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6° Cap. LA FIDUCIA
Links ai singoli titoli e sottotitoli
- Il percorso dalla fede alla fiducia
- La fiducia è affidarsi a uno
- I corollari della fiducia
- Il banchetto più grande della storia della casa
- Coscienti del tempo
- FIDUCIA/Assemblea
Il percorso dalla fede alla fiducia
FEDE (271)
Ho detto che la fede è una forma
Di conoscenza che è oltre il limite della ragione.
Perché è oltre il limite della ragione?
Perché coglie una cosa che la ragione non può cogliere: «la presenza di Gesù tra noi». «Cristo è qui ora», la ragione non può percepirlo come percepisce che sei qui tu, è chiaro?
Però non posso non ammettere che c’è.
Perché è un fattore qua dentro, c’è un fattore che decide di questa compagnia, di certi risultati di questa compagnia, di certe risonanze in questa compagnia, così sorprendente che se non affermo qualcosa d’altro, non do ragione dell’esperienza, perché la ragione è affermare la realtà sperimentabile secondo tutti i fattori che la compongono, tutti i fattori.
La fede è un atto dell’intelletto, è un atto di conoscenza che coglie la Presenza di qualcosa che la ragione non saprebbe cogliere.
Non bisogna capire come Cristo è qui; bisogna capire che si è costretti ad affermare che c’è qualcosa d’altro qui, perché quello che c’è non si riesce a spiegarlo semplicemente con l’indagine, l’analisi o l’esame della nostra ragione.
Perché essere ragionevoli vuol dire affermare la realtà secondo la totalità dei suoi fattori, e se uno di questi fattori è eccezionale, bisogna dire che c’è, anche se non si capisce come mai.
LIBERTA’ (274)
Questa Presenza eccezionale che la fede coglie ed afferma, potenzia la nostra libertà.
Perché? Perché la libertà può riconoscere questo o non riconoscerlo, cioè la libertà può essere sincera con se stessa o no.
Che differenza c’è tra gli apostoli che lo seguivano e tutto il resto della gente?
Che il resto della gente usava la libertà male, non riconosceva quello che aveva visto, perché uno che con pochi pani sfama cinquemila persone è una cosa dell’altro mondo, e tutti dicevano: «È una cosa dell’altro mondo», tanto che volevano farlo re, e Lui fugge da loro.
Allora questo oggetto che la fede percepisce può essere riconosciuto o no: libertà.
Solo se Lo si riconosce la libertà si compie.
OBBEDIENZA (274)
Perché la libertà non può riconoscerlo? Perché per riconoscere occorre una fatica, occorre adottare come criterio non quello che vedi tu ma quello che è.
E quello che è, è più grande di quel che vedi tu: si chiama obbedienza,
perché il criterio della tua affermazione non è quel che vedi, ma qualcosa che è dentro l’esperienza tua presente, ma che è più grande dei tuoi criteri, tanto è vero che non sapresti spiegarlo.
La fede porta a conoscere la verità delle cose, quella verità che non può essere scoperta con le analisi realizzate dai propri criteri, né riconoscibili automaticamente, ma soltanto accettate, aderendo così al criterio di un Altro, del Mistero:
l’obbedienza della fede, la fede come obbedienza.
SPERANZA (275)
La verità che la fede ci fa capire è che un uomo che sedeva e mangiava, quello lì era Dio, cioè la verità: «Io sono la via, la verità e la vita».
Con Lui anche il futuro è sicuro, perciò la fede diventa speranza, in quanto riguarda non più la sorpresa di una Presenza, la sorpresa di un avvenimento – avvenimento: è un presente -, ma la conseguenza di quello che si attende da ultimo, di quello che si attende in fondo: la fede diventa speranza.
POVERTA’ (276)
La povertà è l’uso della realtà secondo il suo destino
che con sicurezza ci è proposto e ci attende.
La povertà è un atto della libertà, non è un subire, ma afferrare per camminare, un afferrare per costruire, un afferrare per rispondere alla vocazione di Dio.
La povertà del rapporto è la verità del rapporto.
Il contrario della verità del rapporto è ciò che nel rapporto si ponesse come menzogna.
Nel rapporto la cosa che ti piace o la persona che ami ti si porrebbe come menzogna, se ti dicesse, o tu la trattassi come se essa ti dicesse: «Ti basto io. Io sono tutto quello per cui tu vivi», questo non è vero.
Quanto più si vuol bene, tanto più diventa lieve, leggero, libero il rapporto.
E il tempo e lo spazio in cui il rapporto si traduce non sono pretesi.
La povertà ti fa usare la cosa per il destino,
e questo è usare la cosa come se non si usasse, averla come se non si avesse, possederla come se non si possedesse, come dice quel bellissimo brano di San Paolo(1 Cor 7,29-31).
1 – La fiducia è affidarsi a uno (278)
Uno dovrebbe vivere questa povertà, cioè questo uso provvisorio delle cose e questo uso dei rapporti con le persone, letteralmente esaurito dalla tensione al destino comune.
L’esito della povertà che nasce dalla speranza si chiama fiducia, che è il contrario dell’essere sospesi a un vuoto.
La fiducia è il contrario dell’essere sospesi a un vuoto: è l’essere sospesi su un pieno.
L’oggetto scoperto dalla fede sostiene il peso di tutta la vita,
di tutto il nostro futuro, fino ad arrivare alla completezza, al compimento finale del disegno di Dio che è il nostro destino.
È l’oggetto scoperto dalla fede che sostiene tutto il nostro futuro, è l’oggetto scoperto dalla fede che sostiene tutto quanto l’ignoto della speranza, perché la speranza è piena di ignoto.
È quel tal Gesù che sentivano parlare, che Giovanni e Andrea guardavano in faccia, è quel Gesù lì che portava tutto il peso del loro futuro, fino al loro destino: si chiama fiducia la nuova parola che dobbiamo dire.
La speranza è fino al compimento: questo è introdotto dal concetto di fiducia.
La fiducia ha dentro la speranza come compimento, cioè dentro la povertà come regola di vita.
E’ la povertà in senso positivo, e il senso positivo della povertà: la fiducia: affidarsi a uno.
2 – I corollari della fiducia (281)
A) Abbandono (281)
L’abbandono è come il bambino con la mamma, è la sicurezza.
Tu parli di un «Un ottimismo profondo di fronte all’esistenza e alla storia al quale il cristiano perviene in forza della coscienza della resurrezione di Cristo».
Per Giovanni e Andrea era naturalmente pieno di ottimismo l’impeto che provavano verso la vita quando parlava quell’uomo, un ottimismo che poggiava tutto su di Lui.
«Il che significa un gusto e un amore nell’impegno col tempo e la speranza».
Un gusto e un amore: sono solo da questo ottimismo, solo da questa fiducia che si attua come abbandono.
Giovanni ed Andrea si sono abbandonati a quell’uomo lì.
Un gusto e un amore allo spazio significa il lavoro: dal pulire la casa con la scopa, all’amore dell’uomo per la donna o dell’uomo al suo compagno di cammino; perché se non è lavoro è inganno.
È lavoro, è cammino al destino.
Il segno dell’abbandono è come se a uno si prosciugassero tutte le sorgenti dell’orgoglio;
non si inorgoglisce più, gli diventa impossibile inorgoglirsi perché niente è suo, e tutto diventa suo se niente è suo.
Se tu sei il Signore e quindi tutto è tuo, se io riconosco questo diventa tutto mio.
(B) – Tutto posso in Colui nel quale è la mia forza (283)
Se riconosco che la mia forza è in Te, nessuna debolezza mi può fermare –
Non bisogna coltivare progetti di perfezione, ma guardare in faccia Cristo
Non arzigogolare e tendere alla perfezione, ma guardare in faccia Cristo: se uno guarda in faccia a Cristo, se uno guarda in faccia a una persona a cui vuol bene, tutto i lui si rimette a posto, tutto corre a posto, e si mette i capelli in un certo modo, e si allaccia il bottone, e ha vergogna delle scarpe sporche.
La sorgente della morale è voler bene a Uno, non realizzare delle leggi, perché guardando in faccia Cristo si cambia.
Semplicissimo, facilissimo.. ma scomodissimo, scomodissimo perché non puoi più seguire te stesso.
La felicità è seguire un Altro.
Guardare in faccia Cristo cambia.
Ma perché cambi, bisogna guardargli in faccia veramente, col desiderio del bene, col desiderio della verità.
Questa è l’unica rivoluzione nel mondo: la fede come conoscenza e carità, guardare in faccia Cristo come morale.
È guardandolo in faccia che uno sente questa forza purificatrice che lo deterge […] da desiderare veramente di piacere a Lui, di seguire Lui.
3 – Il banchetto più grande della storia della casa (285)
«Tu mi sei fedele. Io sono debolissimo, Tu mi sei fedele: sono capace di tutto»
1 Gv 1,8-9
E’ da questa fiducia profonda e semplice che nasce il più grande banchetto della storia della casa: il figliol prodigo.
Vale a dire, l’esito continuo di questa nostra vita, che sarebbe così sciamannata, così impoverita, così vigliacca, così meschina, così brutta…. l’esito è una grande festa.
La fiducia è uno stato d’animo tale che da qualsiasi tua posizione tira fuori una festa.
Se tu hai fiducia, anche da tutte le tue debolezze nasce una capacità di vittoria e di festa insieme a Colui che è la tua forza, nasce una capacità di vittoria che è la baldanza di quei sette o otto discepoli che lo avevano seguito per primi.
Missione e letizia (286)
L’esito della fiducia è sempre una festa in grande come l’ha fatta il padre del figliol prodigo: travolge tutto, tutta la casa era travolta.
Travolge tutto, e questo si chiama missione, fare della propria vita una missione.
Travolge tutto perfino in noi, travolge tutto quello che è in noi.
Ci rende lieti, la conseguenza ultima della fiducia è la letizia.
Travolge tutto e rende la nostra vita gonfia di missione, travolge tutto in noi e ci rende lieti.
Generatore di un popolo (287)
Ma è una festa che rende l’adulto principio di una nuova storia, artefice, protagonista di una storia nuova nel mondo, vale a dire creatore di un popolo, generatore di un popolo: per creare un popolo bisogna generare.
L’esito della fiducia è che diventi origine di un popolo,
attraverso ciò che ti è vicino, come una realtà sponsale che genera qualcosa che ti è intimo – parte della tua casa.
4 – Coscienti del tempo (289)
La coscienza del tempo che è passato illumina, ci rende più scaltri, vuole attivarci in un modo più intelligente la coscienza del tempo che passa.
Il tempo passato è un’esperienza che ci dovrebbe rendere più attenti al tempo che passa, coscienti del suo senso: il senso è la direzione in cui va il tempo che passa.
Di tutto quel che è passato e di tutto quel che passa, cosa ci importa?.
A) Il tempo non ci appartiene (290)
Il passato con ciò che ci è piaciuto, ciò che ci ha soddisfatto, ciò che ci ha fatto conoscere ed amare di più, ciò che ha reso più soddisfacente la nostra vita, non ci appartiene,
ciò che ci è piaciuto non è stato generato da noi.
Il fatto che il tempo ci sia piaciuto non è dipeso da noi: è stato nostro e non ci è appartenuto, tanto è vero che è passato.
Ciò che ci è piaciuto e ciò che ci è dispiaciuto, niente è appartenuto a noi.
Tutto questo è stata la vita, ma non era nostro, inevitabile: la nostra vita appartiene ad un Altro.
L’inevitabilità è come sinonimo più chiarificatore di questa non appartenenza a noi della cosa, e soprattutto non appartiene a noi ciò da cui tutto deriva: la nostra vita appartiene a un Altro.
In questo senso si capisce perché la vita dell’uomo è drammatica: se non appartenesse a un Altro sarebbe tragica.
La tragedia è data dal fatto che tutto corruit, tutto si corrompe, tutte le cose è come se corressero via l’una all’altra, non stanno più attaccate.
La tragedia è il nulla come traguardo, il niente, il niente di ciò che c’è.
Mentre se tutto appartiene ad un Altro, a qualcosa d’Altro, allora la questione è drammatica: è drammatica perché c’è un io e c’è un tu, c’è una proposta e c’è una risposta, è un dialogo.
Per questo la vita dell’uomo è drammatica, non tragica.
La tragedia è fatta di ateismo, la drammaticità è fatta di umanità, in cui l’io riconosce che tutto ciò che appartiene a Te, anche se questo “Te” sfuma in qualcosa di enigmatico e misterioso.
B) Il mistero è bene (294)
Voglio sottolineare che il Signore, Colui a cui appartiene il tempo, è buono.
Il Signore vuol bene, questo Mistero di cui è fatto il tempo – la vita che è passata fino ad ora – vuole il nostro bene, la felicità, ama il nostro destino e per questo ci ha stretto dentro una compagnia che ha come unico valore, attraverso tutto – attraverso il gioco, il pianto, la collaborazione e attraverso l’aiuto – di richiamarci alla bontà del destino, al fine buono: l’essere è bene.
Tutta la filosofia moderna fugge da questo e perciò fugge dalla concretezza dell’essere e nega addirittura, nega facilmente, la consistenza delle cose e getta tutto nella voragine del nostro sogno, in una voragine di sogno.
Questo Tu enigmatico è buono: attraverso questa compagnia ci prende per la mano: MI PRENDI PER LA MANO.
C) Il dolore, amore a un presente (296)
Non affidarsi a Colui cui apparteniamo, secondo qualunque modalità, questo è il peccato.
Si chiama male questo aspetto del nostro passato che ha rifiutato di fatto di riconoscere la propria appartenenza, che soprattutto ha detto di no alla proposta di bene con cui si identifica la presenza del Signore, di Colui che è il padrone.
Per questo guardando il passato restiamo ignobilmente immobili, oppure vergognosi, oppure pieni di risentimento – verso qualcosa, o verso persone che ci hanno impedito il meglio, il bene, una soddisfazione più giusta – pieni di rabbia contro sé stessi, delusi di sé; e, guardando avanti, confusi, non sapendo che fare, ma la parola più giusta è vergogna: una disperazione.
Non terrore, vergogna o paura della nostra debolezza e del nostro male – questo è consacrare l’egoismo, questo è rendere eterno l’egoismo, questo è inferno, rendere eterno l’egoismo –
Non vergogna del male o paura del tempo, ma dolore.
Che cosa distingue il dolore dalla paura? La paura è che le montagne ti crollano addosso.
Il dolore invece è la forma più concreta per noi dell’amore.
Dolore non si può provare se non di fronte a un tu, a una persona, a una persona presente.
È l’emergenza, la presa di coscienza del dolore, di un dolore, che fa guardare davanti a sé, a sé intravvedendo quella Presenza che ci ha dato la vita, ce l’ha fatta proseguire ed è morto per noi.
Dolore perché ti ho offeso, dolore perché ti offendo; dicendo così, già l’offesa è redenta, documenta un amore presente nonostante un difetto.
Nel dolore, più forte della delusione del male, della delusione della debolezza, della vergogna di sé, è l’amore.
FIDUCIA/Assemblea (300)
Venendo qui ho visto un incidente con una ragazza morta. A quel punto ho cominciato a chiedermi perché è successa questa cosa? Ho avuto paura. Però mi accorgevo che dentro questa paura non ero solo: quella domanda avevo un posto dove portarla. Avevo voglia di venire qui perché avevo un posto dove portarla. (301)
Nessuno saprebbe rispondere, anzi, tutti sarebbero così percossi che anche la domanda stessa non si porrebbe.
Noi invece diciamo: anche quella ragazza, come me, appartiene a Cristo, a un Altro, appartiene al Mistero che fa le cose.
In questa risposta, il cuore, sia pure ferito, ha paradossalmente un ultimo riposo.
Poi vieni qui e la compagnia ti richiama il destino.
E in noi diventa dolore pensando alla storia di quella vita, a suo padre, a sua madre, agli altri amici, a tutta la gente che è lì e non capisce.
Perché parlando della fiducia ha parlato del perdono. Riflettendoci sopra mi è venuto in mente che senza questa parola, la fiducia (“Tu sei la mia forza”) sarebbe un’astrazione, sarebbe un futuro senza base. (302)
Perché senza perdono non ci potrebbe essere fiducia?
Perché l’uomo è peccatore ed è impossibile che non erri.
Così nessun sbaglio sarebbe obiezione alla vocazione.
il vero problema non è il il proposito «Non ucciderò più», mail vero proposito è «Mi affido a Te, mi appoggio alla tua forza» e così non uccido più.
Per questo siamo inescusabili se noi tradiamo la vocazione e se sospendiamo l’energia che la vocazione mette in queste cose.
Siamo inescusabili perché non c’è debolezza che tenga di fronte alla forza di Colui che ci ha chiamati: «Mi hai chiamato, mi porterai fino in fondo».
Nel rapporto con Dio non si misura: questo sarebbe moralismo, il moralismo come misura di tutto.
Non è una misura, ma uno sguardo amoroso, come quello che gli apostoli portavano a Gesù.
La fiducia che è la speranza come compimento, rende l’io principio di una nuova storia nel mondo, creatore di un popolo. (305)
Rende l’io principio di una nuova storia nel mondo e lo fa agire; solo una certezza finale fa agire contro tutto e contro tutti.
Solo una certezza finale dà il coraggio, la forza e la fedeltà di creare per generare.
Se in un paese c’è una casa del Gruppo Adulto, in quel paese qualcosa di nuovo sta e cresce, e si vede nell’uno, nell’altro, non in tutti uguale.
Perché dici che una generazione non è una generazione umana se non è generazione di un popolo?.(30)
1° – Innanzitutto una creazione non è veramente umana se non crea un popolo in quanto, generando una persona sola si genera un principio di generazione ulteriore.
Per sua natura una generazione non finisce mai, si dilata sempre, è destinata a dilatarsi.
È solo il concetto di famiglia che «conclude» l’idea di generazione; l’idea generativa è nel concetto di famiglia.
La famiglia è in piccolo un popolo.
La famiglia per essere generatrice deve essere aperta a una possibilità tale che si comunichi ad altri, che crei altre famiglie: questo è un albore, un crepuscolo di un popolo nuovo.
2° – Il valore della Chiesa sta nella Chiesa particolare o nella Chiesa totale: o è nella Chiesa totale o non è in nessuna Chiesa.
La Chiesa particolare non ha la capacità di cattolicità della totalità, non ha la capacità di esprimere un senso del tutto, perché, essendo una Chiesa particolare, esalta i suoi aspetti particolari, le circostanze in cui è.
Solo la Chiesa universale, cioè la Chiesa come unità tutta attorno al Papa, solo quella è veramente una cultura che sfida la cultura del mondo.
L’unica pretesa universale che si attua, e si attua anche in tre che vivono in una casetta piccola, sperduta, è la Chiesa.
Allora non è popolo e non è sorgente di popolo, non è fattore di passaggio alla realtà di popolo, una persona che non abbia una coscienza o una concezione o un senso della totalità: questa è data adeguatamente soltanto dalla fede.
Giovanni e Andrea avevano davanti una Presenza e facevano le loro cose con davanti questa Presenza. La loro fede era la certezza di una Presenza sperimentabile. Cosa vuol dire per noi guardare in faccia Cristo? (309)
Ma l’uomo sperimenta, fa esperienza di una presenza, non solo quando la tocca, naso contro naso.
(Giovanni e Andrea dopo aver incontrato Gesù) fra il giorno prima e il mezzogiorno quando sono tornati a casa con le barche piene di pesci e si sono messi là sulla spiaggia e ancora raccontavano della giornata precedente, il segmento che mette in rapporto la sera precedente e il giorno dopo si chiama memoria, e la memoria è la continuità dell’esperienza di un presente, la continuità dell’esperienza di una persona presente.
Non l’avessero più visto per tre settimane, il desiderio dominante quei due era quello di ritrovarlo, perché era chiaro che era Lui, che Lui era Lui; non sapevano chi fosse, ma era Lui.
La memoria è la coscienza della Presenza.
Ti arriva addosso con le nostre presenze, che siamo come le fragili maschere, la fragile pelle, le fragili maschere di qualcosa di potente che è Lui che sta dentro, che non sono né io né lui ne te, passa anche attraverso lui e le cose di oggi non te le dice nessuno.
Non sono mie, sono di Colui che Andrea e Giovanni quel pomeriggio eran là a guardare che parlava; parla e parlava, e così vincendo tempo e spazio ha parlato oggi a te; e ti parlerà dopodomani e fra dieci anni.
Primo: quando arrivo alla fine delle mie giornate, mi è più facile vedere la sua misericordia verso di me e mi è più difficile essere cosciente del mio peccato.
Secondo: lei ci ha detto che il perdono coincide con la compagnia; allora io so che il perdono c’è, perché c’è la compagnia, ma questo non fa crescere in me il dolore per il peccato. E questo non è serio, volevo un aiuto. (311)
Primo: se desideri sentire misericordia è perché hai sbagliato: non può sentirsi oggetto di Misericordia, se non implicando che qualcosa hai sbagliato.
Non c’è bisogno di fare l’elenco dettagliato dei peccati perché il Signore perdona anche la dimenticanza.
La misericordia è essere perdonati di qualcosa che si è fatto anche se non viene in mente, mi capisci?
Allora sei grato e umile.
Allora per pensare alla misericordia, dovrai veramente aver dolore: ma non è necessario questo tipo di dolore, ma la coscienza di essere piena di limiti.
Il tuo cuore potrebbe essere vibrante di quella Presenza che è l’oggetto della fede, oggetto di esperienza, e invece no: constatata questa tua assenza, per forza di ti senti umile, più umile; il dolore viene appena accennato come un’umiltà e dice: «Signore ti ringrazio che hai misericordia dime».
Secondo: il perdono c’è perché il Signore perdona.
Appena io sto un po’ attento io dico: questi sono persone che il Signore mi ha messo vicino; perciò il fatto di essere insieme a questa compagnia, è proprio essere immerso nella presenza di Cristo fisicamente testimoniata, perché ciò che ha creato quella mossa o quel moto per cui siete qui è un Altro, non è solito.
E voi non mi condannate perché sbaglio – sbaglio come voi del resto -, non mi condannate, e il fatto che sono abbracciato dalla vostra presenza e reso oggetto di attenzione dei vostri occhi misericordiosi e del vostro cuore, questo è proprio il segno del fatto che Lui mi guarda, che Lui mi abbraccia, che Lui mi porta, che Lui mi cambia, che Lui mi richiama: tutti verbi inerenti alla nostra compagnia.
In voi Cristo si rende sensibile, toccabile, visibile, udibile.
La parola più giusta che hai detto è «prendere più sul serio».
Non è solo perché una persona mi è comoda o mi piace, ma perché «è»; senza nessun paragone questo vale sul comodo, sul piacere, anche se resta il residuo del comodo e il residuo del piacere.
Io volevo chiedere ulteriormente perché la fiducia è certa (314)
La fiducia è generata dal fatto che siamo certi che l’oggetto della nostra speranza, la felicità, ci sarà data, perché Dio è morto per quello.
La certezza della speranza coincide con la certezza di quell’abbandono che si chiama fiducia.
La certezza della speranza si rovescia tutta nell’abbandono della fiducia; perciò la fiducia è certa, la fiducia reca con sé, trascina con sé una certezza che rallegra il cuore anche nei momenti peggiori, che è il punto di riferimento anche tra le lacrime di una disgrazia.
La certezza della fiducia non è nient’altro che il corollario, la conseguenza della certezza della speranza.
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