Temi di “Generare tracce nella storia del mondo”

Libro “Generare tracce nella storia del mondo” di don Luigi Giussani

ABCDEFGILM/NO PRSTUV

Lettera «O»



OBBEDIENZA

(170s) – In san Paolo è la coscienza di una obbedienza come metodo, la sorgente dell’azione: invece dell’io, il soggetto creatore dell’azione diventa un Tu, l’io si sacrifica per un Tu: «Vivo, non io, ma è Cristo che vive in me».

Perché gli uomini vivano non più per sé stessi ma per Cristo, occorre obbedienza.

L’obbedienza esistenzializza il summum ius: il culmine del diritto di Dio sulla nostra vita.

(171) È la vita del cristiano in quanto dimostra questa obbedienza che «testimonia» il Signore.

(178) – Se riflettiamo sulla nostra esperienza ci accorgiamo di come, spesso, tende a prevalere un egocentrismo, che decide da sé i fattori costitutivi dell’Avvenimento cui diciamo di appartenere e che non nasce da noi: in luogo dell’obbedienza si impone l’affermazione di ciò che pensiamo noi.

ODIO ALL’ESSERE

(45)L’odio all’Essere è il contrario di come originalmente siamo, di come l’uomo viene concepito nel seno materno.

(213) – Qui comprendiamo come mai qualcuno, che odiava Dio e ha voluto irrazionalmente sfidarlo, non dia tregua alla nostra vita, per trascinare anche noi nella sua infame bugia: è il «padre della menzogna, Satana»

Odio a Cristo

(157)L’odio del mondo a Cristo.

C’è oggi una ostilità a Lui che non c’è mai stata, se non nei primissimi tempi, quando Lo crocifissero, quando Lo uccisero nei suoi martiri, quando lo proscrissero nei suoi testimoni dei primi secoli.

È una ostilità così generalizzata, alimentata e prodotta sistematicamente, così sostenuta teoricamente, che il nostro adattamento ad essa, quotidianamente, senza che ce ne accorgiamo, è il segno della nostra distrazione.

(161s) – Parlare di un odio a Cristo non è una esagerazione.

È uno dei temi più addolorati e gridati.

Questo odio qualifica la storia umana: è come il risultato permanente chela ferita misteriosa del peccato originale lascia nel tempo umano.

In tale odio, attraverso tutti i poteri (dal potere politico al potere economico), si articola l’azione del padre della menzogna, come disse Gesù ai farisei parlando di Satana.

L’odio a Lui è il tema necessario ad ogni potere che non tragga la sua origine consapevole, umile e drammatica, dall’obbedienza al potere supremo del Padre che fa tutte le cose, dall’obbedienza al destino della vittoria e di gloria che è il destino dell’uomo Cristo, giustizia di Dio, nome che segna il senso del disegno dell’universo e della storia.

Gesù stesso ha detto: «Come il mondo ha odiato me, così odierà voi», noi non siamo solo responsabili dell’odio a Cristo, ma siamo anche, in quanto Suo popolo; vittime dell’odio del mondo.

L’ultimo capillare di questo odio a Cristo è il nostro io, dimentico e indifferente.

È un odio non necessariamente espresso in modo clamoroso, ma vissuto come estraneità palesemente confortata e alimentata.

OFFERTA

(49)L’offerta è la conseguenza ultima della fede.

Essa è esattamente il dire: «Signore, tu lo sai che io ti amo»

L’offerta non esige uno sforzo erculeo, ma solo: «Riconosco chi tu sei».

E uno non può dire: «riconosco chi Tu sei» senza sentirsi piombare nell’umiliazione del proprio niente peccatore e, paradossalmente, senza al tempo stesso sentire l’inizio della libertà, che diventa domanda a Colui che è presente e che ha creato la richiesta.

(144) – Allora diventa abituale lo svegliarsi al mattino e dire l’Angelus, offrendo la giornata con la coscienza della propria debolezza, negli errori che si commetteranno quel giorno, è già perdonata: «Ti offro, o Dio, questa mia giornata, perché Tu l’abbia a perdonare, azzerando i ricordo dei miei mali, perché Tu l’abbia a tener tesa, in tensione verso di Te»

(170) – Nella missione si compie l’offerta di sé a Cristo, nel suo Popolo vivente che è la Chiesa.

Ciò avviene là dove Egli ci ha collocato, cioè nel luogo e nella modalità del carisma.

È tale offerta che si chiama obbedienza.

Perché gli uomini non vivano più per sé stessi ma per Cristo, occorre l’obbedienza.

(178) – «Vi esorto dunque fratelli a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio: è questo il vostro culto spirituale».

La nostra cultura, il nostro culto spirituale è l’offerta.

(210) – Nella spaventosa oscurità del totale abbandono al Padre, Cristo, la misericordia dell’Infinito, offrì la sua vita per ogni uomo.

OMOLOGAZIONE

(201) – GPII: questa è la tragedia del nostro tempo: la perdita della libertà di coscienza da parte di interi popoli ottenuta con l’uso cinico dei mezzi di comunicazione sociale da parte di chi detiene il potere.

Qual è la conseguenza di tutto ciò? Il panorama sociale diventa sempre più uniforme, grigio: è la grande omologazione di cui parlava Pasolini.

Una forma che si potrebbe descrivere con questa formula: la «P» (potere) in proporzione diretta con una «I» (impotenza).

OPERA

(195s) – Il bisogno della cosa particolare è la modalità con cui l’infinito ci tocca, facendoci reagire.

Questa reazione porta ad affrontare ad affrontare naturalmente il bisogno con una certa sistematicità.

Ciò ha come possibile esito un’«opera».

L’opera appare come la concrezione in un momento determinato, quindi eminentemente criticabile e perfezionabile, di un ideale che non si può non riconoscere più grande di qualsiasi soluzione pensata e attuata.

L’origine dell’opera è il tentativo di rispondere sistematicamente, secondo l’immagine suggerita dall’ideale, a un bisogno che urge la propria vita nell’ora, nella giornata.

L’azione che crea un’opera è per sua natura tesa a rispondere alla necessità della persona e in tal senso è anche naturalmente tesa all’efficienza, impegnata in una lotta contro quanto può ostacolarla.

È una cosa grande che il lavoro per un’opera, destinata a rispondere al bisogno del singolo, sia caratterizzato da questa socialità ultima della propria presenza nel mondo e, quindi, dalla necessità della compagnia.

(196) Le caratteristiche di opere generate da una responsabilità autentica devono essere realismo e prudenza.

[ … ] l’opera, proprio per questa necessità di realismo e prudenza, diventa segno di una capacità di immaginazione, di sacrificio e di apertura.

Opera di un Altro

(89) – Dalla percezione del valore ontologico della appartenenza nasce la formula morale più intensamente riassuntiva e più indicativa per la prassi della nostra vita: «Il sacrificio più grande è dare la vita per l’opera di un Altro».

(135s) – Questa è la legge della generosità: dare la propria vita per l’opera di un Altro.

(136) Dare la vita per l’opera di un Altro implica sempre un nesso tra le parole «Altro» e qualcosa di storico, concreto, tangibile, sensibile, descrivibile, fotografabile, con nome e cognome.

Senza questo fattore si impone il nostro orgoglio, questo sì effimero, ma nel senso peggiore del termine.

Dare la vita per l’opera di un Altro, non astrattamente, è dire qualcosa che ha un riferimento preciso, storico: per noi vuole dire che tutto quello che facciamo, tutta la nostra vita è per l’incremento del carisma cui ci è dato di partecipare, che ha una sua cronologia, una sua fisionomia descrivibile, indica nomi e cognomi e, all’origine, un nome e un cognome.

Se dare la vita per l’opera di un Altro non indica un riferimento preciso, svanisce la sua storicità, si deprime la sua concretezza: non si dà più la vita per l’opera di un Altro, ma per la propria interpretazione, per i propri gusti, per il proprio tornaconto o per il proprio punto di vista.        

ORGOGLIO

(136) – Dare la vita per l’opera di un Altro, non astrattamente, è dire qualcosa che ha un riferimento preciso, storico: per noi vuole dire che tutto quello che facciamo, tutta la nostra vita è per l’incremento del carisma cui ci è dato di partecipare, che ha una sua cronologia, una sua fisionomia descrivibile, indica nomi e cognomi e, all’origine, un nome e un cognome.

Senza questo fattore storico si impone il nostro orgoglio, questo sì effimero, ma nel senso peggiore del termine.

(178) – È una non mortificazione del nostro orgoglio, è il peccato originale che immette, nella semplicità dell’origine, nella semplicità creaturale, corpi estranei indotti da altro e assunti da noi.

(212) – «Ma io ho fatto questo e quest’altro!». È la nostra pusillanimità, la nostra meschinità o il nostro orgoglio che si vuole imporre all’infinita liberalità e magnanimità di Dio.


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