno dato le loro ragioni:
perché è più ragionevole fidarsi di ciò che il testimone riconosce come origine della sua esperienza piuttosto che della tua valutazione?
Non so, effervescenza collettiva è anche Durkheim, può essere anche Feuerbach, la sublimazione…non vogliamo entrare in tutto questo, però perché questo è ragionevole? Quello che tu…perché è più ragionevole?
Mikel
Beh, io rispondo, ma non voglio monopolizzare…..
Fernando
No preoccuparti, hai cinque minuti, del tempo mi occupo io!
Mikel
Allora ne approfitto per concludere la questione di prima. (risatona generale…., è ingestibile)
Perché, attenzione, per poter fare il paragone con uno, per capire l’essenza dell’altro, per vedere l’altro, per vedere qualcosa dell’altro, tu devi guardare,
ma qual è il tuo sguardo?
Torno ancora alla domanda precedente.
Vedrete come allora quello che io dico risponde da solo, vedrai, questa domanda si risponde da sola.
Per guardare, pardon, per vedere – Cremete che è lì che scava …dammi le tue ragioni – tu devi sapere anche quali sono le tue ragioni, per poter fare un paragone.
Ognuno deve conoscere le proprie ragioni, vedete.
Il nostro problema più grande, delle scienze umane, è che crediamo che le nostre convinzioni sono la norma di come dovrebbero essere le cose del mondo.
Primo punto.
C’è un sociologo che amo molto, come un altro sociologo anche lui francese, si chiama Olivier Roy, e c’è una controversia, ricordi, l’abbiamo citata molte volte, con Gilles Kepel, – ti ricordi? – sul Jihadismo e cose simili.
Ultimamente lui… è un peccato che io non sapessi questo, perché l’avrei citato qui in un punto chiave, perché tutto il mio metodo … in ogni capitolo io sto lottando, se vi accorgete, contro le mie proprie convinzioni.
Io sono il contadino che va a scocciare il suo vicino e gli dice «Guarda non staresti meglio…» e l’altro, invece di mandarlo al diavolo, quello che fa è dire: «Bene, mettiamoci a dare le ragioni, e tu cosa pensi della vita? Cosa pensi degli schiavi, cosa pensi del lavoro, cosa pensi?»
Allora il problema è sempre, come ha detto Olivier Roy di recente, proprio citando due colleghi che lo avevano a loro volta criticato – lui è un amico, beh, non ve lo spiego adesso, è un Mao di questo tempo (mentre Gilles Kepel è un Trosckij di questo tempo), anche del 68, lui è andato in Afganistan, in Iran, ha scritto molte cose, e oggi credo che abbia una cattedra a Firenze, Italia, mi sembra -; quest’uomo, attenti, guardate che frase ha scritto, tutte le mie pagine vengono da questa frase:
«La sociologia non è in grado di comprendere il fatto religioso».
Attenzione, dice: «Non è in grado di comprendere». Un ex maoista «Non è in grado di comprendere», uno che è stato in Afganistan, in Iran, da tutte le parti e si rende conto….
Lui sostiene – non parlo delle sue tesi sulla gioventù, la radicalizzazione, lasciamole a parte -, lui sostiene che la sociologia non può comprendere il fatto religioso perché parte da un criterio laico – che vuol dire laicista – per definire la normalità.
Cioè crede che la normalità sia il laicismo, e quindi non potrà mai comprendere il fenomeno religioso, capite?
Perciò oggi gli antropologi – che hanno cominciato a comparare nel XIX secolo, però tutti credevano che con la scienza, con questo e quest’altro, possedessimo la verità, la società buona, l’uomo, la politica e tutti gli altri fossero dei primitivi, dei minori mentali, la mentalità primitiva.
Oggi gli antropologi preferiscono cadere nell’estremo opposto, dire che ognuno ha la sua verità; quelli fanno questo, non c’è alcun paragone da fare, quelli fanno questo, sarà vero … gli aztechi, che bello!
Spegnevano il sole, si uccidevano tra di loro … un momento .. questo è relativismo, capite?
Perché? Perché non vogliono comparare. E sapete perché non lo vogliono?
Perché i nostri valori, cosa dicono dei nostri valori? Tutti i sociologi dicono: ah no, i valori, ciascuno ha i suoi.
Partono dal superuomo di Nietzsche, ognuno abbia i suoi valori e avanti.
Così non sono in grado di fare scienza, né di conoscere, non paragonano niente, e non interessa a loro.
Allora, il mio metodo per avvicinarmi alla vostra verità, che voglio rendere sempre più una verità mia, io non so a che punto sono, la conversione di Mikel Azurmendi sta per apparire; no, questo lo dovete capire, la conversione di Mikel Azurmendi si vedrà, e vedremo anche la vostra, vedremo la vostra. (risata e applausi).
Non so se questa è teologia, Nacho, ma la conversione, l’ho imparato da voi, è tutti i giorni.
Dunque la domanda…
La cosa fondamentale, quindi,
perché io possa vedere l’altro, in questo caso voi, è sapere da dove io sto guardando.
Vi posso dire che ho dovuto cambiare fogli su fogli perché dicevo: «accidenti, ma se sto imponendo loro la mia visione, li sto criticando a partire da ciò che vedo io, mentre loro si vedono in un’altra maniera».
Capite? Cioè io ritenevo normale, per esempio, l’individualismo, credevo che l’individualismo significasse che nella società liberale ognuno per sé sta sul mercato, e di qui la libertà, uguali, liberi e uguali, io ero di quelli liberi e uguali.
Liberi e uguali è proprio il mercato dei simili, mentre non siamo tutti uguali davanti al mercato, come sapete tutti.
Allora ho dovuto vedere che la lente attraverso cui guardavo non serviva, perché non vi avrei capito.
Un’altra lente che non mi serve è quella della libertà.
L’idea che io avevo della libertà, soprattutto il suo fondamento, quello di Isaiah Berlin, del liberalismo, non mi serve per capirvi, perché voi non fate niente con la libertà negativa di non avere nessuno che mi limiti, avete bisogno di una spiegazione di cosa è la verità.
Qui si è parlato anche troppo della verità.
Capite che non ha niente a che vedere con quel concetto di Isaiah Berlin?
Ecco un pregiudizio che avevo e che ho dovuto mettere in discussione per comprendervi.
Ma per esempio, un fatto ancora più importante per me: io credevo – e facevo molta attenzione, molta – che ci fosse una nevrosi ossessiva nel gesto di farsi il segno della croce, come lo si vede fare ai calciatori, quando scendono in campo, e dicevo: «E’ evidente, è una nevrosi ossessiva».
Allora i cristiani….
No, però rendiamoci conto che per comprendere davvero un cristiano, come credo che siate tutti voi che siete qui, occorre un grande sforzo per liberarsi dagli idoli della tribù a cui uno appartiene, perché apparteniamo tutti a una tribù; quindi dobbiamo abbandonare alcuni idoli, come diceva Bacone – il famoso Francesco, proprio lui – e poi farsi da parte e rendersi conto; perché due contadini possono parlare e ragionare, ma se ciascuno ragiona dal suo punto di vista, non capirà l’altro.
Potrei continuare dicendo quali lenti ho dovuto mettere da parte e quali regole per arrivare a vedervi.
Bene, adesso arrivo al punto, io credo che senza dire questo non avrei potuto spiegare, carissimo; adesso posso cedere la parola agli altri, agli altri due colleghi, che ci hanno offerto una grande luce, o ti rispondo su questo più tardi. Cosa te ne pare?
Fernando de Haro
Sono d’accordo. Come vuoi tu Mikel. Dunque abbiamo ormai poco tempo….(risata generale – ingestibile)
Mikel Azurmendi
Vedi? Avanti! Ma loro sono venuti, a me interessa molto quello che hanno da dire.
Fernando
Joseba, vediamo, ci sono molte cose che sono emerse, potremmo sviluppare ciascuna di esse e staremmo qui una notte per ognuna, ma nella vostra conversazione iniziale, voi due, Julian e tu, avete concordato sul fatto che questo cristianesimo è una relazione, è un avvenimento, fa stare in un certo modo di fronte alla realtà.
Tu facevi riferimento alla caritativa.
Quando Mikel si unisce a un gruppo di persone in una caritativa, cioè un gesto caritativo con un gruppo di tossicodipendenti, sente immediatamente il contraccolpo e dice: «Cosa fanno questi qui impegnati in questa attività?».
E Mikel fa subito il paragone con la sociologia, con Weber, con Durkheim, che hanno disprezzato la carità; in grande misura per il mondo contemporaneo la convivenza si costruisce considerando la carità irrilevante per la vita sociale, e
Mikel in questo paragone arriva a concludere che la carità può essere uno strumento sicuro per l’identità personale e collettiva.
Non qualche cosa di aggiunto, non un elemento secondario, ma un elemento fondamentale per l’identità personale e collettiva.
Cosa suggerisce a te questa relazione, credo azzardata ma molto provocatoria, che Mikel pone tra identità e carità, tra costituzione sociale e carità?
Joseba Arregi
Credo che semplicemente arrivi a toccare il cuore dei Vangeli.
Vale a dire, quando vado a Messa – cerco di andarci tutte le domeniche -, come dicevo prima a Mikel, a volte esco stufo.
Vado, tra le altre cose, fondamentalmente, perché non voglio credere in ciò che mi pare, ma per ascoltare la parola, anche se a volte ho l’impressione che in tanta verbosità non si arrivi ad ascoltare la Parola che è già detta.
Però non c’è una omelia che ascolti in cui non mi parlino di solidarietà, non c’è omelia in cui non mi dicano che dobbiamo essere migliori, che dobbiamo aiutarci di più, accogliere i rifugiati e gli altri, ed essere sempre più solidali, e così via.
Mancano due cose in queste prediche, a me personalmente.
Una, io sono solidale perché pago le imposte, il termine “imposte” significa che mi vengono imposte, non ho modo di sfuggire, posso evaderle, ma posso finire in prigione.
Allora con tutte questo sono solidale, e ci sono dei momenti in cui uno ha finito di pagare il 40% di IRPEF, IL 50%, va bene, sono già solidale.
Questo non mi salva,
questo è un obbligo civile, niente di più, e inoltre me lo impongono, è frutto della legittima violenza dello stato, per questo si chiama imposta e non contributo volontario.
La carità cosa è? Vedo qui monsignor Rouco e magari mi lancia una anatema, stiamo a vedere.
In Gesù cosa succede? Qui sento una forte differenza, anzi, non una differenza, una sfumatura diversa, rispetto a quello che dice Mikel nel suo libro, che nella crocifissione la morte in croce non è una agonia; se ho capito bene, utilizza le espressioni “non è un’agonia, è piuttosto la misericordia verso il buon ladrone”, “sarai con me in Paradiso” e “tutto è compiuto”.
Ma prima c’è il Getsemani, “Allontana da me questo calice, ma si faccia la tua volontà, non la mia”.
Ha a che fare con la libertà e si consegna alla morte.
Per me – magari mi sbaglio proprio e il professore di Nuovo Testamento mi può correggere e interrompere -, Gesù muore una doppia morte in croce.
C’è la morte fisica, la peggiore ignominia in quel tempo per i romani, una morte fisica, ma, se pure non so se oggi siano considerate parte delle stesse parole di Gesù, delle cosiddette ipsissima verba Jesu, anche le parole “Padre, perché mi hai abbandonato?”.
È una morte spirituale, e in seguito i discepoli di Emmaus, loro sì atei, non essendosi compiuto quello che si aspettavano, vanno a casa, se ne tornano tristi verso casa e dicono quella frase che, almeno quando ero seminarista, in latino, mi colpiva molto: «Ci aspettavamo un’altra cosa, ci aspettavamo la vittoria, ci aspettavamo la venuta del regno di Dio, e non si è verificata».
C’è una morte nell’attesa messianica che anche Gesù condivideva, e che non si compie.
E come dice una preghiera, che credo sia del Giovedì Santo – mi correggerete -, nel Graduale del Giovedì Santo, il Cristus factus est, che dice: propter quod et Deus.
Per questa doppia morte di Gesù exaltavit illum e dedit illi nomen, lo ha innalzato alla Sua destra e gli ha dato un nome che è al di sopra di ogni altro nome. Cosa vuol dire?
C’è un consegnarsi totale, assoluto, che definisce la personalità, l’identità, ma che cos’è l’identità? Torno a ciò che non ho detto nella prima parte, quando mi sono dimenticato di parlare del terzo elemento, la libertà.
La libertà che nasce dalla dipendenza,
obediens usque ad mortem, obbediente fino alla morte.
Ricevere il messaggio, abbandonarmi, smettere di dire “io” per venire costituito come “tu”.
Hans Urs von Balthasar dice che il nucleo della religione è l’essere chiamato “tu” da qualcuno, costituito come “tu”, questo è ciò che genera la nuova identità.
Abbandonato l’uomo vecchio, rivestirsi dell’uomo nuovo.
Questo è molto diverso dalla solidarietà imposta.
Questo è lo svuotamento, la liberazione del mio io, lo svuotamento del mio io, che è l’esempio della doppia morte di Gesù.
A volte penso a Lévinas; in una delle sue letture talmudiche afferma che Giosuè fu il primo ateo, non perché avesse smesso di credere in Dio, Mosé e Aronne lo mandano a Gerico, nella terra di Canaan, a verificare che problemi avrebbero potuto trovare per entrare nella terra in cui scorrevano latte e miele.
Lui torna con i suoi compagni dicendo: “Lì non riusciremo a entrare, sono più numerosi di noi, sono più forti di noi, hanno delle mura poderose, hanno armi migliori delle nostre, è meglio che non andiamo”.
Non ha fiducia nella promessa di Dio, perde la fede, è il primo ateo, dice Levinas.
In questo senso, in una certa forma i due di Emmaus sono atei, e Gesù è il grande ateo.
Perché? Perché finisce tutta la religione della solidarietà, della magia, di “questo lo posso fare”, recito tre Paternoster, mi salvo, la novena, tre messe per i defunti ecc….
Tutto questo finisce e comincia il regno di Dio.
Come? Con questa nuova identità dello svuotarsi per gli altri.
Questa è carità, questa non è solidarietà.
Allora è questo il punto, e permettetemi un paio di cose, molto brevemente.
La prima. C’è un altro ebreo, che si chiama Franz Rosenzweig, un uomo che conosceva l’età moderna e Hegel come nessun altro, ha scritto il miglior saggio sullo stato in Hegel; a un certo punto lascia la cattedra, lascia la filosofia e torna al suo ebraismo, non si converte al cristianesimo come tutti gli altri, continua nel suo ebraismo, ma scrive un libro meraviglioso e molto difficile da capire, “La stella della redenzione”.
In quel libro dice una frase, tutto il libro è in una frase:
«La verità della creazione sta nella rivelazione, e la verità della rivelazione sta nella redenzione»
Franz Rosenzweig
È una verità evidente, e qui sta la seconda cosa, con cui voglio concludere, sta in quello che ricordavate voi due, il presente collegato al passato, il passato collegato al presente.
Manca un punto. Mikel utilizza un’espressione che è piaciuta molto anche a me, memores Christi, i membri della fraternità, molti di loro sono Memores CHRISTI.
È un termine loro. È loro, bene. Sono testimoni, e non solo testimoni, ma memoria permanente, che fa presente Lui.
I primi cristiani dicevano una preghiera in aramaico, credo: Maranatha, «vieni, Signore Gesù».
Non è ancora venuto, cioè, si lega il passato con il presente e con un futuro che ancora non è arrivato, ma di cui bisogna dare testimonianza per continuare a credere che questo futuro esiste, la Seconda venuta.
FERNANDO de Haro
Joseba, vediamo, tu hai scritto recentemente nei tuoi articoli che la Spagna in questo momento vive due processi: la disintegrazione della società occidentale e la mancanza di una prospettiva di bene comune.
Questo che tu descrivi, quello che ha descritto Mikel nel libro, questa esperienza per cui l’altro è un bene, ha un valore civile, un significato storico rispetto ai due processi che descrivi nei tuoi articoli, la disintegrazione della civiltà occidentale e la mancanza del bene comune? Questo ha un valore storico?
Joseba Arregi
Lo ha, se teniamo conto di una cosa. Non so dove l’ho letta.
Nella croce di Cristo si produce il punto di maggiore vicinanza di Dio agli uomini, e nello stesso tempo il punto di maggiore lontananza di Dio dagli uomini.
Quindi c’è l’autonomia dell’uomo e c’è la fede.
Non si può trasferire direttamente dalla fede, e ancor meno nelle società pluraliste, ma
quello che possono portare, e portano, i cristiani è quel seme che può diventare grande, che rende effervescenti le comunità, che permette di continuare a tener viva la speranza.
Rob Riemen, che ho citato prima, parla del fatto che gli uomini nella cultura moderna sono totalmente indifesi.
Creare speranza è qualcosa di possibile, una difesa in questa impotenza, è chiaro che c’entra, ma non in quanto costruzione di società civile, ma piuttosto come società, costituzione possibile della società civile, non della comunità politica, perché la comunità politica continuerà per la sua strada, che è una strada di verità provvisoria, ma questo discorso ci porterebbe lontano, in questo momento.
Può contribuire sì, ma non può essere mai il definitivo, perché non lo è neanche per la fede, perché in fondo, come dice san Paolo, quello che rimarrà alla fine sarà solamente l’amore.
Scompariranno la fede e la speranza, ma ciò non avverrà adesso, avverrà in futuro, se siamo capaci di conservare oggi la speranza.
FERNANDO
Mikel, mi rispondi adesso?
Mikel Azurmendi
Riguardo alla ragionevolezza di quello che è accaduto a Masella, cioè in sei giorni, quasi sette, con 700 persone riunite.
A me le persone fanno paura, non vado mai allo stadio, non sono mai andato neanche ai comizi nel periodo della transizione.
Dunque, 700 persone, sei lì, tutti vanno e vengono, coi bambini, i ragazzi – leggete l’ottavo capitolo del libro, lì è dove mi è accaduto il cambiamento più grande per me, per noi, diciamo, perché in questo senso eravamo in due.
Ho capito, mi sono liberato di una lente che non mi serviva per vedere l’umanità; attenzione,
mi sono tolto la lente che era costituita dall’umanesimo,
che è l’umanesimo, questa idea marxista che abbiamo, che viene da Feuerbach, quella del “l’uomo per l’uomo”. Cosa vuol dire “l’uomo per l’uomo”?Credo di aver capito questa formula dopo i sei giorni in cui ho visto quello spettacolo,
- quell’esercizio di carità
- di vicinanza reciproca
- quel non restare nessuno nel suo guscio
- nel suo angolo, quel cercarsi l’un l’altro, tra sconosciuti
- per parlarsi, abbracciarsi, e fare tutto in ordine
Si facevano gite, giochi insieme, giochi fra 600 persone in cui non si vedeva una .. c’erano centinaia di palloncini pieni di acqua, non si vedeva un chewingum, un pezzo di plastica per terra, un mozzicone; non c’è stato un litigio, un attrito, nessun bambino ha detto a suo padre: “Papà, picchia quello lì, che è il papà di questo che mi ha rotto il palloncino!”.
Guardate, ci sono stati quattro segni in contemporanea in un piccolo incontro che si è tenuto prima dell’assemblea.
Ci siamo trovati con i catalani, e ci sono stati quattro segni che sono fondamentali per capire che cos’è “l’uomo per l’uomo”.
Era il rispetto, che non ha niente a che vedere con la formula kantiana, quella sacra venerazione della legge, quel quasi dio che è per Kant, che per Durkheim è la società, perché la società è in realtà il dio per noi, e poi il rispetto di Durkheim, il rispetto, l’umanità, l’umanità con la minuscola, che non ha niente a che vedere con quello che cantavamo con il pugno alzato, il genere umano, l’internazionale.
No, l’umanità non ha niente a che vedere con il genere umano, ha a che vedere con quella persona in carne ed ossa, con quel bambino, quel figlio di papà che hai di fronte, che ti fa schifo.
L’umanità è questo avvicinarsi gratuito del darsi l’uno all’altro, avvicinarsi, stare in fila e dire: no, passa prima tu.
Nessuno si intrufolava nella fila per l’ascensore, nessuno si intrufolava per la fila al ristorante.
Questa concezione per cui l’altro è uno come me,
e allora accade … la gioia.
Quattro segni. La libertà, la libertà che avevano tutti, e tuttavia non ho mai provato, non abbiamo mai provato, adesso parlo per due, ci siamo sentiti così liberi facendo quello che desideravamo fare.
Perché questi quattro segni avvengono in un momento, quando le persone stanno facendo insieme una cosa, ma lo stanno facendo bene, Macario, bene. Far bene le cose.
Cosa vuol dire far bene le cose?
Vuol dire che tu hai in mente il bene insito nell’azione stessa, non il fatto che ti pagano.
Vedete? Nel capitalismo è impossibile, nel capitalismo tutto quello che tu fai ti viene pagato, nessuno fa, nessuno muove un timbro, nessuno fa niente … o l’onore, il prestigio, Joseba non è venuto qui per il prestigio.
Quello che sta facendo in questo momento è un gesto che ha per obiettivo il bene insito nell’essere venuto qui,
che è dare testimonianza della sua lettura, semplicemente, e per questo potrebbe costargli qualcosa, perché nessuno dei miei amici laici, io ho tanti amici laici, sarebbe venuto qui con libertà a parlare di cosa pensa di questo libro, e invece Joseba è qui.
Voglio dire, lì a Masella, il concetto più difficile che esiste è l’uomo:
che cos’è l’uomo?
È il concetto più difficile del mondo, le scienze umane non lo hanno mai proposto.
Kant cominciò da qui, da questo concetto, poi lui ha divagato razionalmente.
Ma che cos’è l’uomo? L’uomo non è né più né meno questo tendere verso l’abbraccio,
questo tendere a non lasciare nessuno ai margini, l’uomo è quello che è qui, fatto di carne e ossa, che soffre come te e gioisce come te.
L’uomo allora è il dono gratuito, la vita è questo dono di vicinanza che vedete qui, questo …
Beh, leggete l’ottavo capitolo, non voglio andare avanti perché sembra una predica, ma voglio finire con questa cosa.
Quello che in quel momento si viene creando, con il ripetersi di cose fatte bene, quello che si vien creando non è un’atmosfera,
sono degli ambiti simbolici con cui in continuazione si ripete: la presenza di Dio è qui, apri la tua casa perché Dio entri.
Tutta quella gente, io conoscevo molte persone ed è per questo che sono andato, perché mi sono detto: se non altro, conosco già qualcuno, con cui stare insieme, quella gente accoglie i bambini in casa, quella gente si dedica a educare pancia a terra, quella gente va a fare caritativa a Valdemingomez, alla Canada; mi fermo qui.
Io so che quella gente fa tutte queste cose, e poi va alla Masella, e ci sono 600 persone insieme, con i figli.
Cosa vanno a fare?
Vanno a ricaricare le batterie, cioè a tornare a riaffermare questa loro concezione dell’uomo, che è l’uomo che dipende dall’altro, l’uomo come essere dipendente, perché l’uomo è uno che dipende.
Si capisce bene al fine, quando in questi ambiti simbolici si rende presente a tutti; si è visto chiaramente nell’assemblea: quando uno diceva: “Io mi sento salvato”, io capivo perfettamente cosa stava dicendo quella persona.
Voi sapete che si dice: “Io mi sento salvato”? Io non avevo mai pensato in questi cinquant’anni, non mi interessava la questione se mi salverò o meno, vi dico la verità.
Cosa me ne veniva di più? Cercavo di essere buono e dicevo: se Dio esiste mi manderà in cielo, e se non esiste sarò stato sfortunato, però ho cercato di essere un uomo come si deve.
Questo pensavo. Salvarsi non era un mio problema, eppure qui ho capito, quando qualcuno diceva: «io mi sono sentito salvato», cosa voleva dire,
ho capito che belli sono gli esseri umani nel mondo, ho capito, gli esseri umani, tutti, ho capito il concetto più difficile, quello che non si può capire se non andando, come padre Damian, dai lebbrosi, o andando a Valdemingomez.
Il concetto dell’uomo è difficilissimo da apprendere, certamente non si impara dai libri, si impara così, come fanno loro, ma come sono belli gli uomini! Quanti uomini belli ci sono nel mondo.
Questo è il principio della fede, la fede è questo.
Quando dice questo, la fede, che cosa è la fede? Credere che Dio si è rivelato a noi. Ma no, la fede non è questo.
La fede è: che belli che sono gli uomini di questo mondo. Vedi?
Credi nella bellezza di quello che esiste, che le cose sono bene ordinate, e questo si vedeva perfettamente lì.
E soprattutto, questo altro principio: non ho paura, niente mi farà male, niente mi farà male.
La speranza è questo, questo è l’essere salvato.
Essere salvato. Ho capito che essere salvato significa che niente mi farà del male, io credo che niente mi farà del male, niente, assolutamente niente.
Vedi, io sono stato a Masella, e capisco cosa è essere salvato, questa è la speranza.
E la carità, sapete cosa è?
Io ho capito il principio della carità:
sono una nullità, ma ti apro la mia casa, ti apro la mia casa, questo è il massimo.
È molto difficile imparare questo, e se lo scrivi non puoi andare nell’accademia, questo in una università lo bruciano, lo bruciano perché questo è una bomba, è un siluro impressionante sulla linea di galleggiamento, perché?
Perché stavo parlando del fatto che questa è la cosa ragionevole.
E qui concludo.
Mi hai domandato riguardo a cos’è ragionevole. Attenzione, le formule matematiche più tremende del mondo non dicono niente di niente del mondo, sapete?
È pura logica.
Peano ha fatto vedere che con cinque principi si dimostrava l’intera matematica: numero, successore, eccetera, non sto a dire la proprietà… con cinque principi ha dimostrato che tutta la matematica era possibile e che è tutta un circolo chiuso di pura logica.
Le formule matematiche sono razionali, può farle qualsiasi computer, non le fanno gli animali.
Ma qualsiasi computer sì: è la razionalità, è la logica.
Ma queste tre cose che ho detto – come sono belli gli esseri umani in questo mondo; non ho paura, niente potrà farmi male; e quest’ultima, sono una nullità, ma ti apro la mia porta -, queste sono il vertice della razionalità umana.
Non c’è niente di più grande nella ragione umana, statene certi.
Nessuna formula matematica è paragonabile alla ragione; per dire che quella tra la fede e la ragione è una polemica assurda, inaccettabile!
Nessuna formula matematica è paragonabile alla ragione; per dire che quella tra la fede e la ragione è una polemica assurda, inaccettabile!
Fernando de Haro
Per concludere, Julian, dopo la lettura del libro di Mikel, dopo quello che abbiamo ascoltato questa sera, qualsiasi tentazione di autoreferenzialità, è fatta fuori.
Che responsabilità comporta quello che è successo a Joseba, quello che è successo a noi ascoltandoli?
Carron
In primo luogo, come diceva prima Joseba, la prima azione è l’accettare.
Giussani lo dice in altri termini:
la prima attività è una passività, è accogliere.
Quindi la prima responsabilità che abbiamo noi è renderci conto del regalo che ci ha fatto la vita che ci ha fatto ultimamente Cristo, nel darci una persona che ci ha insegnato nuovamente a guardare, perché senza di questo, senza questa semplicità – per usare la parola del Vangelo -,
senza questa povertà di spirito con cui Mikel ha potuto guardare la realtà togliendosi uno dopo l’altro tutti i filtri che gli impedivano di vedere, lui ci ha restituito la realtà che pensavamo di conoscere,
che lui pensava di conoscere, che noi pensavamo di conoscere, ma che ci fa andare fuori da noi, perché questa è la vera fedeltà alla grazia che abbiamo ricevuto.
Prima Mikel ha cercato di descrivere qual’è la novità.
Don Giussani lo ha descritto in un paragrafo che mi permetto di leggere in chiusura.
Come descrizione di quello che Mikel ha cercato di delineare molto bene:
«La cultura di oggi ritiene impossibile conoscere, cambiare se stessi e la realtà “solo” seguendo una persona».
Don -Giussani
Quello che hai fatto tu (Mikel) è stato seguire -,
«La persona nella nostra epoca, non è contemplata come strumento di conoscenza e di cambiamento, essendo riduttivamente intesi, la prima come riflessione analitica e teorica e il secondo come prassi e applicazione di regole».
don Giussani
Come risponde don Giussani – come ha spiegato Mikel a partire dalla sua esperienza, senza aver letto questo brano di don Giussani – a questa sfida che ci lancia lo sguardo della cultura in cui viviamo?
Mi ha sempre colpito questo: che per farci vedere questo, Mikel ci ha descritto uno sguardo che ha eliminato i filtri e che si è messo ad imparare seguendo gli altri, perché la cosa più strana è che una persona con tutta la sua cultura si sia messa a seguire quello che vedeva, quello che ha richiamato la sua attenzione.
Giussani dice
«invece Giovanni e Andrea, i primi due che si imbatterono in Gesù, proprio seguendo quella persona eccezionale hanno imparato a conoscere diversamente e a cambiare se stessi e la realtà. Dall’istante di quel primo incontro il metodo ha cominciato a svolgersi nel tempo».
E come si sviluppa?
Se uno davanti al fatto cristiano – come Giovanni e Andrea davanti a Gesù -, ha percepito che seguire quella persona era la forma più ragionevole di vivere, perché introduceva un fattore di conoscenza della realtà a cui io non arrivavo con tutti i miei filtri, con tutti i miei pregiudizi, con tutte le mie lenti.
E così, meno autoreferenzialità significa metterci a guardare e imparare quello che ci ha insegnato ciò che ha originato l’esperienza che ha sorpreso Mikel.
Perché noi abbiamo potuto vivere un’esperienza come quella che viviamo solo perché uno ci ha insegnato a guardare così.
Che è in fondo, come dice lui stesso, la novità che ha introdotto Gesù, il metodo attraverso il quale io conosco la realtà, conosco me stesso, conosco la dignità dell’altro, conosco l’altro senza ridurlo.
È lo sguardo che Gesù ha introdotto nella storia.
Zaccheo aveva mille limiti, ma c’è uno che lo guarda con uno sguardo assolutamente nuovo, e questo lo cambia.
Tutti gli altri stavano facendo una analisi, stavano cucendo i panni addosso a Zaccheo, ma nessuno lo cambiò come quello sguardo: perché?
Perché quello sguardo gli ridonava la coscienza che non aveva.
E quando uno percepisce questa cosa su di sé, come Zaccheo, «oggi la salvezza è entrata in questa casa»!
Mikel può dire lo stesso: oggi la salvezza è entrata in casa mia.
Ossia, la salvezza, che non lo interessava, comincia ad avere una densità, una pertinenza, perché è piena di carnalità, non è salvezza che è solo per il futuro, è una salvezza che comincia già qui e che è ragionevole, come dice Gesù, chi mi segue vivrà cento volte meglio, potrà vivere cento volte meglio il rapporto con gli altri, potrà avere una relazione con la vita e con le cose cento volte migliore, più intelligente e più umana.
Questa è la salvezza che cominciamo a gustare, e quando uno comincia a gustare questo, diventa interessante.
Perché allora la salvezza viene tirata fuori da quell’isolamento in cui noi abbiamo messo la parola salvezza, come una cosa che avverrà dopo, o che potrà interessare qualcuno.
Il fatto è che la salvezza coincide con questa esperienza di uno che ti fa partecipare a un luogo, che è la comunità cristiana, e la comunità cristiana è come il germe di quello a cui tutti siamo destinati; a chi non piacerebbe stare in un luogo dove si sente abbracciato così, stimato così, guardato in tutta la sua grandezza a prescindere dai limiti, nel modo che Gesù ha introdotto nella storia.
Questa non è una autoreferenzialità, questa è la responsabilità più grande che abbiamo,
perché è qualcosa che abbiamo ricevuto gratuitamente e che possiamo solo dare gratuitamente.
Come? Vivendola.
Fernando de Haro
Per usare le parole di Joseba, uno è provocato a uscire dal suo modo abituale di guardare le cose di dar per saputo quello che ha tra le mani.
Ascoltando voi tre, uno si rende conto che ha molto da imparare che ha molto da camminare, che ha molto da apprezzare, che ha molto da guardare per poter vedere, che ha molta strada davanti a sé.
Grazie a voi tre per le vostre parole, grazie a Mike per il libro. Buona notte
In memoria di Mikel Azurmendi
Mikel è deceduto il 6 agosto 2021, riporto il messaggio letto dalla moglie al funerale.
«Eri il mio sole, la mia gioia, il mio coraggio, la mia fermezza, il mio tutto. Dico che lo eri perché oggi dico “sei quasi il mio tutto” e quel “quasi” cambia tutto. L’uno nell’altro abbiamo trovato il segno di un amore più grande, il vero sole e la vera gioia, insieme abbiamo trovato la direzione verso la vita buona che tanto tanto cercavamo. Il Signore, finalmente, ha avuto pietà di noi ed è venuto a cercarci e ci ha mostrato la strada per mano dei suoi testimoni sulla terra. “Chi ci separerà dal suo infinito Amore”, niente e nessuno. Eri pronto per questo momento, anche se ci sono sempre questioni in sospeso, scuse da chiedere. Oggi chiedo scusa davanti a tutti nel tuo nome perché so che questa era la tua volontà, specialmente a Jose Mari, Miguel e anche Iñaki. Questa strada che abbiamo iniziato mano nella mano ci ha insegnato un nuovo modo di guardare tutto, su questa stessa strada si incontrano altri pellegrini, che con il loro esempio, vivendo con loro, si impara a chiedere perdono, a perdonare, ad essere più grati, il cuore di pietra diventa di carne. Tutto ciò che il Signore ti chiede è l’atto di libertà e di coraggio, quando vuoi, quando lo vedi, di aprire la botola e lasciarlo entrare. Lui non si stanca mai mai di bussare alla tua porta. Abbiamo visto i nostri amici cristiani ringraziare il Signore anche in circostanze molto difficili. Oggi la tempesta ha infuriato molto, molto forte, ma il Signore è nella nostra barca, non temo nulla. Oggi oso dire in mezzo a questo dolore di cui non sono ancora pienamente consapevole: grazie, grazie Signore per tutto quello che mi hai dato, grazie per essere venuto in nostro soccorso, grazie per darmi Mikel come segno del tuo Amore, grazie per questi quasi 6 anni di felicità. Il nostro matrimonio è stato per il nostro mutuo accompagnamento al nostro destino, per andare mano nella mano a scoprire la nostra vocazione verso di Te. Ti chiedo forza Signore e a te Mikel, che sento nel mio cuore, che sento vivo, aiutatemi a continuare in questo cammino d’Amore con maiuscola, aiutateci coloro che siamo ancora in cammino, aiutate N, il suo amato figlio, J, J, M, tutti quelli che lo hanno amato e sono qui oggi, tutti quelli che ti hanno amato e non sono potuti venire, il mondo intero perché da quando ti abbiamo conosciuto non c’è più nessuna domanda che sia limitata solo all’ambiente più amato e conosciuto. Sei volato al Padre il 6 agosto, il giorno della Trasfigurazione di Gesù, gli apostoli hanno detto lì duemila anni fa: “come è bello qui”. E tu Mikel, da venerdì ti ho sentito dire, torrenziale come sei sempre stato, “come è bello essere qui”. Non invano è inciso sulle nostre fedi: “Cristo è la nostra pace”. E oggi, in questo ultimo accompagnamento sulla terra, ci dice: “Vegliate e pregate, perché non sapete né il giorno né l’ora”. Non abbiamo mai finito una lettera senza un “ti amo”. Ti amo Mikel, ti ho amato follemente, che le nostre lettere d’amore non finiscano mai. Grazie, grazie mio Dio, grazie. E se mi permettete leggere ancora una frase dall’Apocalisse secondo San Giovanni: “Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non ci sarà più la morte, né lutto, né pianto, né dolore, perché le cose di prima sono passate”. Grazie, grazie a tutti».
Richiesta di Mikel per entrare nella fraternità scritta poco prima di morire
Caro Nacho,
sto maturando da tempo la mia adesione a CL e credo sia giunto il momento di farvene richiesta. Da quando ho finito di scrivere L’Abbraccio, sto facendo un cammino in cui confido sempre di più nel fatto che la mia rinascita come cristiano sia definitiva, perché si basa sulla mia assoluta accettazione e dedizione a Gesù.
Da una parte, ho preso coscienza di essere molto amato da Dio, per non dire troppo amato, visto l’eccesso di perdono che ho ricevuto. E di questo posso solo esserGliene grato con una maggiore dedizione personale.
Dall’altra, la lettura meditata di Generare tracce nella storia del mondo – libro che stiamo leggendo anche alla SdC (Scuola di Comunità) – mi spinge a rompere un ultimo e vecchissimo pregiudizio anarchico sul non permettermi di «appartenere» completamente, di restare come un perpetuo gabbiere senza consegnare a nessuno la cabina di vedetta della mia propria navigazione.
Ho compreso che il «sì» di Pietro ha generato la nascita di un Popolo, un’unità di gente-in-incontro, una certa «entità etnica», come disse un Papa. Ho capito il significato di «obbedire» come l’unico modo per trascendere il mio io verso l’Altro, così come un calciatore “obbedisce” al suo allenatore. Cioè, che devo “dare retta” a voi pastori che state guidando questa tribù il cui stile di vita mi ha tanto commosso.
È passato il tempo di «essere come voi», ora mi propongo di «essere con voi». Devo andare oltre l’essere un vostro compagno di cammino per diventare compagno del vostro cammino.
Spero che, con questa consegna del mio orgoglio, una certa povertà di cuore mi incammini di più verso la speranza e a realizzarla nel mio Destino già così prossimo.
Ecco, rimango a vostra disposizione con un grato abbraccio.
Mikel
VIDEO CONFERENZE sul “caso” Azurmendi

Video di presentazione di Azurmendi al meeting 2020 e alla giornata di inizio anno

Incontro di Fernando de Haro con il Centro Culturale di Pescara su come è nata la vicenda di Azurmendi

Marco Bersanelli dialoga con il Centro Culturale Miguel Mañara sul libro “L’abbraccio” di Mikel Azurmendi

