Riassunto di “Si può vivere così?”

Temi di «Si può vivere cosi?» in ordine alfabetico

A BCDEFG ILMNOPRSTUV

Parte seconda: la speranza


4 ° Cap. LA SPERANZA (175)


Links ai titoli e sottotitoli

  1. Una certezza nel futuro
  2. La dinamica della speranza
  3. Verso il possesso di un bene arduo
  4. SPERANZA/assemblea

«Caratteristiche della mia umanità» coincide con le «caratteristiche della mia personalità cristiana»

Abbiamo faticato per incominciare a capire la fede.

La speranza è l’altro fattore decisivo per la costruzione della personalità cristiana.

Attraverso la fede, ci troviamo e ci vantiamo – siamo contenti davanti a chiunque – nella speranza della gloria di Dio.

Fa venire fuori dalla parola fede quest’altro fiore o quest’altro frutto che si chiama speranza, speranza nella gloria di Dio: gloria di Dio vuol dire Dio riconosciuto.

Lo scopo di tutto, che si muove lentamente, è la gloria di Dio, vale a dire tutto il mondo griderà: ” Il Signore è Dio, il padrone è Dio, il capo è Dio”.

Insomma, nel discorso cristiano, che comincia con la parola fede, vien fuori immediatamente un frutto, c’è, come seguito, questo fiore nuovo che si chiama speranza il cui contenuto è la gloria di Dio: speranza che tutto il mondo riconosca Dio, speranza che Dio si faccia riconoscere da tutti e dica: «Io sono», cioè «ho vinto!».

«Forti di tale speranza, siamo ripieni di sicurezza».

Dico semplicemente che l’uomo cristiano è fatto così: è fatto di fede su cui nasce e attecchisce il fiore che si chiama speranza.

E’ il fattore secondo perché deriva dal primo, e il primo è la fede: senza fede non c’è speranza, con la fede ci può essere speranza.


1 – Una certezza nel futuro (180)

La fede è riconoscere una Presenza certa, la speranza è riconoscere un certezza per il futuro che nasce da questa Presenza.

Riconoscere il contenuto di una Presenza che è incominciata duemila anni fa, riconoscerla presente adesso, come si chiama? Memoria, perciò la speranza ha un nesso radicale con la parola memoria, così che senza memoria non ci può essere speranza.

La certezza del futuro è basata su una cosa presente che riconosci con certezza; la certezza di un presente ti rende certo di un futuro.

La certezza della presenza di Cristo è la certezza di una cosa che è incominciata duemila anni fa, perciò non si può fare memoria di Cristo come Presenza senza in qualche modo interessarti, meravigliarti, stupirti, vantarti, inorgoglirti, essere contento di tutto ciò che è accaduto in questi duemila anni.


La speranza riguarda solo la fine del mondo, il futuro ultimo o anche cose che vengono prima della nostra vita?(182)

Riguarda il futuro come da vocabolario. La fine del mondo è la fioritura totale del futuro.


Non ho capito quando hai detto che la fede nasce in modo che noi non possiamo vedere, ma possiamo sapere.(182)

Se la ragione è coscienza della realtà secondo la totalità dei suoi fattori, se tu riconosci che io ho la fede, anche se non capisci come avviene la fede –  proprio non capisci – sei costretto ad ammettere che c’è un fenomeno che si chiama fede.


In quello che ci siamo detti le parole più importanti sono:

1° -La parola fede è riconoscere con certezza una Presenza

2° – la parola certezza che riguarda il futuro

3° – Il nesso tra il primo e il secondo punto.

«Per sperare occorre aver avuto una grande grazia»

Péguy

La grazia è la certezza della fede. La grande  grazia della certezza nel presente.

È la certezza di un presente, perciò di un significato nel presente che, nel tempo, dà luogo a una certezza nel futuro.


Un possesso già dato (186)

La speranza è la certezza nel futuro che si appoggia su un possesso già dato,

perché il presente non te lo dai tu, lo ricevi: «è una grande grazia».

Possesso perciò rapporto stretto, profondo con la tua persona; già dato, che ti viene dato da un altro, che non hai conquistato tu.


Sicuri del compimento (187)

Fil. 1,6 – «Colui che ha iniziato in voi quest’opera buona la porterà a compimento nel giorno di Cristo».

Fil. 1,6

Essere sicuro che Lui porta a compimento quello che mi ha dato, vuol dire essere sicuro della mia felicità, essere sicuro del mio destino, essere sicuro del mio compimento, essere sicuro dello scopo della vita.

La speranza cristiana è certezza, una certezza che riguarda il futuro invece che il presente.

È un bel respiro perché te l’ha data Lui, è evidente che te l’ha data Lui, perché ce l’hai e non te la sei data tu.

Puoi dormire in pace perché il futuro è sicuro; la sicurezza per il futuro viene da una grande grazia: la grande grazia è presente, la sicurezza del futuro deriva da questo presente.


2 – La dinamica della speranza (188)

Siccome non c’è niente di automatico, come dalla fede nasce la speranza? C’è una condizione per cui, se uno vive la fede, ne deriva la speranza?

Domanda giusta e acuta.  Vorrei che fosse capita prima di dare ad essa una risposta.


Il desiderio (189)

In che senso qui c’entra la libertà?

Come desiderio, come domanda che duri una cosa iniziata…

La dinamica della fede, che è credere, affermare un presente eccezionale per la sua potenza, diventa certezza per un futuro mutandosi in desiderio definito e soddisfatto dalla fede stessa, trasformandosi in domanda al potere che la fede rivela presente: «Come domanda, come desiderio che maturi una cosa iniziata», il dono che Cristo fa di sé a noi, nel presente.

La libertà si gioca nel desiderio, e domanda con certezza che da Lui venga la nostra felicità.

L‘esperienza di una Presenza eccezionale fa scaturire nel cuore dell’uomo un desiderio che riguarda il futuro: il desiderio che quell’uomo lì rimanga, il desiderio che quell’uomo lì metta a posto le faccende di casa, metta a posto il figlio……

La dinamica della fede è l’affermazione di un’esperienza; la speranza è il desiderio che qualcosa accada in un futuro.

Come nasce?

Come affermazione dell’adempirsi di un desiderio.

La speranza è affermazione risolutiva di un desiderio in cui i bisogni del cuore sono determinanti.

Le esigenze del cuore dicono che l’oggetto del cuore c’è, nel futuro c’è, perchè l’uomo è destinato ad essere felice e vero.

E’ destinato a questo, ma la certezza che questo accadrà non può essere sostenuta dal nostro cuore.

La certezza che questo accadrà può derivare soltanto dalla Presenza che la fede riconosce, dalla Presenza eccezionale che la fede riconosce.

Solo questo può reggere la ragione di una certezza nel futuro.

Diventa certezza nella misura in cui realizza la sicurezza nel potere della grande Presenza.

Perciò la dinamica della speranza è un desiderio che non potrebbe resistere nel tempo, sarebbe sempre amaramente deluso, se non fosse sorretto, retto come ragione dalla fede, dalla certezza nel potere della grande Presenza.


La certezza dell’adempimento (191)

Ma come fa questo desiderio di attuazione del bene, che acquista fiducia nella certezza della grande Presenza, a diventare certezza, che la grande Presenza risponderà?

Perché me l’ha promesso.(192)

Il desiderio diventa sicuro di sè quando lo domanda, quando domanda, quando il desiderio del cuore diventa domanda.

La domanda si sostiene su una certezza nella risposta che la grande Presenza dà perché la grande Presenza lo ha promesso.

«Domanda», questa era la parola. Ma «l’ha promesso» è fondamentale, è ciò che rende ragionevolmente certa la domanda stessa.


Il sogno e l’ideale (192)

NB: Le esigenze del cuore pretendono di essere esaudite.

Il cuore dell’uomo sogna, così che le sue esigenze vengano soddisfatte: sogna, dà un forma positiva al suo cammino.

Ma il sogno del cuore dell’uomo non può sostenere le ragioni di una certezza, della certezza che le esigenze siano esaudite.

La certezza che esse siano esaudite viene dal fatto che la grande Presenza ha promesso che avrebbe esaudito l’uomo, se l’uomo glielo chiede.

Perciò, della memoria la speranza esalta la promessa; della fede la speranza esalta la promessa.

  • Ideale: si chiama ideale l’oggetto della certezza che le esigenze del cuore hanno di essere esaudite. Le esigenze del cuore poggiano la loro certezza nella domanda che fanno alla grande Presenza.
  • Sogno: il sogno è dato dal fatto che le esigenze del cuore, le esigenze originali hanno talmente sete di essere esaudite che, dimenticando la grande Presenza, tendono loro a darsi, a immaginare la forma che le esaudirà.

Il cuore dell’uomo è fatto per la felicità.

Se riconosce la grande Presenza, se vive la certezza della grande Presenza, capisce che è dalla grande Presenza che può venire la ragione della certezza che i suoi desideri si attuino; perciò domanda con l’aiuto della grande Presenza di raggiungerli così come essa vi ha dato forma eterna: questa forma si chiama ideale.

Cioè la speranza si traduce in desiderio di sogno o in desiderio di ideale.

Io non ho capito cosa è l’ideale…(194)

L’ideale è l’oggetto di perfezione, di felicità per cui il cuore dell’uomo è fatto, che da solo non può raggiungere; da solo può dare delle forme sognanti, perché prende pretesto dalle circostanze e non dalla grande Presenza.

L’ideale, invece, è il desiderio di felicità che il cuore ha e che riconosce possibile solo con l’aiuto della grande Presenza.

L'ideale, perciò, è il desiderio ultimo del cuore, che l'uomo cerca di raggiungere fidandosi della grande Presenza.


Una domanda che invade tutto (195)

Allora si capisce bene che

Tutte le circostanze in cui l’uomo vive sono tentazione di sogno oppure segni dell’ideale.

Cosa vuol dire segni dell’ideale?

Vuol dire che l’uomo scopre che l’attrattiva che tutte le circostanze hanno è qualcosa di provvisorio che rimanda all’attrattiva definitiva e ultima della grande Presenza.

Significa che tutte le circostanze, per quanto di bene, di bello e di affascinante hanno, richiamano all’insuperabile bellezza della presenza del Mistero, della presenza di Cristo.

L’inoltrarsi nelle giornate ciò che ultimamente domanda è solo questo: che l’amore a Cristo cresca, così l’uomo cammina verso la sua felicità.

La speranza è la prima caratteristica di un io, di una persona che cammina  nel tempo

Perciò la speranza mette in luce se ciò che accade – cioè le circostanza –  conduce l’uomo alla delusione, defrauda l’uomo della sua libertà di domanda; oppure rivela la grande Presenza che l’uomo ha incontrato e che diventa il destino segnato da tutte le cose, quel contenuto di cui tutte le cose sono segno, e soprattutto l’oggetto ultimo della sua domanda.


3 – Verso il possesso di un bene arduo (196)

Quando vi diciamo le nostre parole, che anche a noi sono state dette come sono dette a voi, ricordiamo i tempi in cui anche per noi queste parole erano come dei sassi che ci venivano buttati in faccia.

Prima entrano nel cervello e perciò non vogliono dire ancora nulla, ma poi penetrano nel cuore e allora cominciano a voler dire qualcosa.

Non ci si deve meravigliare se non si capisce, ma guai a colui che, non comprendendo, pianta lì, e dice «Non capisco!», guai! È finita per lui, è un rifiuto che sarà sempre senza frutto.

Bisogna guardare in faccia, dovete abituarvi a guardare in faccia queste parole; anche soltanto avere lì la parola davanti agli occhi e guardarla, poco o tanto, vi fa penetrare da essa.


Certezza e desiderio (198)

Primo, abbiamo detto che la speranza è la certezza nel futuro motivata  dalla certezza di un presente; e, secondo, che la dinamica che la speranza imprime nel nostro io, nella nostra coscienza, si chiama desiderio.

La certezza di un bene ancora assente, che avverrà nel futuro, perciò una attesa, coscientemente, quindi, un desiderio.


Il desiderio di un bene arduo (198)

Cosa vuol dire un bene che si desidera ma che è arduo?

Significa che si desidera un bene o un valore, l’avere il quale costa.

In qualche modo costa, è arduo, è faticoso,

Esige una pena e una fatica.


L’inevitabile incertezza (199)

Fra la certezza della fede e il seme che essa è di una certezza futura c’è un periodo che può sembrare incertezza.

La certezza della fede genera la certezza della speranza, ma la modalità con cui questa certezza della speranza è suscitata in noi lascia come un disvagamento, lascia come una tribolazione, come un dubbio, che è incertezza, perché non si riesce a immaginare, a delineare in nulla come sarà questo futuro.

Sarebbe però irrazionale che noi non fossimo certi del futuro, solo perché non riusciamo ad immaginarci, a delinearci come possa essere questa figura nel futuro.

La difficoltà a delineare come possa essere questo futuro non è un’obiezione alla certezza del futuro.

La  certezza è l’oggetto della ragione; la delineazione di come è questo futuro è una capacità immaginativa che ha chi di più e chi di meno.

Allora ho voluto scostare il velo di un obiezione inutile:

confondere l’immaginazione e la fantasia con la ragione.

La certezza è oggetto della ragione; meglio, è fondata sulla ragione, non sull’immaginazione; e la vaghezza della immaginazione non dà nessun motivo per dubitare della ragione.


A) – Un cammino che è fatica (202)

Il compimento del nostro destino implica sempre una modalità di cammino che è fatica, perché il compimento del destino, il cammino al destino è una prova da superare: in questo senso si dice che è arduo.


B) – La forza di Gesù (202)

Lo Spirito indica la modalità con cui la grande Presenza prosegue il cammino con noi: lo Spirito è l’energia di luce e di cuore con cui Cristo mantiene la sua presenza e così ci aiuta, ci conforta ad affrontare le prove.

  1. Ci fa capire che non sono le prove a definire la vita, la vita non si esaurisce nella prova
  2. Attraverso le prove ci fa camminare costruendo così la nostra vita, la nostra vita che non verrà mai meno.
  3. Soprattutto lo Spirito di Cristo, sempre presente nel cammino attraverso le prove, ci insegna la grande parola del cammino della speranza: la pazienza.

Un corollario: la pazienza

La pazienza essendo ultimamente la capacità di portare tutto nel coraggio ragionevole di non rinnegare nulla, di non dimenticare nulla e – attenzione! – di non rifiutare nulla.

sono tre parole importanti

  • Non rinnegare nulla: rinnegare è un capriccio
  • Non dimenticare nulla: si dimentica quando la cosa non interessa o perché abbiamo interesse a non pensarci: è l’eludere.
  • Non rifiutare nulla: si rifiuta quando si comprende una cosa, se ne comprende l’importanza, se ne comprende la necessità, ma le si sputa addosso.

«Nella vostra pazienza possederete la vita».


C) – Fedeltà all’appartenenza (205)

La fatica della speranza è rimanere: «Rimanete con me».

Resistere nel rimanere in Cristo, nella fedeltà all’appartenenza, la fedeltà alla propria vita come appartenenza, come riconosciuta appartenenza.

La fedeltà all’appartenenza, che è la stoffa della pazienza ed ha un unico modo per esprimersi: la domanda o mendicanza a Cristo presente.

L’uomo sarebbe totalmente abbandonato se non si abbandonasse a questa appartenenza.

I nemici di questa fedeltà sono la discontinuità (un giorno su e un giorno giù) e la schizofrenia quando uno è rotto dalla testa ai piedi.


D) – La domanda del perdono (206)

L’aspetto più difficile della fedeltà alla domanda e alla mendicanza è la domanda di perdono, certi di essere perdonati.

Riprendere a sperare dopo un nostro errore è un gesto così grande che Péguy lo definisce: «Il segreto mistero della speranza», perché il perdono del male è proprio mistero: […] è la rinascita.

Il Battesimo è il principio di questa rinascita.


L’opposto della pazienza (207)

L’opposto della pazienza non è l’impazienzal’impazienza è un difetto della pazienza.

L’opposto della pazienza è quella specie di rassegnarsi verminoso, è quel procedere serpentino che deriva da tante cose, per esempio dalla pigrizia.

Si chiama tiepidezza

La tiepidezza è seguire il cammino della speranza con naso storto, è chi ci sta senza starci e perciò non è gradito né a Dio né ai suoi nemici.

Ma soprattutto la tiepidezza è un modo di vivere la sequela di Cristo che stufa sé, che stufa noi stessi, che è senza luce, senza brillio, senza energia creativa, senza dolcezza, senza progetto: cioè senza speranza!

Sperare senza sperare, che è il contrario della grande frase che san Paolo ha detto di Abramo: «Sperando contro ogni speranza».

La tiepidezza come opposto della fortezza.


La testimonianza (208)

La testimonianza è un pezzettino di morte per Cristo, ogni testimonianza. Concretamente si chiama missione.


SPERANZA/Assemblea (210)

Qual è la forza che il popolo ebraico ha avuto nel camminare per quarant’anni verso un destino che non conosceva? Che Dio era con loro, la forza era Dio con loro, si chiamava Alleanza.

Il termine della speranza sotto che forma era stato reso noto a loro? Come promessa.

Il cuore dell’uomo è una promessa (211)

L’uomo nasce con un cuore in cui sta una promessa.

Al popolo ebraico come aveva fatto quella promessa? Ad Abramo aveva detto: «Ti prometto…».

La speranza di Abramo era ragionevole. Perché?

La promessa di Dio corrispondeva al cuore di Abramo e la promessa era fatta da Dio: per questi due motivi era ragionevole.

Così la vita che ci è stata data è speranza, ragionevole speranza, speranza ragionevolmente fondata.

Perché? Perché ci viene da Dio – non ci siamo fatti noi – e ciò per cui Dio ci ha fatti lo sentiamo nel cuore, corrisponde a quello che il cuore è.

Come Abramo ha sentito il peso della prova, così a noi nella vita tante volte viene da rinnovare questo lamento: «Non ho questo, non ho quello. chissà?».

Ma è ingiusto. Perché è ingiusto?

Perché censura qualcosa che è già accaduto (213)

Censura qualcosa che ti è già accaduto.

Ti è già accaduto di essere stata fatta con cui cuore così, col cuore come esigenza di felicità.

Ciò che ti è accaduto è che sei stata creata e quindi è divino quello che senti perché ti deriva da chi ti ha fatto.

Ma quel che abbiamo detto fino ad ora è valido per tutti gli uomini.

È il primo riferimento unitario degli uomini: ciò a cui la natura dell’uomo tende è sensibile e attuabile allo stesso modo da tutti.

Che differenza c’è allora?

Mi è accaduto un incontro (214)

A noi è accaduto qualcosa che agli altri non è accaduto.

Per tutti gli uomini vale quello che abbiamo detto finora, ma tutti gli uomini non l’hanno chiaro.

Pensate alle immagini con cui tutti gli uomini coprono il mistero del loro futuro.

E il vero atteggiamento con cui gli uomini stanno di fronte al destino è come un’ultima riserva, quasi cautelativa, un’ultima riserva o, come abbiamo detto prima, un gran «Chissà?» che dilaga.

Ma poi, loro, nel definire il loro destino, devono anche definire il fatto che l’uomo va contro il suo destino (tante volte lo tradisce), cioè che il destino premia o castiga.

Quindi un guazzabuglio di immagini per esprimere l’una o l’altra cosa

Non hanno risposta al problema del male, una risposta sicura al problema del male.

Comunque, da come concepisce Dio, da come concepisce la forza da cui dipende e da come concepisce il destino per cui è stato fatto, da tutto ciò l’uomo deriva l’immagine della vita quotidiana e del rapporto uomo-donna, del rapporto della gente del villaggio, della tribù, il concetto del passato e il concetto del futuro.

Allora il modo di concepire i rapporto scaturiva da come concepivano (i filosofi dell’areopago) la dipendenza ultima, da come concepivano il destino ultimo.

Perciò, grande aberrazione, non era possibile che riuscissero a tenere in linea giusta un rapporto naturale: tutti i rapporti naturali erano alterati, non stavano in piedi da soli.

Per questo c’è stato sempre nella storia dell’uomo, qualcheduno, qualche spirito bizzarro, o meglio, qualche spirito più illuminato che ha pensato.

«Se il Mistero che ci ha creati, se il Dio che ci ha creati venisse a farsi vedere, si facesse conoscere! L’unico modo per conoscerlo è che venga Lui a farsi conoscere perché noi, con tutti inostri sforzi non riusciamo a concepirlo».

Ma Dio, quando è venuto, da chi è stato riconosciuto?

Gli ebrei che vivevano con i sentimenti di umiltà, di fiducia in Dio, di abbandono a Dio, di certezza continuata nonostante la prova, quelli che vivevano così l’hanno riconosciuto; quelli che non vivevano così, non l’hanno riconosciuto.

Chi aveva quei sentimenti lo ha riconosciuto; chi non li aveva non l’ha riconosciuto neanche quando ha risuscitato Lazzaro.

Perciò la grande questione è ritornar bambini, la grande questione è ritornare all’origine, la grande questione è ritornare come Dio ci ha fatti.

Infatti cos’è la moralità?

La moralità è vivere nell’atteggiamento in cui siamo stati fatti.

Soltanto chi è in questo atteggiamento riconosce la sua Presenza.

Tutti gli apostoli, salvo uno.

Gli stanno attaccati più profondamente di quanto fossero attaccati alle loro opinioni, con una semplicità più grande.

Perché essere attaccati alla propria opinione esige la perdita della semplicità,

l’introduzione di una presunzione e il prevalere della propria immagine sull’attesa.

È esattamente il grande pericolo che tutti noi corriamo; il prevalere delle nostre immagini sull’attesa di Dio che ci ha destato nel cuore e che Cristo ci ha rinnovata, anzi ci ha precisata.

Ma il prevalere della propria immaginazione è realmente la grande tentazione contro la fede in Gesù, quindi obbedienza a Dio.

Allora ci lamentiamo quando non accade come vogliamo noi.

Mentre la vita di chi si abbandona alla forza del destino che si è rivelato in Cristo, che si abbandona alla forza di Cristo, è una vita dove la letizia domina.

L’alternativa a questo, nella misura in cui quest’abbandono e certezza non ci sono, è il lamento.

È il lamento che ingombra il cuore e l’orecchio di chi sente, rende pesante la vita di tutti coloro che ci circondano e la nostra vita resta una condanna per gli altri, anche per gli altri: la vita né lamentosa, la vita-lamento, che non conosce né la letizia né, tanto meno, la gioia che è un fiore della letizia.

Ciò che non conosce chi si lamenta, chi imposta la vita come lamento, è la tenerezza.

Nei rapporti manca profondamente la tenerezza.

Questo binomio di letizia e tenerezza – perché solo il cuore lieto può essere tenero nei rapporto; la tenerezza è una sensibilità verso la gioia dell’altro, una sensibilità tesa ad augurare ed affermare la gioia dell’altro -, questo è soltanto in chi si appoggia, accetta, è bambino di fronte a Cristo, come gli apostoli.


Péguy descrive la speranza come una bambina in mezzo alla fede e alla carità, che sono due donne adulte, e le tira quasi, come se senza di lei rimanessero ferme. Ma tu dicevi che senza la fede la speranza non può esserci. Io volevo capire che nesso c’è tra queste due cose.(222)

Come fa l’uomo ad avere il desiderio della felicità?

L’uomo si muove per il desiderio della felicità, perché la sua natura è sete di soddisfazione totale, di verità, di felicità, di giustizia.

Come si chiamano ne Il senso religioso?

Le esigenze del cuore o, in sintesi, cuore, come dice la Bibbia, più giustamente.

Perché la parola ragione può essere un aquilone che sfugge dalla mano e sono pezzi di carta che volano nel cielo.

Il cuore no, il cuore non è un pezzo di carta.

Perciò la parola biblica «cuore» è più solida, più completa di quella che usiamo noi, «ragione».

Che problema c’è in mezzo?

L’uomo ha coscienza che è fatto «per qualcosa», una conoscenza.

Tant’è vero che l’uomo può dire: «Io ho il diritto di essere soddisfatto. Io ho il diritto di non essere distrutto; io ho il diritto di essere, di raggiungere il mio destino, ho il diritto di essere trattato con giustizia».

Questo diritto è la natura di cui è fatto: l’uomo è autocosciente, è cosciente di sé.

Vuol dire che io conosco le cose principali di cui la mia natura è fatta.

La fede ti fa conoscere un fattore presente nella vita del tuo io, nella tua vita, che è più forte ancora della natura.

La fede è coscienza di una Presenza in te e con te, più potente della natura tua, tanto è vero che non ti permette di dire «Chissà?»

«Il cuore dell’uomo è fatto per Dio ed è irrequieto fino a quando non si riposa in Lui»

Sant’ Agostino, Le confessioni

La fede è la coscienza di una Presenza che ti chiarisce lo scopo della vita senza possibilità di incertezze […] e ha una forza tale per cui con Lui raggiungerai ciò per cui sei fatto; con Lui raggiungerai Lui.

Se l’uomo è quel livello della natura in cui la natura si accorge di sé stessa, l’accorgersi di sé, la riflessione introduce al giardino fatato dell’essere.

La fede ti rende certo del destino per cui sei fatto e te lo fa conoscere, incomincia a fartelo conoscere; allora tu ti muovi, allora è la speranza che tira la fede.

La speranza è come un fuoco che tira la fede, tira la conoscenza.

La fede può essere faticosa: la speranza la rende meno faticosa.

la fede può essere faticosa; la speranza la rende meno faticosa, tira la fede.

La fede fonda, fa conoscere ciò per cui l’uomo è fatto e perciò rivela all’uomo ciò per cui l’uomo desidera, ciò che l’uomo desidera; allora l’uomo si mette a correre perché desidera, e questa è la speranza.

La fede si sente a strattoni trascinata dalla speranza.

Ma la serietà, la misura della verità non è data dalla speranza, ma dalla fede.

La misura della serietà è data dalla verità, mentre la misura del gusto e del fascino è data dalla speranza.


La speranza si appoggia, si fonda sulla presenza….(227)

Di tutte le frasi che potete inventare, pensare o sentire questa è la più grande di tutte: la speranza, vale a dire la certezza del destino, è legata ad una presenza, a qualcosa di presente.


La speranza si appoggia su una presenza, si poggia su un possesso (228)

Si poggia su una presenza che tu possiedi, una presenza che ti appartiene.

Ma una presenza che ti appartiene, una presenza che è tuo possesso è anche una presenza cui tu appartieni.


Questo volevo capirlo meglio nel rapporto tra me e Gesù.

Questa Presenza è Gesù che ti appartiene e possiedi Lui e Lui possiede te.

La speranza esige qualcosa d’altro presente che possiede e da cui è posseduta.

È qualcosa che ti rivela ciò per cui sei fatta e ti dà forza di arrivare fin là.

Questa presenza è Gesù.

Il destino si raggiunge attraverso una Presenza, qualcosa di presente.

Se Cristo non c’entra con quel che tocchi e con quel che guardi, non è vero che tocchi, non è vero che guardi.

Non è vero che non c’entri, è che non è vero che guardi, che tocchi, ami, non è vera umanità; tant’è che sei confuso con il tuo destino e sei assolutamente scettico sulla possibilità di raggiungere il tuo destino.

Manca l’umano:

nel dubbio non è Cristo che manca, ma è l'umanità nostra che manca


Dicevi che queste parole sono chiare e astratte e questo di per sé è una contraddizione (229)

Per sentirla astratta ti deve non interessare; prima ti deve non interessare, poi la senti astratta.

Quando si sentono queste cose e sembrano astratte, prima di tutto non bisogna meravigliarsi, perché è parte della tentazione che il peccato originale ha lasciato perennemente in noi

Se decidi che non ti interessa allora la senti astratta (anche se è chiara).

Se non permetti che c’entri con te una cosa chiara che noti in persone legate a te, quella cosa chiara scivola via in fretta, non ti rimane niente, tutt’al più la dici in senso contrario, dici una bugia su di essa, perchè non ti interessava.

Che cosa si deve fare in questo caso?

In questo caso bisogna che tu fissi.

Mentre la parola, apparendoti astratta, cerca di scivolare via, devi fissarla, fissare quella parola, ripeterti quella parola, dire: «spiegami quella parola», devi fissare quella parola in tutti i modi: «Che c’entra con gli interessi che io vivo, ora?».

Allora puoi rischiare a un certo punto di sentire rifluire un calore dentro di te e di incominciare a capirla


L’altra volta si parlava di sogno e di speranza ideale. Io scopro di avere la tentazione di vivere la speranza immediata come sogno e di rimandare la speranza ideale (231)

Che tu faccia sogno il presente è la maschera della tentazione di non impegnarti nel presente.

Allora se sei di buona vena, costruisci un sogno, costruisci tu l’immagine di quel che devi fare nel presente, e fai soltanto quello che sottolinei tu.

Di fronte a un oggetto tu hai una attrattiva o una ripulsa o indifferenza: questo è il sogno cioè la realtà come la pieghi nella forma in cui la pieghi tu, che interessa a te, invece che farti interessarti alla realtà com’è.

La “realtà com’è” è essere nel deserto e improvvisamente vedere la strada, la strada dell’ideale.


Lei ha detto poi: la vita cristiana ti fa vivere il presente con una tale attrazione che ti fa vedere il puntino che è il destino che sta per arrivare, ed è un grande giorno quello in cui ti accorgi di questo. Vorrei sapere cosa vuol dire che è il destino che sta per arrivare (233)

Tutto diventa segno del nostro destino se guardiamo le cose vedendo il rapporto con Gesù vivendo il rapporto con la Presenza.

Se il destino è Presenza, vivendo il rapporto con questa Presenza tutte le cose diventano segno di essa.

Quanto più una cosa ti importa, tanto più è segno.

Segno di che? Del destino che sta per venire…un segno di Colui che è già lì. Destino e Presenza è la stessa cosa: Dio incarnato cosa vuol dire?

Destino fatto Presenza.


Cosa c’entra la speranza con l’esperienza che stiamo facendo adesso? (236)

C’è qualcuno che vuole rispondere?


«Colui che ha iniziato quest’opera buona la porterà a compimento» (237).

«La porterà a compimento» è la definizione della speranza: la sicurezza, la certezza del futuro è speranza. «Colui che ha iniziato in te quest’opera buona» perché la vocazione ti viene da un Altro.

La parola vocazione è l’echeggiare di una Presenza, il passo di una Presenza, della Presenza del destino che ti è compagnia e dettato di quello per cui sei fatto; certezza del destino e amore al destino.

La vocazione è ciò a cui questa voce chiama.

Per natura sua quindi l’essere chiamati ad una vocazione come questa ingigantisce la speranza, ma, prima di ingigantirla, reclama speranza, esige speranza.

Senza speranza muore la vocazione.


Cosa vuol dire che la fatica e il dolore sono nemici della speranza? Perché lei ha detto: «I nemici di questa fedeltà all’appartenenza sono la discontinuità, la fatica e il dolore». (238)

La discontinuità: la non linearità nel mantenere lo stato d’animo giusto: è un errore, una debolezza di carattere.

La fatica: è la tentazione contro la fedeltà, è la messa a prova del carattere.

Dolore: tende a farci essere infedeli; di fronte al dolore uno bestemmia.

La discontinuità è un errore, è una debolezza di carattere.

La fatica è la messa a prova del carattere: anche se fortissimo lo prova, lo mette alla prova.

E il dolore poi vince tutto; qualsiasi forzuto Ercole, di fronte al dolore, di fronte al dolore senza risposta, cede.


Hai detto che l’aspetto più acuto della fatica di permanere nell’appartenenza è il perdono, cioè il domandare di essere perdonati. Potrebbe spiegarmelo meglio? (239)

E’ il peccato originale nell’attuarsi storico delle sue conseguenze, vale a dire è la pretesa che l’uomo ha di possedere lui la sua vita e invece la vita accade in modo diverso.

Il culmine dell’umiliazione per me che pretendo di avere in mano io la mia vita, per vivere, per continuare a vivere è che io abbia bisogno di un Altro che mi perdoni.

Il perdono è la cosa più difficile da accettare perché è proprio il tagliare alla radice la nostra presunzione.

Essere perdonati vuol dire sentire tagliare alla radice la pretesa di abbiamo di possedere noi stessi e di realizzare noi la nostra vita.

Non siamo capaci e perciò sbagliamo sempre.

Noi non vorremmo appartenere se non a noi stessi e allora sbagliamo tutto, ma Colui a cui apparteniamo ci abbraccia lo stesso.

Il perdono resta la tentazione di umiliazione più forte che abbia l’uomo perché la tentazione più forte che l’uomo ha è quella di essere padrone di sé stesso.

Il dover essere perdonato è l’opposto più terribile.

Perciò è realmente la fatica più grande che l’uomo deve fare quella di accettare di essere perdonato


Avevi detto che la speranza è il secondo fattore costitutivo della personalità. Perché hai detto questo? E come si gioca la libertà nella speranza?

La fede è il primo fattore perché è il fattore che ti fa conoscere la condizione per poter essere, per poter stare in piedi e camminare, che è la presenza di un Altro.

Perciò la speranza è la continuità, è la conseguenza della fede per il futuro.


Cosa c’entra la mia libertà? (241)

La speranza è la capacità di affrontare con chiarezza e con forza il futuro, vivendo le tentazioni del dolore, della fatica, della discontinuità o della prova con l’aiuto di un Altro, della presenza di un altro che è la continuità della fede.

La libertà o accetta questo altro o non lo accetta; può accettarlo e non accettarlo.

La libertà si produce immediatamente come accettazione o rifiuto, come sì o come no; e la forma più elementare e decisiva dell’accettazione si chiama domanda.

Nella domanda uno partecipa al gesto che lo aiuta, perciò nella domanda incomincia la libertà piena.


Lei ha detto che le cose chiare rischiano di rimanere astratte e per risolvere ci diceva di fissare queste parole chiedendo e seguendo. L’aiuto per uscire da questa astrazione è un rapporto (242)

Esistere vuol dire vivere un rapporto: se non vivi un rapporto con l’essere non esisti.

L’espressione più compiuta, dove diventa compiuta, dove fiorisce in modo l’accettazione del rapporto, si chiama domanda.

Bisogna raggiungere il concetto di giusto, cioè che la mia vita sia senza destino è una vita da cani. Per rendere il «giusto» concreto e non astratto devo fare la fatica di stabilire rapporti, di vivere dei rapporti.

Nel rapporto lentamente, il giusto – di cui non capisci bene ancora come si fa a farlo sembra astratto – incomincia a diventare concreto.

L’amore come gratuità e come tenerezza lo impari da una persona che vive l’amore come gratuità e come tenerezza, non lo impari teoricamente.

È nei rapporti che l’Essere si cala.

La forma, che il metallo incandescente dell’Essere assume,  sono i rapporti.


Stando con le persone con cui vivo mi sembra proprio che per il mondo la speranza è aspettare che domani accada qualcosa di diverso. E invece per me, piano piano, per grazia, è proprio domandare che domani quello che mi è successo mi abbracci di nuovo e che io possa abbracciarlo di nuovo come oggi, anzi, di più, dentro i volti concreti di questa compagnia. E quando succede così mi accorgo che è costruzione lì dove sono, nel senso che accade uno sguardo positivo sulla realtà. Volevo chiederti se è giusto. (244)

Non solo è giusto, ma invito tutti a fissare questo intervento per la densità del suo suggerimento.

La speranza del mondo è frammentaria e  frammenta la vita, mentre la speranza cristiana, da ciò che accade o riaccade o cambia nell’accadere, da tutto trae una immagine nuova, cioè costruisce, fa crescere la costruzione.


Rispetto a quello che hai detto dei pigmei che avevano pregato Dio, io volevo sapere perché e se è vero che Dio non aveva risposto loro. (245)

Non aveva risposto come non aveva risposto agli altri pigmei Kafka, Camus, Wagner, Omero, Virgilio ecc….nessuno ha avuto risposta, nessuno ha la risposta.

Dio, infatti, doveva fare un passo Lui e dire: «Eccomi sono qui».

È stato in un solo caso nella storia e proprio per questo è insopportabile a tutti.

Ma noi siamo ricercatori di un Dio il cui nome e il cui volto ci sono ben noti: ne conosciamo il nome e la faccia.


Ma chi conosce Cristo allora è inutile che domandi? (246)

No! Cristo è la risposta a tutta la domanda dell’umanità.

E Leopardi chiedeva alla Bellezza di rendersi visibile e di farsi amare.

Era una domanda, la domanda di una cosa che era già accaduta milleottocento anni prima, e non lo sapeva.


Allora risponde in modo diverso? (247)

No, Dio risponde in modo preciso: si chiama Cristo. Perché Dio si può conoscere solo se si rivela.


Allora i pigmei che non conoscono Cristo? (247)

I pigmei che non conoscono Cristo, a loro modo chiedevano di conoscere Dio.

chiedevano al dio che li aiutasse; perché il modo di conoscere del bambino è quello di essere aiutato.


E Lui rispondeva? (248)

Rispondeva secondo un disegno che era Suo.

Infatti aspettarono e aspettarono finché arrivò un bianco con la barba lunga, un missionario comboniano.

Sempre Dio risponde.

Ma la risposta di Dio non può coincidere con la dinamica del nostro pensiero,

a meno che non sia sorpresa nella sua origine: allora è una dinamica giusta, si capisce la risposta, infatti è una dinamica senza fine.

Ma in linea di massima: come dice la von Speyr: «Tra offerta ed esaudimento vi è sempre un contrasto, uno sbaglio,  una svista».


L’atteggiamento morale è una grazia o è frutto di una educazione?. (249)

L’atteggiamento morale è innanzitutto frutto dell’atto che ti crea, perciò è essenzialmente una grazia.

La legge morale è quindi mantenersi nella posizione originale in cui l’atto creatore ci ha fatti, è quindi l’essere bambino.

Se l’educazione del bambino non opera con insistenza sugli atteggiamenti originali in cui è stato creato, il tempo come tale le svapora, toglie loro la luce che hanno.

La moralità è permanere nella posizione in cui originalmente Dio ti crea, e questa è grazia;

senza l’adempimento del contesto, senza l’educazione quei semi non si svolgono.


Fa obiezione il fatto che il bene che noi operiamo sia arduo, costi per averlo. Perché noi abbiamo questo atteggiamento, come se non dovessimo fare fatica? (251)

Essendoci dato il cuore come esigenza di felicità, noi diciamo: «dovremmo trovarla a buon mercato»: come è stata grazia l’avere l’esigenza della felicità, dovrebbe essere almeno a buon mercato il riuscire a ottenerla.

Invece Dio è morto in croce per far vedere a tutti che ottenerla deve costare, deve implicare un sacrificio: questa è la grande parola.

Ratzinger dice che diventa ragionevole per l’uomo solo qualcosa che è passato nella sua esperienza.

Perciò anche la tribolazione delle tentazioni, le prove degli affetti, la fatica della purità, la fatica della coerenza, della giustizia, sono tutte esperienze attraverso cui l’uomo è condotto da Dio per essere più Cristo, per essere più compiuto.


Però arduo non si contrappone a semplice (252)

Semplice è la modalità con cui affrontare l’arduo.

Se guardi l’arduo senza semplicità sei pieno di obiezioni.


Parlando della pazienza lei diceva che rispetto al peso che ha la realtà l’uomo ha due posizioni possibili: o una posizione più superficiale, per cui dimentica il peso dell’oggi e dice: «godiamocela finché possiamo»; oppure un atteggiamento più serio, che lei ha definito come magnanimità stoica, in cui uno prende su di sé questo peso. Però diceva anche che è come Atlante, che fa un passo e questo lo schiaccia. (252)

Perfetto!

E diceva che la pazienza è molto più vicina a questo secondo atteggiamento. Proprio perché questa magnanimità da soli è insostenibile, io volevo chiederle in quanto la pazienza è vicina a questo e dove si distingue (253)

La pazienza  è vicina a questo in quanto deve patire, cioè sopportare questo, è il concetto di pazienza come sopportazione; ma si distingue della magnanimità stoica in quanto è l’inverso di essa, in quanto è umile sicurezza della forza di un Altro.

RITORNA ALL’INDICE DEI TITOLI


Indice generale dei capitoli in prima pagina


Temi di «Si può vivere cosi?» in ordine alfabetico

A BCDEFG ILMNOPRSTUV