Temi: Si può (veramente?!)vivere così?(1)

ABCDEFG/HILMNOPRSTUV


[NOTA BENE: i corsivi di frasi o interventi, in rosso sono frasi riportate dal libro «Si può vivere così?», quelli in viola sono invece interventi, domande e citazioni di questo libro]

Indice linkato:

339 – La speranza cristiana è la più ricca apertura alla realtà, la più ricca scoperta della realtà, la più grande esaltazione della realtà che l’uomo possa conoscere.

Se non ci si scandalizza della contraddizione per cui si deve lasciare qualcosa, se si abbandona qualcosa, quel volto, quel panorama, quella musica, diventano eterni, appartengono al corpo di Cristo. Se si lascia qualcosa!

368 – «Il povero è chi è certo di alcune grandi cose (per cui costruisce una cattedrale anche se vive in una catapecchia, essendo così cento volte più uomo di chi ha come orizzonte ultimo un appartamento confortevole). Perché essere poveri è essere certi? Perché la certezza implica l’abbandono e il superamento di sé: “Sono piccolo, sono niente, la cosa vera e grande è un’Altra» [Si può vivere così? – pag. 221].

382 – Questo alt che la tua ragione deve accettare nell’invadere la spiaggia di un essere – sia esso grande o piccolo – è un abbandono per cui lo possiedi, perché ne affermi il mistero.

399 – «Qual è il primo corollario, la prima conseguenza di questo affidarsi a uno? Un altro modo di dire la stessa cosa: è la parola abbandono.

Abbandono richiama ancora la parola povertà, come se uno dovesse privarsi di qualche cosa, invece non è privarsi: l’abbandono è come il bambino con la madre, è la sicurezza»

Secondo corollario. Questo ottimismo che si attua come abbandono, decide di ogni risveglio, di ogni ripresa di coscienza, così che il motto della vita, la formula della vita diventa quello che ha detto san Paolo: “Tutto posso, di tutto son capace insieme a Colui nel quale è la mia forza» [Si può vivere così? – pag. 233/238].

406ss – In qualsiasi aspetto di questa evoluzione, guardandoti dentro, tu capisci, capisci che il voler bene a una persona non è prenderla, ma abbandonarsi.

L’abbandono è come se ti liberasse, non nel senso che ti libera della persona, ma ti libera nel rapporto con la persona: l’hai senza preoccupazione di averla, ce l’hai, qualunque sia la sua risposta, qualunque sia il suo atteggiamento, comunque la tua vita debba tradursi in atto.

Verso la persona per cui Dio ti ha dato più devozione tu sei libero in quanto abbandonato ad essa; poggi su di essa te stesso come un bambino poggia il seno materno, poggi su di essa la visione che hai del mondo.

407 – La frase di monsignor Galbiati di fronte a tutta l’estensione delle Alpi in quell’assolato tramonto estivo, tutto rosso, è un paragone ineguagliabile: «Vedi, tutto questo è mio!».

Quello di mons. Galbiati di fronte allo spettacolo della natura era un abbandono. Non abbandono nel senso che lascia lì.

La parola abbandono indica un modo di presa, il modo vero della presa: la presa di una cosa nella sua realtà finale, fin nella sua sorgente. La sorgente della cosa essendo Iddio, è una presa della cosa fino al palpito dell’intelligenza e della sapienza e del cuore con cui Dio crea.

408 – Intervento: «Allora l’abbandono non è abbandono della cosa, ma abbandono di noi stessi come capaci di capire, capaci di prendere la cosa?»

Come possessori della cosa! Perché qui il termine di paragone, ricordiamolo, è la povertà. La sorgente della fiducia è la povertà, e la povertà è il distacco, è che «non è mio».

Proprio perché non è mio, in quanto non mio, io mi appoggio, mi appoggio tutto, mi abbandono tutto. È solo a qualcosa che non è mio che mi posso abbandonare.

409 – Per questo, nessun uomo riesce ad abbandonarsi completamente alla sua donna se non giunge a questo bordo ultimo.

Quando uno riconosce che non possiede lui, allora si può abbandonare a ciò che possiede la cosa.

Non alla cosa, si può abbandonare a ciò che fa la cosa, a ciò che possiede la cosa, e ciò che possiede la cosa non è la stessa cosa: è un’altra cosa.

410 – Proprio là dove uno capisce che la persona o la cosa che ha davanti o l’avvenimento che accade non lo possiede lui, allora può abbandonarsi a ciò che fa quella cosa, a chi fa il Monviso, al Mistero da cui sorge la catena delle Alpi, al Mistero da cui sei sorto tu.

Uno può abbandonarsi sicuro, sicurissimo, se la cosa non è sua.

412 – Intervento: «Nel capitolo sulla fiducia fai due corollari: l’abbandono e “tutto posso in Colui che è la mia forza”»”. A me questi due corollari sembrano identici

Risposta: No! L’abbandono è il non possedere niente; un bambino è abbandonato completamente a sua madre, perchè non possiede niente: tutto gli è dato dal seno di sua madre e dalle braccia di sua madre, dai pensieri di suo padre, dai progetti dei suoi genitori.

Essere abbandonato è una forma di sicurezza lieta; il corollario di questo primo corollario è la letizia. Mentre il corollario del secondo corollario è una forza, è una sfida, è che niente mi è più obiezione. Sono due vibrazioni di animo diverse.


404«Il segno dell’abbandono è come se a uno gli si prosciugassero tutte le sorgenti dell’orgoglio; non si inorgoglisce più, gli diventa impossibile inorgoglirsi perché niente è suo, tutto diventa suo se niente è suo»


293 – Del grande Abramo san Paolo dice in spem contra spem: egli credette sperando contro ogni apparenza di disperazione, contro ogni speranza.


38 – La bontà non è questione di intelligenza.

Se fosse una questione di intelligenza, la bontà – la bontà che accoglie e obbedisce – dovrebbe accettare, accogliere, obbedire, perché ha capito la ragione dell’accettare e dell’obbedire: ha capito la ragione e ha capito che le conviene.

Ma allora uno non accetterebbe più qualcosa da un altro: riconoscerebbe soltanto quello che vede lui, lo farebbe perché ne è persuaso. Che inconveniente ci sarebbe? Che uno sarebbe persuaso di quello che conosce già, non sarebbe mai introdotto nel mistero del nuovo.

Intervento: «Mi è dato un dono: riconoscere che è buono per me non corrisponde all’origine, ad una povertà di spirito per cui si accetta?».

Risposta: non «perché è buono per me». «Perché mi è detto» è buono! «Perché mi è dato» è buono! L’origine della questione è molto più drammatica.

Se io dovessi accettare solo quello per cui riconosco le ragioni, allora sarebbe vero quello che ha detto il nostro amico prima: la bontà sarebbe dell’intelligenza.

298 – Intervento: «Riguardo alla domanda e alla coincidenza tra segno e Mistero: io sto facendo molta fatica nel lavoro e mi sto chiedendo: «Questo è il posto giusto per me?»

Risposta: Dalla domanda esce esclusivamente quello che Dio vuole da te. Infatti, sembrerebbe così facile cambiare, e tu non riesci a cambiare. Accettare questo – duri un minuto, un mese un anno, tutta la vita -, accettare questo è santità.

La santità è accettare che la cosa brutta o la cosa pesante o la cosa controproducente che mi sta davanti sia il luogo e lo spazio dove il Mistero è presente a me: mi sveglia ogni mattina. Mi dice «Coraggio» ogni mattina, mi dice «Pulisciti» ogni mattina, mi dice «Alé», diventando così compagno cento volte di più che non per tutti gli altri, diventando compagno durante la giornata.

313 – Intervento: «Mia madre ha una grave malattia. Come accettare che le risposte che mi vengono date dalla compagnia a questo fatto non mi soddisfano? E questo mi stanca nella domanda, è come se non mi facesse domandare più.»

Risposta: Dobbiamo rispondere amaramente come rispondiamo amaramente a noi stessi in questi casi, e sono tanti al giorno, se si fa attenzione.

È perché non crediamo – se non per una emergenza rara, di circostanze rare -, noi non crediamo che il disegno del mondo è di Dio, non crediamo esistenzialmente in Dio: Dio è un fattore della meccanica universale come per il razionalismo dell’Ottocento. E invece Dio è alla radice di ogni pianta, di ogni erba, di ogni fiore, di ogni uomo e di ogni sasso.

È un’altra cosa Dio, per questo si chiama Mistero e non è concepibile, non è immaginabile.

Ma è diventato uomo: su questo possiamo sentire, esigere e sentire, di provare, di paragonare e, soprattutto, di sperimentare noi stessi cambiati.

Ma non quando pare e piace a noi: quando vuol Lui, a suo tempo, il suo. E se uno interrompe prima il cammino è fuorigioco.

509 – È assurdo, è un Dio assurdo», bisogna che noi facciamo tutto lo sforzo per capire come, accettando la condizione in cui mette, l’uomo diventi migliore: io accetto questa condizione, divento migliore; se non accetto questa condizione, perdo me stesso, smarrisco me stesso, ingrettisco me stesso, rendo sterile me stesso.


Sperimentalmente siamo nelle condizioni di scoprire come, accettando quella condizione che ci ripugna, noi diventiamo più «noi stessi», più uomini, più fecondi; non accettandola diventiamo più sterili, in tutti i sensi: dal senso letterale del far bambini al senso metaforico della generazione come opere e come lavoro.


206 – Non c’è niente di più suggestivo del Dio libero che rischia la Sua libertà con la piccola ribellione della libertà dell’uomo.

Comunque, con Adamo ed Eva non ce l’ha fatta, con Giuda non ce l’ha fatta.

Questo è dogma cattolico, cioè la concezione dell’uomo non è cattolica se non implica questo.


43 – Se Cristo è il senso di tutto, il punto adeguato per capire anche la tragedia è Cristo.

Il dolore, fino alla tragedia, non è una obiezione al fatto che il mondo sia per il bene, che la realtà sia promessa; tant’è vero che, venuto tra di noi, è morto per noi, è morto assassinato ingiustamente.

217 – Una cosa non è adeguata quando è esagerata o quando non è «all’altezza di».

Come si fa a capire se ci sono ragioni adeguate per obbedire, per cui non obbedire sarebbe irragionevole, cioè non da uomo? Come si fa a capire quando si hanno ragioni adeguate per seguire?

La ragione adeguata per seguire una persona, per obbedire a una persona è che di quella persona mi posso fidare.


(Cfr. anche: )

222 – Abbiamo chi seguire, le caratteristiche che rendono ragionevole il seguirlo, e dobbiamo seguirlo.

Aderire a se stessi vuol dire seguire l’altro: questo è il paradosso che ha fatto cedere Eva.

Da quando c’è l’uomo, questo è il paradosso che è la prova della libertà: per essere me stesso devo seguire un altro.


480 – Di una persona a cui vuoi bene, immagini, guardandola in faccia, di andare in fondo, in fondo alla sua faccia; in fondo alla sua faccia c’è un Altro: per questo l’adori, puoi adorarla.

Se non vai fino a questo punto, non la puoi adorare, sei impostore, vuoi derubarla. Vale a dire: vuoi arricchire te stesso di una sensazione, non amarla.


565 – Intervento: «Io volevo chiedere come la responsabilità di fronte alla vocazione non diventa affanno o ansia sulle cose da fare».

Risposta: La perfezione della vita sta nella certezza che la forza di un Altro mi renderà capace di fare tutto quel che devo fare per raggiungere il mio destino.

Si è senza affanno nella vita spirituale quando si ha la certezza della forza di Dio; la forza è di Dio; la forza è la compagnia di Gesù, la forza è guardare in faccia Gesù.

Il problema della nostra santità, cioè il problema della nostra salvezza non diventa ansia perché Colui che mi ha amato fino a chiamarmi ha una forza tale che vince qualsiasi mio nemico.


(Cfr. anche: affettività, sentimento)

42 – Secondo uso scorretto della ragione: quando il sentimento, l’affetto, prevale sulla intelligenza della realtà.

L’intelligenza conosce la struttura delle cose, la forma delle cose; l’affetto indica lo shock che le cose conosciute impongono a noi.

61 – La realtà dà un colpo alla nostra coscienza; questo colpo, questo shock, in latino si dice – usando il verbo all’infinito – affici.

La conoscenza implica una affezione, implica un contraccolpo che si chiama affezione, affectus. La nostra anima è toccata: la vera conoscenza è l’insieme di questi due fattori.

83 – Nel’esperienza, la realtà di cui prendi coscienza e che provi – da cui, cioè, tu sei colpito, shoccato (affectus) – ti fa balzare fuori i criteri del cuore, ti desta il cuore che prima era confuso e dormiva, perciò ti desta a te stesso.

Lì incomincia il cammino tuo, perché sei desto, critico.

232 – Questo è il concetto di affectus: l’occhio è «affettato» dall’oggetto, ha l’affezione dell’oggetto. Se questa affezione è grande e positiva, tu ti fermi, comperi l’oggetto, te lo tieni lì, lo studi. Non ti piace? Lo lasci andare.

Occorre un desiderio del vero e del bello assoluto per interessarti veramente di tutto quello che accade, di tutto quel che passa davanti ai nostri occhi.

La conoscenza non è mai tale se non termina in una affezione.

Questa affezione può essere diversa. A seconda di questa affezione, viene motivato l’atteggiamento di un altro fattore, che sta dietro le quinte, dietro questo fenomeno della conoscenza, che si chiama libertà.

La libertà è come un coltello che sta lì ed entra tentando di tagliare il nesso tra l’impatto della conoscenza e l’affectus che produce.

Fa sentire così astratta la cosa, poiché rimane solo la conoscenza (idea astratta) e arresta l’istintività l’atto, se rimane solo l’affectus.

E né l’una cosa, nè l’altra sono giuste.

Invece non si può tagliare in due il fenomeno della conoscenza: la conoscenza è registrazione di una cosa in quanto c’è secondo uno shock, un affectus che ti produce: in base a questo c’è tutto il gioco della libertà.

289 – In un discorso come il nostro – non credo impropriamente -, si utilizza la parola emozione per indicare una espressione dell’impeto caratteristico dell’affectus, dell’affetto – in cui sempre termina la cognizione che l’uomo ha delle cose – proprio come impeto non collocato dentro il contesto della ragione, dentro un contesto che la ragione sorprenderebe, designerebbe, indicando il punto centrale, lo scopo finale, i fattori indiziari di un cammino.

Mentre l’affectus no, l’affetto è quell’emozione in quanto consegue continuamente dalla scoperta che la ragione fa della realtà nelle sue connessioni, perciò segue la ragione che tratteggia il disegno totale, il disegno intero, l’interezza (la ragione è coscienza della realtà secondo l’interezza).

L’emozione sottolinea o accusa un colpo alla testa.

L’affectus sottolinea l’emozione come qualcosa che investe il lavorìo che la testa, come ragione, fa sulle cose; non l’abbandona mai, anzi, quanto più la ragione si avvicina alla completezza, tanto più la ragione si inarca, diventa grande.

Tanto è vero che è molto più sicura l’affezione che un uomo ha per la sua donna a sessant’anni di quello che un giovane di vent’anni ha verso la sua ragazza.

Nel primo caso, l’affetto si chiama anche «attaccamento», in quanto deriva non solo dalla cosa, ma dallo scopo della cose perseguito; non solo dal vedere la ragazza, ma dallo scopo per cui la ragazza si mette con un uomo: i figli, l’educazione, il portare la famiglia.

E, a sessant’anni, vedere quarant’anni di questa traiettoria è commovente.

L’emozione raramente è commovente, l’affetto sempre.

375 – Scegliere delle modalità concrete con cui uno usa della cose: l’affectus è quell’impetus, quell’impeto che fa usare le cose.

Uno, senza accorgersi, usa, segue un affetto che lo spinge a, in base a quel che conosce – neanche riconosce, ma conosce: anche semplicemente, conosce -.

376 – La noia è l’assenza di un sapere e l’assenza di un sentire, cioè l’assenza di un prendere a fare: l’affectus, infatti, è prendere una cosa per fare.

Perciò, la noia è l’anticamera della morte: il moribondo ha noia di tutto, chi ha una malattia grave ha noia di tutto.

Se ha noia di tutto, non pensa – non solo non riconosce, ma non pensa – e non ha voglia, cioè non brandisce niente, non costruisce niente.


289 – In un discorso come il nostro – non credo impropriamente -, si utilizza la parola emozione per indicare una espressione dell’impeto caratteristico dell’affectus, dell’affetto – in cui sempre termina la cognizione che l’uomo ha delle cose – proprio come impeto non collocato dentro il contesto della ragione, dentro un contesto che la ragione sorprenderebe, designerebbe, indicando il punto centrale, lo scopo finale, i fattori indiziari di un cammino.

Mentre l’affectus no, l’affetto è quell’emozione in quanto consegue continuamente dalla scoperta che la ragione fa della realtà nelle sue connessioni, perciò segue la ragione che tratteggia il disegno totale, il disegno intero, l’interezza (la ragione è coscienza della realtà secondo l’interezza).

L’emozione sottolinea o accusa un colpo alla testa. L’affectus sottolinea l’emozione come qualcosa che investe il lavorìo che la testa, come ragione, fa sulle cose; non l’abbandona mai, anzi, quanto più la ragione si avvicina alla completezza, tanto più la ragione si inarca, diventa grande.

Tanto è vero che è molto più sicura l’affezione che un uomo ha per la sua donna a sessant’anni di quello che un giovane di vent’anni ha verso la sua ragazza.

Nel primo caso, l’affetto si chiama anche «attaccamento», in quanto deriva non solo dalla cosa, ma dallo scopo della cose perseguito; non solo dal vedere la ragazza, ma dallo scopo per cui la ragazza si mette con un uomo: i figli, l’educazione, il portare la famiglia.

E, a sessant’anni, vedere quarant’anni di questa traiettoria è commovente.

L’emozione raramente è commovente, l’affetto sempre.


42 – Secondo uso scorretto della ragione: quando il sentimento, l‘affetto, prevale sulla intelligenza della realtà.

L’intelligenza conosce la struttura delle cose, la forma delle cose; l’affetto indica lo shock che le cose conosciute impongono a noi.

289 – In un discorso come il nostro – non credo impropriamente -, si utilizza la parola emozione per indicare una espressione dell’impeto caratteristico dell’affectus, dell’affetto – in cui sempre termina la cognizione che l’uomo ha delle cose – proprio come impeto non collocato dentro il contesto della ragione, dentro un contesto che la ragione sorprenderebbe, designerebbe, indicando il punto centrale, lo scopo finale, i fattori indiziari di un cammino.

Mentre l’affectus no, l’affetto è quell’emozione in quanto consegue continuamente dalla scoperta che la ragione fa della realtà nelle sue connessioni, perciò segue la ragione che tratteggia il disegno totale, il disegno intero, l’interezza (la ragione è coscienza della realtà secondo l’interezza).

L’emozione sottolinea o accusa un colpo alla testa. L’affectus sottolinea l’emozione come qualcosa che investe il lavorìo che la testa, come ragione, fa sulle cose; non l’abbandona mai, anzi, quanto più la ragione si avvicina alla completezza, tanto più la ragione si inarca, diventa grande.

Tanto è vero che è molto più sicura l’affezione che un uomo ha per la sua donna a sessant’anni di quello che un giovane di vent’anni ha verso la sua ragazza.

Nel primo caso, l’affetto si chiama anche «attaccamento», in quanto deriva non solo dalla cosa, ma dallo scopo della cose perseguito; non solo dal vedere la ragazza, ma dallo scopo per cui la ragazza si mette con un uomo: i figli, l’educazione, il portare la famiglia.

E, a sessant’anni, vedere quarant’anni di questa traiettoria è commovente.

L’emozione raramente è commovente, l’affetto sempre.


382Affermare l’esistenza di una piccola cosa può essere più suggestivo ancora che affermare l’esistenza del Monte Bianco, perché indica una maggiore pertinenza a tutto ciò che è, indica una maggior sensibilità.

Questo alt che l’onda della tua ragione deve accettare nell’invadere la spiaggia di un essere – sia esso piccolo o grande – è un abbandono per cui lo possiede, perché ne affermi il mistero.

383 – Dico che per conoscere una cosa, o per conoscere l’essere di una cosa, occorre prima di tutto riconoscerla parte di un disegno, parte del disegno di Dio: ha una radice che nasce dal Mistero, fatta dal Mistero.

Perciò l’affermare l’altro è già un iniziale dimenticare se stessi.

467 – Perciò, quello che dice Gesù è che noi dobbiamo affermare l’altro, volere che l’altro sia.

Ma questo livello è quello che dice Seneca, il pagano: «Se vuoi affermar te stesso, afferma l’altro» (Seneca, Lettere a Lucilio); questa è una esperienza trasparente.

482 – Vivere la carità verso una persona significa sempre subire questo tipo di contrasto, proprio perché è la verità nell’affermare l’altro.

Affermare il suo aspetto materiale, concreto, l’apparenza esistente, e affermare il suo eterno appaiono in contrasto: devi esprimerli contrastandoli.

Ma quanto più li devi esprimere contrastandoli, tanto più senti l’unità che c’è dentro.

485 Intervento: «Primo: l’affermazione dell’altro perché c’è e come è….»[pag. 293 “Si può vivere così?”].

Risposta – Ma che cosa ti importa di lui? Ma c’è! Perciò io lo devo affermare, devo aiutarlo ad essere. Ma guarda come è stolto, come ti è ripugnante, come non ti corrisponde. C’è: per me tutta la ragione è questa. Allora io lo servo così come è, e per quel che ha bisogno.

«non per tornaconto nostro, per un calcolo nostro; o come lo vorremmo noi. Affermazione dell’altro come è, perché c’è: questa è la vera stima dell’uomo.Secondo: la condivisione dei bisogni.» [pag. 283 – “Si può vivere così?”].

499 – «Qual’è il vero sentimento che il sacrificio afferma come il sentimento più forte della vita? Il sacrificio afferma come il sentimento più forte, più grave e più grande della vita la tristezza, perché è la presenza che io voglio affermare non mi riesce di affermarla.

Io amo una persona, vorrei affermarla con tutto me stesso e non riesco: muore, due giorni dopo muore. Non riesci mai ad affermare l’oggetto dell’amore – la presenza proprio dell’amore – compiutamente, adeguatamente: perciò non può non essere tristezza il rapporto umano» [pag 330 – Si può vivere così?].

501 – L’amore nella sua realtà è affermare l’altro, affermare il bene dell’altro, volere il bene dell’altro, volere il destino dell’altro; chi non vuole il destino dell’altro, vuole una corrispondenza di «risonanza magnetica», vuole sentirsi molcere il cuore dal fatto che sono insieme.

502 – Il sacrificio è necessario in generale, per ogni azione dell’uomo, perché l’azione dell’uomo sia affermazione del vero e non di una menzogna, e la sua cordialità sia tributata non a un idolo, ma al Mistero vivente.


463 – Invece che affermare l’Essere come è, invece che la gratitudine al Mistero che fa le cose per aver creato un viso così, di avermelo fatto vedere, invece che questa gratitudine, una ripugnante reazione – ripugnante in tutti i sensi, in un modo o nell’altro -, un’effimera, superficiale ed inutile reazione; e poi finire con il dimenticare.


337 – La verità più affascinante di una donna o di una musica o di una cosa bella è di essere segno di qualcosa d’altro.

Quando l’uomo presènte questo, immediatamente piega l’animo ad attendere l’altra cosa anche davanti a ciò che può afferrare, attende un’altra cosa; afferra ciò che può afferrare, ma attende un’altra cosa.

La speranza non è in quello che puoi afferrare, ma in qualcosa d’altro.


(Cfr. anche: attaccamento)

61 – La conoscenza implica una affezione, implica un contraccolpo che si chiama affezione, affectus. La nostra anima è toccata: la vera conoscenza è l’insieme di questi due fattori.

237 – Il di Pietro a è Gesù […] è un atteggiamento affettivo che vince.[…] perché non c’è alternativa nella vita: o amare se stessi fino al disprezzo della vita, o amare Dio più di se stessi.

Questo attaccamento affettivo, che quei dodici hanno avuto verso di Lui, questo aderire a Lui nonostante non capissero, è l’inizio del concetto di obbedienza.

Che quei dodici siano rimasti lì nonostante tutti gli altri se ne fossero andati, perché non si capiva quel che diceva, è l’inizio dell’obbedienza; l’inizio del concetto di obbedienza.

278 – Alla vostra età acerba solo eccezionalmente può accadere che uno dica Gesù con dignità, la dignità che è in ogni affezione.

288 – Se una madre, fra tanti bambini, comprende che il suo bambino è là, nel punto più pericoloso, corre a prenderlo emozionata, vale a dire con affetto.

Il secondo strumento per possedere è l’affetto, l’affezione.

374ss – Dal pensiero si passa a una scelta di attaccamento a cose che si fanno, a un fare, a cose e modalità che si privilegiano, istintivamente: se piace, piace!

Il giudizio si traduce in una affezione, nel prestarsi ad una cosa per usarla oppure per non usarla: uno sceglie.

375 – Scegliere delle modalità concrete per cui uno usa delle cose: l’affectus è quell’impetus, quell’impeto che fa usare le cose.

Tanto è vero che al bambino che si innamora per la prima volta a sedici anni, l’affetto sembra avventarsi sulla ragazza e darle un bacio nell’occhio sinistro davanti a tutti!

Uno, senza accorgersi, usa, segue un affetto che lo spinge a, in base a quel che conosce – neanche riconosce, ma conosce: anche semplicemente, conosce.

376 – La noia è l’assenza di un sapere e l’assenza di un sentire, cioè l’assenza di un prendere e fare: l‘affectus, infatti, è prendere una cosa per fare. Perciò, la noia è l’anticamera della morte.

377 – «Tra il dire e il fare c’è di mezzo il domandare».

Il domandare mette tutto a posto appena si incomincia: dignità dell’impegno di fronte alla ragione, sincerità della ragione di fronte a ciò che accade e si sente, stimolo all’affettività.

Dopo il domandare che cosa viene? C’è una sola cosa: il tempo.

Domandare, evitarlo non si può. Evitare il domandare vuol dire evitare l’applicazione dell’intelligenza e dell’affetto a ciò che si è intravisto e contro cui non possiamo dire un bel niente.

526 – L’ira di fronte alla corruzione affettiva è come un piccolo foruncolo di fronte a un tumore: la corruzione della affettività è un tumore della vita umana, l’ira è un foruncolo.

Ma l’affezione non si può sospendere: il problema affettivo gioca il rapporto diretto con il divino; il rapporto affettivo ha talmente connessione col destino che crea, che è fatto per creare.

558 – Il centuplo è lo stesso sentimento, ma è come stato voluto da Dio, come sua spia, come suo sintomo, come suo segno.

Uno che arriva a questo punto è capace di non arrabbiarsi più ed è capace di morire per l’altro; è capace di essere così incastrato dall’affezione pur rendendosi libero a tutta la fantasia con cui il mistero di Dio lo chiama a mondo.


48 – Questa nebulosità è propria del rapporto tra la realtà e gli occhi dell’uomo, sia come conoscenza che affezione, per cui quel che si dice della conoscenza vale anche per l’affezione.

Il tipo di rapporto tra la realtà, i nostri occhi e il nostro cuore – conoscenza e affezione – è nebuloso.

È soltanto attraverso una approssimazione sempre più grande che ciò che la cosa è non «non si vede totalmente», ma «si può capire che è realmente la tal cosa»: si individua anche senza vederla del tutto.

61 – […] La realtà dà un colpo alla nostra coscienza; questo colpo, questo schock, in latino si dice – usando il verbo all’infinito – affici.

La conoscenza implica una affezione, implica un contraccolpo che si chiama affezione, affectus.

La nostra anima è touchée, toccata: la vera conoscenza è l’insieme di questi due fattori.

Allora si capisce – meglio, si è in grado di capire – l’oggetto.

Senza l’uno o l’altro di questi due fattori non si è in grado di capire l’oggetto.

227 – L’umiltà tende le corde dell’animo, della ragione e dell’affezione, così che, appena c’è un accenno di ragione, voi la percepite, siete propizi, siete desiderosi di poterla accettare, comprendere, vi si fa più ampio il respiro.

Dovete prepararvi all’assemblea. Chi non si prepara, non è degno di partecipare all’assemblea; non capirà, non capirà un centesimo di quello che potrebbe capire, perché non ha affezione: senza affezione non si può comprendere, non si può scoprire come ho tentato di spiegare quando ho descritto la dinamica della conoscenza.

230ss«La fede è un atto della conoscenza; la libertà è condizione perché essa avvenga. Questo atto di conoscenza, come ogni atto di conoscenza, che sentimento genera? che tipo di affettività genera? A ogni conoscenza consegue una affettività: che tipo di affettività consegue alla conoscenza della fede?»[pag. 110 di Si può vivere così?]

231 – Intervento: «Mi puoi spiegare questa frase: “Ad ogni conoscenza consegue una affettività?».

La conoscenza è innanzitutto riconoscere qualcosa che c’è; ma che, mentre ci passa davanti agli occhi, percuote gli occhi, stampa negli occhi se stesso, cioè shocca gli occhi.

232 – Questo è concetto di affectus: l’occhio è «affettato» dall’oggetto, ha affezione dell’oggetto.

Se questa affezione è grande e positiva, tu ti fermi, comperi l’oggetto, te lo tieni lì, lo studi.

Occorre un desiderio del vero e del bello assoluto per interessarsi veramente di tutto quel che accade, di tutto quel che passa davanti ai nostri occhi.

La conoscenza non è mai tale se non termina in una affezione.

Questa affezione può essere diversa.

A secondo di questa affezione, viene motivato l’atteggiamento di un altro fattore, che sta dietro le quinte, dietro quel fenomeno della conoscenza, che si chiama libertà.

La libertà è come un coltello che sta lì ed entra tentando di tagliare il nesso tra l’impatto della conoscenza e l’affectus che produce.

Fa sentire così astratta la cosa, poiché rimane solo la conoscenza (idea astratta) e arresta all’istintività l’atto, se rimane solo l’affectus.

E né l’una né l’altra cosa sono giuste.

Invece non si può tagliare in due il fenomeno della conoscenza: la conoscenza è la registrazione di una cosa in quanto c’è un secondo uno shock, un affectus che ti produce; e in base a questo c’è poi tutto il gioco della libertà.

Intervento: «Che ad ogni conoscenza consegua una affettività è una evidenza. Ma perché oggi nessuno più dice così?»

Perché oggi non si ha passione per l’essere, non si ha passione per il vivere, tant’è vero che non si mettono più neanche al mondo i figli; non si ha passione per l’essere, non si ha passione per la vita, non si ha passione per il destino, non si ha passione per niente. Si ha passione per soldi: «L’usura, la lussuria e il potere» [Eliot- Cori da «La Rocca»]

288 – […] Se una madre, fra tanti bambini, comprende che il suo bambino è là, nel punto più pericoloso, corre a prenderlo emozionata, vale a dire con affetto. Il secondo strumento per possedere è l’affetto, l’affezione.

374 – Il giudizio si traduce in una affezione, nel prestarsi a una cosa per usarla oppure per non usarla: uno sceglie.

456 – La carità ha una duplice valenza: è una affezione al più profondo, è una affezione al cuore, è una affezione all’intimo del tutto; che favorisce l’intelligenza ad ammettere che c’è qualcosa d’altro, che questo cuore, questa intimità, questo più profondo c’è oltre i suoi soliti metodi.

La carità è una affezione che porta l’intelligenza ad ascoltare con serietà la vocina “Non basta“.

Allora l’intelligenza ci bada al “Non basta” e cerca – cerca di qua, cerca di là, rovista qui, rovista là -, non riesce a trovare quel fattore.

Allora, se uno ha quella carità che è affezione, lo cerca continuamente, ma sente sempre: «Non basta».

Finché l’intelligenza dice: «Ho capito: è al di là di tutto quello che ho sperimentato. È al di là, cioè è Mistero».

Riassumendo: la carità entra in gioco già in qualche modo con la natura, in quanto la persuade a essere fedele nella percezione del Mistero; ma poi entra a rivelare cosa sia il Mistero, il profondo del Mistero.

550 – Abbiamo detto che la ragione è come un occhio che vede le forme, però le forme shoccano l’occhio e l’occhio reagisce a seconda che siano belle o buone, e l’oggetto si colora: si colora di bello, di buono, di brutto, così che la conoscenza è terminata quando è nato l’affetto.

L’affetto appartiene alla definizione di conoscenza, cosa che nessun altro vi ha spiegato.


237 – Il sì di Pietro a Gesù, la preferenza profonda che Pietro aveva per Lui, è un atteggiamento affettivo che vince.

[…] o amare se stessi fino al disprezzo della vita, o amare Dio più di se stessi.

Questo attaccamento affettivo, che quei dodici hanno avuto verso di Lui, questo aderire a Lui nonostante non capissero, è l’inizio del concetto di obbedienza.

Che quei dodici siano rimasti lì nonostante tutti gli altri se ne fossero andati, perché non si capiva quel che diceva, è l’inizio della obbedienza; l’inizio del concetto di obbedienza, il quale nasce dalla ragione.


(Cfr. anche: gesto)

213 – Cosa vuol dire obbedire? Che il criterio dell’azione che compi non è quel che pensi tu, non è quel che senti tu, ma quello che dice un altro.

Non confondiamo la razionalità dell’obbedienza con la razionalità dell’agire.

L’agire dell’uomo non è obbedienza sempre.

Ma se l’uomo agisce obbedendo, anche questo agire deve essere razionale.

L’uomo deve agire per ragione, altrimenti non è uomo.

Nell’attività dell’uomo c’è un attività che si chiama obbedienza; Perché deve essere razionale? Perché è un agire dell’uomo.

Cosa vuol dire obbedienza? Vuol dire che nel mio agire non quel che penso io, non quel che sento io, non la conseguenza di una mia riflessione o di una mia analisi, ma quel che dice un altro io seguo, io adotto come criterio.

Quando un gesto è obbedienza?

Quando il criterio con cui agisco me lo dice un altro.

Definita così l’obbedienza sembrerebbe un rinnegamento di se stessi.

371 – Intervento: «In questo che stai dicendo, la libertà dove si situa?»

Si situa dappertutto. Dovunque l’uomo faccia una azione, lì si situa la libertà e l’azione è sempre frutto di una conoscenza che shocca (affectus), che crea una attrattiva o una ripugnanza.

459 – Normalmente tutte le nostre azioni sono ragionevoli nella misura in cui sono un calcolo, altrimenti sono un colpo di testa.

Qui è proprio il contrario (la carità). Questo fenomeno, la carità, a chi lo vede vivere con la lealtà, con sincerità, appare come un’azione senza ritorno: è un gesto senza aspettarsi niente di ritorno.

La carità agisce per puro amore, solo per amore. Solo per amore? Agisce per amore anche chi dà i soldi ad un altro calcolando il ritorno; la carità agisce per puro amore, nel senso che: dato, fatto. Dato, fatto; non c’è più nessuna aggiunta, non c’è più nessuna appendice. [p. 271 Si può vivere così?].

566 – Intervento: «Lei dice che uno deve desiderare veramente. Vorrei capire quali sono i fattori che provocano un desiderio vero, perché io mi accorgo che l’azione, subito dopo aver domandato, non è determinata da quella Presenza»

Questo è il problema più grave della morale, della concezione della moralità. Io ho cercato di rispondere a questa domanda tutte le volte che ho parlato di Sinome e ho commentato il ventunesimo capitolo di san Giovanni.

L’azione subito dopo non viene determinata dal contenuto della domanda. Domando a Dio di essere sincero e non sono sincero. ecc…

Il di san Pietro è pronunciato persuaso, profondamente persuaso e commosso. E non c’entrava il fatto che Pietro l’avesse tradito o avesse voluto tradirlo ancora: non ci pensava!


495ss – Il sacrificio, o la croce, non solo è inevitabile per chiunque,ma è inevitabile perché l’atto che compiamo sia giusto, cioè sia vero e buono.

[…] Se la croce è così necessaria, vuol dire che non c’è atto della vita dell’uomo, non c’è azione vera e buona che non implichi un sacrificio.

Se è così statisticamente generale, non solo è un fattore determinante l’esistenza, ma è un fattore determinante la natura dell’azione in cui l’esistenza si concreta, in cui l’esistenza si traduce, in cui l’uomo crea.

Più precisamente, senza sacrificio l’azione non è se stessa, cioè non è vera nel suo significato non è buona nella sua conseguenza.

Se nessuna azione può essere vera e buona senza che implichi in qualche modo un sacrificio, vuol dire che un’azione in qualche modo è impostura se non implica un sacrificio.

497 – Quante volte mi avete sentito dire che noi non possiamo compiere un’azione buona, se non partendo dalla coscienza di essere peccatori?

Ora, la coscienza di essere peccatori è l’aspetto più acuto del dolore, è lo svelarsi più chiaro della necessita del sacrificio.

Io volevo sottolinearvi che la parola sacrificio diventa valore ai nostri occhi e non obiezione, se la sorprendiamo come l’unica condizione perché la nostra azione «sia» (qualsiasi azione, di qualsiasi tipo: creativo, di lavoro, quindi, di pensiero, di riflessione, di passione).

Una mamma non può aiutare il suo bambino per un giorno senza fare centrotrè sacrifici almeno. È partendo da questa osservazione che si capisce in che consista il sacrificio.

501 – Il sacrificio consiste quindi nell’offrire come tributo la fatica della propria azione, la fantasia del proprio agire e il gusto del proprio operare alla verità, e non a ciò che non è verità, cioè all’idolo.

504 – Il sacrificio è un fenomeno assolutamente generale; non si può fare una azione senza sacrificio.

Altrimenti quella azione diventa:

  • primo, bugiarda, fa adorare l’idolo, fa sperare in ciò in cui non si può sperare.
  • secondo, è contro la carità, non è una azione fatta per il bene dell’umanità, per la gloria di Cristo.

È ingiusta come azione, dal punto di vista del riconoscimento dell’oggetto e dal punto di vista della passione per il destino dell’uomo.

La natura del sacrificio si capisce se si tengono presenti quest due osservazioni.

502Primo: il sacrificio è necessario in generale, per ogni azione dell’uomo, perché l’azione dell’uomo sia affermazione del vero e non di una menzogna, e la sua cordialità sia tributata non ad un idolo, ma al mistero vivente.

Secondo: senza sacrificio la nostra azione non nasce mai dalla carità, non c’entra con la carità, non ama mai! Senza sacrificio la nostra azione non può amare, né l’uomo, né le cose.

C’è un calcolo che si insinua tra il cuore e le mani che devono agire, e turba la dinamica con cui l’oggetto acquista tutta la sua libertà, cioè si attua nella sua potenza, diventa ciò per cui è destinato.

Ma, soprattutto, questo con l’altro uomo: l’uomo non è trattenuto nel suo destino.

Senza sacrificio, il rapporto con l’uomo – chiunque sia, anche il rapporto della madre verso il suo bambino – non è vero.

Senza sacrificio – e, io dico, coscientemente accettato, perché non si può rimanere sempre bambini – non si ama niente e nessuno, eccetto che la reattività ultimamente animalesca del proprio io.

Perché senza sacrificio non si vuole il bene dell’altro. Dire : «Ti amo» significa affermare il bene dell’altro, cioè che conosca Dio e che, comunque faccia famiglia, via la famiglia come gloria di Dio!

503 – Senza sacrificio l’azione è contro la verità, perciò è per l’impostura: converte il cuore ad adorare l’idolo, la menzogna.


426ss – Intervento: «Volevo chiederti se coscienza di una Presenza vuol dire che in tutti gli istanti della mia giornata io devo pormi in un atteggiamento di domanda, cioè domandare quello che di vero ho incontrato nella vita»

Questa è una domanda seria, è la domanda che qualifica la serietà di una persona, ed è la domanda più ingenua e più buona che si possa fare: se la memoria è coscienza di una Presenza, la coscienza di questa Presenza deve essere in ogni azione?

La domanda si può tradurre così: il valore di un’azione sta nella memoria che attua; perciò in ogni azione dovremmo vivere la coscienza di quella Presenza altrimenti l‘azione si inebetisce, l‘azione si abbruttisce, l’azione si rattrappisce.

427 – Il valore di ciò che sta accadendo in voi – il valore, cioè il rapporto con l’eterno, il merito per l’eterno, la grandezza dell’animo con cui entrerete nell’eterno, la grandezza della vita eterna – sta nella memoria vissuta, sta nella fedeltà della memoria.

Dov’è la difficoltà? Dov’è la difficoltà, se è così chiaro quel che ha detto lui (siccome la memoria è coscienza di una Presenza, la coscienza di questa Presenza dovrebbe accompagnare ogni nostra azione)?.

Questa difficoltà, innanzitutto, misura la povertà, la piccolezza e anche l’infantilità del modo con cui si vive: infantilità, infantilismo è agire senza coscienza dello scopo, o agire con un tipo di reazione non degno dell’uomo (per esempio: istintivo come quello del bambino).

Dunque, a ogni azione dobbiamo aver coscienza della Presenza.

428 – Altrimenti è falso ciò che compio.

La domanda sorge perché sarebbe troppo difficile – se occorresse – che ad ogni azione noi realizzassimo la coscienza della Presenza.

Ma come si fa ad ogni azione? […] Ad ogni azione è impossibile.

429 – […] e non è neanche necessario.

430 – Non è necessario che tu lo pensi ad ogni azione, ma che tu desideri questa memoria, che tu desideri la coscienza di questa Presenza, che ami la coscienza di questa Presenza.

Fosse invadente in ogni azione! Non la temi come isterismo; non è una esagerazione.

432 – Perciò prima di tutto, la risposta che Dio chiede è che gli si dica: «Sì», «Ti riconosco», «Sì, Ti riconosco. Vorrei pensarti ogni momento, ma come si fa?».

Quanto più tu cerchi di esercitare quella memoria […] quanto più domandi di pensarlo, tanto più è come se il terreno si alzasse, si elevasse, diventasse più ricco.

433 -E man mano che si avanza, quanto più ripeti il gesto, tanto più avanza una cosa stabile in te, un atteggiamento che tende a diventare stabile e tendendo a diventare stabile, ti rende più facile moltiplicare il ricordo.

434 – E quanto più moltiplichi l’abitudine di questi gesti, tanto più essi diventano permanenti, come un substrato permanente, come la freschezza permanente di tutte le tue azioni. Finché diventa proprio il contenuto preciso del tuo pensiero e del tuo cuore, e non vorresti mai andar via da lì.


(Cfr. anche: condivisione)

221ss – (terzo fattore della razionalità del seguire) […] non solo ti spiega la vita, ha una concezione della vita che si fonda sulle esigenze comuni del cuore dell’uomo – quelle di fondo -, ma ti aiuta: ti aiuta a superare ciò che è contrario a queste esigenze; ti aiuta al sacrificio, cioè a quell’aspetto di coscienza per cui, aderendo alle esigenze del cuore, ti sembra di dover rimetterci qualche cosa, ti sembra di dover perdere qualche cosa.

Se una persona, nella concezione della vita che ti esplica e ti comunica, ti appare chiaramente trarre le mosse e poggiare tutto sulle esigenze del cuore, tue e di tutti gli uomini; se lo fa con gratuità, volendo il tuo bene, tanto che la prima cosa strana che ti colpisce incontrandola è questo aspetto di gratuità; se ti dà aiuto adeguato: allora obbedire a una persona così è doveroso, come è dovere compiere il razionale, è dovere compiere ciò cheh è ragionevole.


34 – La natura del cuore ti sospinge sempre, finché ti sospinge a un punto dove c’è un muro, come un muro, e tu non sai più andare avanti: il muro della morte.

Dunque la natura mi spinge oltre il muro della morte; la risposta c’è oltre questo muro, la risposta c’è nell’aldilà.

Per questo, fin dai primi tempi ci ripetevamo: «Si capisce l’aldilà in forza di una esperienza dell'”aldiqua“: l’esperienza del limite delle cose, che è essenziale all’esperienza dell'”aldiqua»

La risposta, dunque, la natura mi spinge a cercarla oltre. Negare questo «oltre» è negare la natura. Non c’è la possibilità di negare, c’è solo la possibilità di rinnegare. E rinnegare è un tradimento: il tradimento della natura di se stessi.

124 – […] la pietà serve a tutto, perché ha la promessa di essere utile per questo mondo e per l’altro. «Questo mondo» vuol dire i capelli della persona a cui vuoi bene, gli occhi della persona a cui vuoi bene, come l’elettricità e i chiodi.

135 – «Viva mirarti ormai nulla spema mavanza; s’allor non fosse, allor che ignudo e solo […] a peregrina stanza verrà lo spirto mio».

(G. Leopardi, «Alla sua donna» vv 12-16).

La più bella affermazione dell’aldilà, la più bella affermazione dell’eterno da parte del genio di un ateo.

205 – Chi vive l’esperienza della verginità, paradossalmente, giunge ad un punto in cui fa esperienza dell’affezione, fa l’esperienza affettiva ad un livello di tensione che prima, gliela si fosse descritta, non l’avrebbe capita.

Ma questa verifica non è da attendere nell’aldilà; anzi se non si fa questa esperienza nell’aldiqua, vuol dire che l’aldilà, come definizione, ha tutti i colori indecisi e mescolati.

276 – La gloria di Cristo è la scoperta di ciò di cui la realtà è fatta; diventa la fine di una menzogna: la fine di una illusione che, portata avanti con accanimento, si chiama menzogna.

È esattamente il contrario di quello che parrebbe: che sia menzogna l’aldilà. Mentre è menzogna l’aldiqua.

Siamo inescusabili, perché – è chiaro! – le cose dell‘aldiqua vanno a finire, finiscono, perciò non sono fatte da sé, niente si fa da sé, dunque tutto è fatto.


84 – Ogni esperienza ha un cuore: il cuore dell’uomo. Un cuore che è unitario in qualsiasi cosa l’uomo faccia, che è principio di unità dell’uomo stesso e principio di giudizio su tutto quello che l’uomo mangia, ingloba.

Se non fosse vero che i principi con cui giudicare la propria esperienza sono dentro l’esperienza stessa, l’uomo sarebbe alienato, perché dovrebbe far dipendere dal altro da sé per giudicare sé.

Plagio: l’uomo sarebbe un plagiato; un plagiato è quel fenomeno di esperienza in cui i criteri con cui l’esperienza giudica se stessa sono inoculati violentemente da qualcosa che sta al di fuori e non provengono da se stessi.

161 – «Le esigenze sono chiarissime, non è chiaro come le applichi, non chiaro come applicarle e come usarle. Per giudicare, che cosa devi usare? Le esigenze che hai dentro; se usi un’altra cosa ti alieni, diventa una alienazione; se usi altri criteri, sono i criteri della cultura che ti circonda e perciò sei alienata, sei schiava dei criteri altrui» [Si può vivere così? pp. 52-53].

243 – Quando l’obbedienza – che potrebbe apparire come un’alienazione perché la ragione per cui agisci non è più in te ma fuori di te, in un altro – è invece giusta? Quando non è alienazione, ma una affermazionen più potente di te stesso? Quando ciò a cui scegli di obbedire è riconosciuto corrispondente alle esigenze del tuo cuore, corrispondente al tuo destino.


(Cfr. anche: carità, gratuità)

96 – Se l’esperienza dell’amore in humanis sembra avere nel rapporto uomo-donna la sua espressione più suggestiva, non ultima ma più suggestiva, io debbo potere conoscere e approfondire il mio rapporto famigliare con Cristo e la mia affezione a Cristo così da ritrovarci dentro a un altro livello, più profondo e suggestivo, la suggestività dell’amore dell’uomo e della donna.

Quando abbiamo spiegato il brano del vangelo in cui Andrea e Giovanni sono tornati a casa, non era eliminato niente ai loro rapporti, al rapporto di Andrea con sua moglie e i suoi figli: Andrea aveva trovato qualche cosa di più profondo, più virante, più suggestivo che provocava la sua affettività cento volte di più che sua moglie, che pure amava.

196 – Paradossalmente, un amore è preferenziale quando ti fa struggere dalla voglia che tutti si amino così, quando ti piega a quello che sembra il contrario di se stesso.

370 – Cosa è amare? È affermare l’altro. Affermare l’essere è amore. Infatti chi non ha amore perché è in un momento di crisi o di tristezza o di nervosismo o di depressione, oppure di orgoglio, non riconosce se non quello che vuole lui.

Invece affermare l’essere è conoscenza che diventa amore, conoscenza che si concreta, si esistenzializza in amore.

Ma l’amore implica un’altra connotazione: affermar l’altro come significato di sé: non il significato di sé, ma come significato di sé, l’altro entra nel significato di me.

Affermare l’altro come significato di sé, cioè come appartenenza al significato si sé: tu appartieni alla definizione di me stesso; tu appartieni alla definizione di me.

Per questo è amore.

Ma se l’affermazione dell’altro come significato di me, il significato di me non sono io: è abbandono di me, è povertà.

La povertà è condizione dell’amore.

Amore è affermar l’altro come significato si sé – infatti io stimo ciò che è significato per me; sarebbe stupido stimare una cosa che non avesse rapporto col mio destino (significato è destino) -, ma se è affermare l’altro come significato si sé, vuol dire rinunciare al fatto che il significato di me sia io stesso (che è proprio dell’egoista o dell’egocentrico, del dittatore).

381 – Di fronte a una persona che io amassi, tanto sono ricco e gioioso nell’affermarne la presenza, nel sentirne la presenza, nel constatarne l’esistenza, nell’affermare la sua esistenza – e questo indica un potere, indica una ricchezza, indica una capacità di rischio, una forza: «di tutto sono capace in Colui col quale è la mia forza» -, altrettanto, immediatamente superassi questo confine, pretendessi superare questo lembo di spiaggia, mi sfiaccherei. .

Si sfiacca il rapporto con l’altro, se io pretendo di non essere soltanto gioioso della sua esistenza, ammirato della sua apparenza e tutto carico del presentimento della sua interiorità, della profondità del suo essere, perciò del Mistero che è in lui.

396 – […] il Mistero che fa te domina me mentre ti guardo, mentre ti penso. Questo è il distacco: non sei mia.

E, infatti, tutto il mio rapporto con te si esaurisce nell’affermare te, cioè nell’amarti, perché amare vuol dire affermare l’altro come significato e come presenza prevalente su se stessi.

Anzi, si può benissimo dire: affermare l’altro come significato di sé.

405 – Intervento: «Non riesco proprio a capire questa cosa nella mia esperienza»(Se si riconosce il Signore in tutto, tutto diventa nostro).

La difficoltà vostra è nel ritrovare nell’esperienza un corrispondente a ciò che si dice.

Perciò, quel che si dice può sembrare «belle parole», discorsi belli ma non reali, che non colpiscono la realtà propria. Invece – avendo almeno diciotto anni – siete ufficialmente incaricati della vostra maturità, siete adulti.

In che cosa bisogna essere adulti per capire queste cose?

Quando si parla dell’essere, perciò quando si parla delle cose più ultime e profonde di cui la vostra vita è fatta come la carne è fatta di tessuti vari, quando si parla dei tessuti della vita, c’è un solo tipo di esperienza riassuntivo, nel cui ambito si deve riscontrare qualcosa di ciò che ci sentiamo dire:l’esperienza dell’amore.

406 – E siccome il rapporto fra la piccola creatura – infinitamente piccola, infinitamente nulla – e la fonte del suo essere e del suo esistere è amore – l’amore all’Essere (Mistero), l’amore a Cristo (Mistero diventato uomo), che si riflette nell’amore ai fratelli, nell’amore dell’uomo alla donna, nell’amore del figlio a sua madre e a suo padre -, è dentro l’esperienza di questi riflessi amorosi che si capisce e si pre-sente quel che c’è dietro; senza presentimento del vero, che cosa saresti? Zero, niente.

In qualsiasi aspetto della tua evoluzione, guardandoti dentro, tu capisci che il voler bene a una persona non è prenderla, ma abbandonarsi.

L’abbandono è come se ti liberasse, non nel senso che ti libera della persona, ma ti libera nel rapporto con la persona: l’hai senza la preoccupazione di averla, ce l’hai, qualunque sia la sua risposta, qualunque sia il tuo atteggiamento, comunque poi la tua vita debba poi tradursi in atto.

423 – Riconoscendosi peccatore, l’uomo incomincia l’esperienza di un dolore che è fonte dell’amore. Si trasforma: il dolore è un amore.

Per questo non è negatività la sua permanenza; anzi, quanto più permane, tanto più diventa amore attivo, fattivo e dedicato.

L’amore o incomincia come dolore o resta come documento di una famelicità di possesso.

424 – Se rimane innanzitutto questa famelicità di possesso, l’amore non è più amore, l’amore è per modo di dire: l’amore indicato dal vocabolario di tutti i settimanali di oggi: tanto più è egoistica l’impostazione, tanto più lo chiamano amore!

Invece l’amore nasce da un dolore. Il primo accenno dell’amore è un dolore.

Il riconoscersi peccatore come origine dell’amore è ben diverso: riguarda il Fatto accaduto che, secondo l’idealità del cuore, non sarebbe dovuto accadere.

458 – Nella misura in cui c’è un calcolo, diminuisce l’amore.
il contrario dell’amore è qualsiasi tipo di calcolo.

«[…] La carità agisce per puro amore, solo per amore. Solo per amore? Agisce per amore anche uno che dà i soldi a un altro calcolando un ritorno: la carità agisce per puro amore,nel senso che: dato, fatto. Dato, fatto; non c’è più nessuna aggiunta, non c’è più nessuna appendice.» [Si può vivere così? p. 271].

478ss – «Un persona che vuole veramente bene a un’altra persona quando si stacca da essa e vede in essa il possesso di un Altro, cioè di Dio, non si stacca da essa, ma va fino in fondo ad essa, perché l‘amore, in quanto finisce nell’eterno, non perde nulla, neanche un capello del capo, come diceva Gesù, neanche un soffio appena accennato» [Si può vivere così? p. 292].

479 – Uno possiede veramente una persona, ama veramente una persona, vuol bene a una persona, quando si stacca da essa e vede in essa un altro è lo stesso – identico – che dire: «Una persona è amata quando è voluto il suo destino».

Vedere in essa un Altro è vedere in essa il suo destino; vedere in essa il suo destino, è amarla.

Ma per vedere in essa il suo destino, per amarla vedendo in essa il suo destino, per amare il suo destino, devi staccarti dal bruciore che ti fa vibrazione dei suoi occhi o la tenerezza dei capelli, o quanto la fantasia immagina che tu possa fare con essa di viaggi, di giri del mondo.

Infatti, non si stacca da essa, ma va fino in fondo. In fondo che cosa c’è? C’è il suo destino, altrimenti quello che vuoi è rubare ad essa, strumentare per te stesso qualcosa di essa, tradendo il fondo di essa, ciò per cui è fatta e per la cui manifestazione è fatta, il godimento ultimo per cui essa c’è: perché l’amore, in quanto finisce nell’eterno, non perde nulla.

480 – Se non vai fino a questo punto, non la puoi adorare, vuoi derubarla. Vale a dire: vuoi arricchire te stesso di una sensazione, non di amarla.

Amarla vuol dire entrare nella faccia di una persona, e camminare, camminare fino in fondo: in fondo non facendosi da sé, c’è un Altro.

È nel connubio di questa scoperta, è nell’unione fra te e questo Altro che scopri – al fondo di essa – che quella persona è totalmente esaltata e sta, e sta con te per sempre.

Per amare una persona devi strapparti da essa; strapparti dall’aspetto o dagli aspetti che bloccavano il tuo interessse.

Lo bloccavano, non te la facevano conoscere; bloccavano nel particolare quello che doveva essere tutto, e dicevano «tutto» al particolare: «ti amo perché amo il naso» sarebbe evidentemente sproporzionato!.

Amare uno andando fino in fondo alla sua faccia per giungere là dove è creato, è un sacrificio di te, perché tu vorresti fermarti o sei invitato a fermarti per ogni passo che fai.

481 – Per amare una persona, per voler bene a una persona veramente, tu devi strapparti da essa, strapparti da tutti i momenti possibili e immaginabili in cui un aspetto di essa o una parte di essa dice: «Fermati qui».

Deve subire una metamorfosi la faccia che hai davanti; se non subisce un cambiamento non l’ami più, si perde il divino, si perde il meglio della faccia: È triste quel che vivon tutti, è semplicemente triste.

489 – L’intelligenza diventa fede e ammette il Mistero. Allora la strada è così aperta che uno ci entra, arriva al cuore dell’essere e vi partecipa: la carità è gratuità; la capacità di Dio diventa capacità dell’uomo.

L’amore puro, la gratuità pura, l’amare senza nulla si esiga venga restituito, senza calcolo, senza nessun tipo di calcolo, senza nessuna condizione, senza condizione: tutto il cuore, tutta l’anima, tutta la mente.

L’uomo diventa capace di questo. Non più freddo cristallo, ma calore eterno, fiamma eterna.

501 – Il sacrificio è lo strumento contro l’idolatria: non ci è comandato di non amare, ma ci è detto come amare.

L’amore nella sua realtà è affermare l’altro, affermare il bene dell’altro, volere il bene dell’altro, volere il destino dell’altro.

521 – Intervento: «Io lavoro in un centro per ragazzi handicappati, e siamo stati in vacanza con loro. L’ultimo giorno una ragazza in carrozzina si è messa a piangere perché finiva la vacanza. Allora mi son detta: «Le solite storie…». Poi, invece, ho pensato che un conto è stare insieme a queste persone dicendo: «Insegno loro qualcosa, li aiuto a star meglio nella vita», e un conto è dire che sto insieme a loro per amore al destino. Allora mi sono accorta che mi defilo dal fatto di stare insieme per il destino e mi vien più facile dire: «Ti insegno a far questo e questo». E allora mi chiedo: «Come è possibile stare insieme con le persone per il destino?».

Tu insegni a queste persone una cosetta, un’altra cosetta, mille cosette che possono riempire delle ore della vita e ti trovi imbrogliata a parlare di ciò per cui la vita è fatta.

Mi pare più facile dire: «Padre nostro» che insegnare a fare i quattro cantoni. È più facile dire: «Padre nostro», perché questo è vicino a quando piangono e quando ridono, quando mangiano, quando bevono, quando dormono. E il respiro che se ne trae è totale, in qualunque posizione, in qualunque età.

522 – Con chi dice «Padre nostro» stanno meglio tutti: non con chi ripete, con chi dice. Ripetere sono delle parole, degli schemi, dei ritmi; dire è fatto di se stessi, cioè di coscienza della realtà (o giudizio) e di affermazione della realtà (che è coraggio affettivo), il coraggioso affetto di affermare ciò che è.

«Questa verità nel modo di amare che Cristo aveva, stupiva quelli che lo guardavano: rimanevano a bocca aperta. Quello lì, senza toccarli – toccava chi aveva gli occhi ciechi, toccava la bocca del muto, toccava gli orecchi del sordo, per guarirli, solo quello – eppure, quando uno arrivava a 20 metri da Lui, era trapassato da quella Presenza e andava a casa con dentro quella figura che stentava giorni e giorni a tirarsi via, doveva far fatica a tirarla via! In questo modo Cristo si metteva in rapporto con le persone realizzando un amore più utile, un amore più compagnia nel cammino, un amore che rendeva più leggero il cammino, un amore che anticipava, come un sussulto, la tenerezza eterna, un amore che anticipava in tutte le cose il rapporto che ebbe con Giovanni prima di morire, quando Giovanni aveva la testa sulla sua spalla» [Si può vivere così? p. 353].

523 – Intervento: «Ci è stato detto che Cristo viene e dice: No, quello che ami non muore. Se lo vivi con me non muore. Io sono dentro a quello che ami allora io pensavo: il sacrificio che a me viene chiesto adesso, quello della verginità, è per amare, per poter amare veramente, anche le persone che hanno attraversato la mia vita e che magari non vedrò più per tutta la vita?»

Siccome la verginità è dedizione a Cristo, in questa dedizione tu salvi l’eternità di ciò che hai amato.

La verginità non è la negazione di nulla, afferma la condizione per cui può diventare eterno ciò che ami o ciò che hai amato.

Ma non può diventare eterno ciò che hai amato se non attraverso la mediazione della sua utilità per il mondo.

Perciò è una operazione: le suore di clausura la chiamano offerta, istante per istante.

526 – La verginità ha come compito nel mondo di proclamare ed esemplificare la verità sull’umano: non è amore se non tende ad essere senza ritorno, è egoismo; non è amore senza ritorno se non è pronto a sacrificare la vita: «Nessuno ama tanto gli amici come colui che dà la vita per i propri amici». «Colui che dà la vita per i propri amici» [Gv 15,13]: nessuno di noi osa tentennare sulla stima di questa frase di Cristo, è l’estrema formula, non c’è un’altra formula possibile.

527 – La verginitià è l’esaltazione dell’amore come creatività per l’umanità, utile all’umanità.

La non verginità è un amore fittizio, nel senso che non è creativo in modo utile all’umanità.

541/542 – Tutti quelli che vanno in chiesa usano parole come: «perché Ti amo sopra ogni cosa». Cosa vuol dire «perché Ti amo sopra ogni cosa»?

Se una ha un ragazzo o una madre ha i bambini. «Ti amo sopra ogni cosa, cosa vuol dire? È impossibile. E invece è possibile! E che sia possibile, tu lo scopri in una esperienza in cui questo penetra la tua realtà, penetra la tua mossa e la piega in un certo modo, la fa fiorire in un certo modo, la fa lucente in un certo modo, le fa assumere una certa forma, per cui l’amore che una ragazzo porta alla sua bimba diventa amore di Gesù.

Questo spiega l’amore alla bimba e spiega anche perché uno rinunci a certe manifestazioni, e spiega anche perché uno muore per Gesù lasciando la sua bimba, cioè va missionario in Siberia lasciando la sua bimba.

569 – Nella vocazione per la verginità, questo nuovo modo di amare, l’eterno modo di amare, il partecipare all’amore che il Mistero divino ha per l’uomo, stabilisce un complesso di condizioni inevitabili e la necessità di un tempo per Cristo.

Aver più tempo per fermarsi a pensarlo, a prescindere dalle condizioni in cui Lui mi mette, è pretendere del tempo per una emozione spirituale, è un egoismo: acuta osservazione.

L’uomo tenta sempre di cercare Dio in una esperienza sublime, facendo coincidere il soprannaturale con l’astratto, mentre è accettando il reale, aderendo al reale così come accade, che ha come contingenza spessissimo una forma banale, che si partecipa al disegno di Dio e si va verso il destino.

570 – È la parola eterno: tant’è vero che il genio umano può arrivarci vicino, ai margini estremi della nube divina, e Marcel può dire: «Ama chi dice all’altro: tu non puoi morire» («La mort de demain», in Trois pièces di G. Marcel).

572 – Intervento: «La cosa che più mi ha colpito quest’anno è la trascendenza della realtà: Cristo si impara ad amarlo nel rapporto con la realtà; però io corro il rischio di un panteismo, mentre capisco che devo dare la vita a una persona, a Cristo».

Questa è un’ipotesi puramente astratta, sono delle parole dette.

Mi dispiace, voi che siete qui siete stati oggetto dell’iniziativa di un Altro.

Si impara ad amare Cristo riconoscendone la Presenza. È una grazia: come la presenza, così il riconoscerlo.

Lo sviluppo di questa grazia si chiama domanda.

Non è conoscendo la realtà che si conosce Cristo, perché non si ha il nesso.

È conoscendo Cristo che si conosce la realtà. E si conosce di più Cristo domandandolo.


406 – E siccome il rapporto fra la piccola creatura – infinitamente piccola – e la fonte del suo essere e del suo esistere è amore – l’amore all’Essere (Mistero), l’amore a Cristo (Mistero fatto uomo), che si riflette nell’amore ai fratelli, nell’amore dell’uomo alla donna, nell’amore del figlio a sua madre e a suo padre-, è dentro l’esperienza di questi riflessi amorosi che si capisce o si pre-sente quel che c’è dietro; senza presentimento del vero cosa saresti? Zero, meno di niente.

Guardandoti dentro, tu capisci, capisce che il voler bene a una persona non è prenderla, ma è abbandonarsi.

L’abbandono è come se ti liberasse, non nel senso che ti libera dalla persona, ma ti libera nel rapporto con la persona: l’hai senza la preoccupazione di averla[….]

572 – Intervento: «La cosa che più mi ha colpito quest’anno è la trascendenza della realtà: Cristo si impara ad amarlo nel rapporto con la realtà; però io corro il rischio di un panteismo, mentre capisco che devo dare la vita a una persona, a Cristo».

Questa è un’ipotesi puramente astratta, sono delle parole dette.

Mi dispiace, voi che siete qui siete stati oggetto dell’iniziativa di un Altro.

Si impara ad amare Cristo riconoscendone la Presenza. È una grazia: come la presenza, così il riconoscerlo.

Lo sviluppo di questa grazia si chiama domanda.

Non è conoscendo la realtà che si conosce Cristo, perché non si ha il nesso.

È conoscendo Cristo che si conosce la realtà. E si conosce di più Cristo domandandolo.

572 – Senza sacrificio non si ama niente e nessuno, eccetto che la reattività ultimamente animalesca del proprio io.

Dire «Ti amo» significa affermare il destino dell’altro, cioè che conosca Dio e che, comunque faccia famiglia, cica la famiglia come gloria di Cristo!

Allora la verginità è la virtù, è l’ideale di qualunque uomo! «Ti amo» vuol dire «Ti auguro questo: se Dio ha previsto me come to compagno alla vita, possiamo vivere bene insieme il cammino[…]».


108 – Intervento: «[…] com’è che Cristo può diventare esperienza per me?»

È solo il tempo che passa che rende esperienza – perché Cristo è Dio diventato uomo, perciò Dio che si obbliga a diventare esperienza carnale nell’uomo -: verrà il tempo in cui, sorprendendoti a guardare una donna che ti commuove, capirai che diversità c’è tra lo sguardo di allora e lo sguardo di adesso, e avrai pietà per l’infantilismo di adesso, o dovrai aver misericordia per l’egoismo di adesso.

155 – La bugia più malinconica, più triste, con le conseguenze umane più sottilmente amare, è l’amore dell’uomo alla donna senza che esso implichi questo affondarsi nel mistero, senza Cristo.

164 – Tutte le volte che parliamo della soglia dell’eterno che si sperimenta in questo mondo è l’inizio dell’eterno in questo mondo.

L’amore verginale di un uomo ad una donna è la soglia dell’eterno, è un aspetto dell’eterno, è un vibrare dell’eterno dentro l’esperienza di questo mondo, è già una presenza dell’eterno in questo mondo.

335ss – Ma l’uomo non è fatto solo per la felicità, è fatto per collaborare a creare il cammino alla felicità, cioè il suo destino attraverso rapporti responsabilmmente vissuti, perciò l’amorosa idea che nasce, che scaturisce dal guardare il volto di una donna, questa senzazione:

336 - «....Tutta [rivolta] al volto ai costumi alla favella / Pari alla donna che il rapito amante / Vagheggiar ed amar confuso estima» [Aspasia, di Giacomo Leopardi].

È come se fosse funzione di altro: la donna suscita nell’amante un’immagine più grande di sé, e per questo ci è attaccato.
Ma essa non è la donna che ha davanti, bensì una immagine in cui il desiderio di essa si desta e alimenta: l’«amorosa idea». E questa, «ancora / negli amorosi amplessi , inchina ed ama».

E lui identifica questo in quello che gli deve dare la donna, e così diventa ingiusto, perché non può pretendere da essa quello che essa non può dare.

337 – Così l’uomo fa coincidere le sue eccessive attese con una donna che ha davanti, con ciò che ha davanti, mentre ciò che ha davanti rimanda ad altro che egli non sa, ma che attende e non sa neanche di attenderlo.

Cristo è venuto per chiarire questo gioco: «Tutto è segno di me. tutto parla di me». Tutto ciò che è grande nella vita dell’uomo è profezia di Lui.

La speranza non è in qualcosa che puoi afferrare, ma in qualcosa d’altro.

338 – Il segno è per sua natura provvisorio, eccetto quello che ti porta a Cristo; quando il segno è segno di Cristo, rimane, come Cristo, per l’eternità.

L’eternità si affaccia sul volto della donna amata, l’eternità di affaccia sul panorama della natura che contempli con venerazione, l’eternità di affaccia nelle note della musica che ti piace.

La speranza cristiana è che tutto si trasformi così.

339 – Mistero e segno coincidono: il Mistero è la profondità del segno, il segno indica la presenza del Mistero profondo, la segnala ai nostri occhi, alle nostre orecchie, alle nostre mani; il Mistero si rende esperienza attraverso il segno.

340 – Le creature amate, stimate, che ci attirano, non sono una indicazione di dove sia Cristo – la bellezza del mondo – ma sono luoghi dove Cristo si incarna per toccare te, per richiamare te, per essere servito da te, per essere amato da te, per essere utilizzato per il tuo contributo alla salvezza del mondo.

Seguire e guardare.

519 – Se tu non vivi il rapporto con tua madre o con tuo padre, se un uomo non vive il rapporto con la sua donna come lo vivrebbe Gesù….Ma, in fondo, la differenza dell‘amore alla donna di uno che la sposa con uno che cammina con essa nella verginità, la differenza sta nel destino che il Padre ti ha chiamato a vivere: ti ha dato questo compito e non te ne ha dà un altro.

Tutti e due sono compiti, tutti e due hanno, quindi, una fecondità, quella che il Padre gli ha assegnato: ti chiede la fecondità della verginità o ti chiede la fecondità della famiglia normale.

Un uomo non può essere rispettoso della sua donna, se, avendola sposata, non pensa: «Cristo come la tratterebbe?».

Tra lui e lei, se non si richiamano alla presenza di Cristo, si tratteranno male, cioè saranno sempre più l’uno fuori dall’altro, fuori.

520 – Così uno che è chiamato alla verginità non può capire cosa vuol dire amare una donna, non può capirlo se non riscostruisce in sé come Cristo sarebbe, farebbe nell’amore a quella donna.

A priori, siete tutti costretti ad ammettere che Cristo ama quella donna più di me, più di quanto la possa amare io, nella strada della verginità su cui sono, o lui o anche l’uomo che l’avesse sposata.

Quanto più uno si immedesima con questo, tanto più può amare quella donna come Cristo ama: vive con Cristo.


369 – Quando entrerete nelle case, davanti alla clausola della povertà non fate «le piaghe», siate pieni di abbandono, che vuol dire dono di sé e libertà dalle cose: il dono di sé ad un altro che è Gesù, e libertà dalle cose.

«È questa povertà che rende pieni, liberi, attivi, vivi, perché la legge dell’uomo – il dinamismo stabile di quel meccanismo naturale che si chiama uomo – è l’amore, cioè l’affermazione di un Altro come significato di sé» [Si può vivere così? – p. 221].

Che strano: la povertà nasce dalla fede attraverso la speranza, da una parte; e, dall’altra, trova subito un’altra mano, diventa dono di sé ad un altro, abbandono di sé ad un Altro, cioè amore

Così la povertà può definirsi anche con questa frase: l’affermazione di un altro come significato di sé. L’affermazione di una altro come affermazione di sé, per sé è amore, ma dinamicamente, come avviene, è povertà, perché ti libera da ciò cui tu ti appiccicheresti.

370 – Intervento: «Io vorrei capirlo di più»

Affermare l’altro come significato di sé, cioè come appartenenza al significato di sé: tu appartieni alla definizione di me stesso; il tu appartiene alla definizione di me. Questo è amore.

Ma se è affermazione dell’altro come significato di me, il significato di me non sono io: è abbandono di me.

La povertà è condizione dell’amore.


401/402 – Il silenzio è la memoria del mattino che si risveglia, che è la resurrezione di Gesù; questa certezza assoluta del futuro, proiettata sul sentimento che ci ingombra l’animo alle sei e un quarto di quella mattina in cui ci svegliamo e in cui si innesta la guerra tra la consapevolezza ideale, l’amore alla vita, l’amore all’essere e la sopportazione del tempo dell’esistenza, la guerra tra l’amore e la sopportazione – perché la sopportazione è sempre in bilico, pendente dalla parte del suicidio; quando Cristo e Dio vengono meno come presenze dominanti l’aria che respiriamo, la pendenza verso il suicidio diventa più frequente.

573 – Si possono amare i bambini senza la paura della fatica da fare? Si possono amare i bambini senza la paura della fatica da fare, se tu accetti la fatica.

Se tu non accetti le fatiche, rischi anche di buttar via i bambini.

Però, la cosa più interessante è questa: dimmi una cosa che tu puoi amare senza dover fare la fatica di sopportare.


301 – Tutto il fascino dell’esperienza cristiana sta qui: la scoperta che nella mia vita c’è un Tu – non tu, ma Lui -, ci sei Tu.

Su di Te io fondo tutta la mia certezza, la mia speranza è in Te.

Che è, tra l’altro, la conferma della grande legge della vita, che è l’amore: dalla speranza, infatti, nasce l’amore; la speranza ha come oggetto ancora il bene di sé; nella certezza del bene di sé per il dono di un Altro si libera la capacità di amare questo Altro.

Voglio semplicemente dire che la dinamica è uguale nella speranza e nell’amore: è il Tu che domina la vita, come nella fede.


491 – L’unità, appena si muove, produce un suono delicato che si chiama amore, che non ha nulla da cedere al tempo e allo spazio, che il tempo non dissocia e lo spazio non dissolve.


460La ragione che sostiene la carità è totalmente ed esclusivamente l’oggetto dell’amore, l’oggetto autentico dell’amore. L’oggetto autentico dell’amore cos’è? Il bene dell’altro, il destino dell’altro, perciò il suo rapporto con Cristo» [Si può vivere così? p. 272].

499 – Il sacrificio afferma come il sentimento più forte, più grave e più grande della vita la tristezza, perché la presenza che io voglio affermare non mi riesce di affermarla.

Io amo una persona, vorrei affermarla con tutto me stesso e non riesco: muore, due giorni dopo muore.

Non riesci mai ad affermare l’oggetto dell’amore – la presenza proprio dell’amore – compiutamente, adeguatamente: perciò non può non essere tristezza il rapporto umano.


459 – «….la carità agisce per puro amore, solo per amore. Solo per amore? Agisce per amore anche uno che dà i soldi ad un altro calcolando un ritorno; la carità agisce per puro amore, nel senso che: dato, fatto. Dato, fatto; non c’è più nessuna aggiunta, non c’è più nessuna appendice» [Si può vivere così? p. 271].

E si vede se uno dà una cosa per uno scopo; alla fin fine si vede ciò per cui la dà – il ritorno lo si vede – . Ma è nell’atto stesso che son diverse le due azioni, l’amore umano e la carità; nell’atto stesso si vede che l’uomo è preso dal desiderio di avere un riscontro, mentre nella carità, no: dà e basta.


28 – Mai il vostro io è stato così io: finora mai, in nessuno di voi. Mai avete detto io con tanta verità come lo potete dire oggi, per questo il gesto di iniziare che avete compiuto, per quest’ora di inizio, per questo primo passo sulla strada.

Sei tu: qui sei tu, è il tuo passo; inopinatamente, non avevi pensato a questo, non potevi neanche immaginarlo.

Invece, che il tuo amico abbia fatto questa strada – guarda se non è un amico! – finalmente ti ha reso te, e dici io come non l’hai mai detto fino ad ora mai!

125/126 – Quando diceva: «Nessuno ama tanto gli amici come colui che dà la vita per i suoi amici»(Giov 15,13) lo diceva a dodici persone che erano in quella sala semioscura, illuminata dalle fiaccole della sera.

139 – Ma come facciamo, ragazzi, a radunarci parlando di queste cose, pensando a quell’uomo che non sarebbe più se non fosse presente; non sarebbe più ora e non sarebbe mai stato; con la pretesa che ha sulla mia e sulla tua vita, non sarebbe mai neanche stato se non fosse presente, presente a me e a te ora!

Per questo ti voglio bene – capisci Guido?-, per questo siamo amici: non è qualcosa di sopraggiunto o che vigila sui nostri rapporti, «è» il nostro rapporto, coincide materialmente con il nostro rapporto.

162 – Quella fessura è una ferita dentro il ferro che recinge il cuore […]

Il problema, perciò è: ritornare sempre a quella ferita, o farti ritornare sempre a quella ferita (questa si chiama amicizia), o qualcosa che irrompa nella tua vita e ti costringa a vivere quella ferita (e queste sono le prove che Dio manda alla tua vita).

209ss – La moralità nasce come simpatia prevalente, irresistibile, a una persona presente. Non a delle leggi, non a una purità: a una persona presente. E infatti, la verginità è l’amore a una persona presente.

210 – «L’amicizia è un rovesciare la propria esistenza nella vita dell’altro» [Si può vivere così? p. 86].

L’amicizia è l’aiuto appassionato, come consapevolezza e come passione a vivere il rapporto con l’altra persona avendo come contenuto di interesse il suo completamento, la sua felicità, il suo destino e perciò il suo cammino.

Dire cammino implica per forza la foce, la meta, il destino.

211 – L’amicizia è la passione per il destino dell’altro quando l’altro te la ricambia, ti accetta; riconosce e ti accetta.

Allora diventa amico, altrimenti è soltanto compagno.

Cristo è fratello e compagno di tutti: amico di pochi, perché chi gli corrisponda, gli risponda, si trova raramente.

Allora fissa Lui quelli che deve avere: siete voi! Dio, se è bello!

Ma quando uno capisce che è bello, non può più desistere dal prendere per il collo l’amico e obbligarlo, se potesse.

239 – […] Per individuare come realizzare meglio la strada su cui ti è sembrato essere chiamata da Gesù (la vocazione), innanzitutto la domanda che tu hai fatta è meglio che tu la porga direttamente a chi guida la realtà comunitaria, la compagnia ecclesiale, l’amicizia vocazionale in cui Cristo t’ha messo, di fatto – è un dato di fatto: se tu ti ritrovi qui, questa è la compagnia, questa è l’amicizia, questo è il rapporto con la Chiesa che hai.

245 – Questo paragrafo identifica l’obbedienza come la forma propria dell’amicizia.

La virtù, cioè il comportamento giusto, l’adesione permanente, la fedeltà propria dell’obbedienza, altro non è che la virtù dell’amicizia.

Ma l’amicizia cos’è se non volere bene all’altro per il suo destino, volere il destino dell’altro?

Obbedire, seguire chi vuole il tuo destino, identifica il seguire, l’obbedire con l’amicizia; chiarisce come obbedire e seguire sono la vera amicizia.

L’unica cosa che il capitolo suppone è che l’amicizia sia volere il destino (ma questo è chiaro: volere il bene dell’altro vuol dire volere il destino dell’altro).

261 – La tua domanda sorge perché l’amicizia che hai vissuto con quella ragazza e l’amicizia che hai vissuto con i tuoi amici, avevano dentro Cristo come maschera caratteristica, come parte del linguaggio corrente, ingrediente di una immaginazione tentativamente completa delle cose, non come realtà.

Solo se è realtà non vi disunite più!

Come io, dopo quarant’anni non sono neanche un pò disunito dal mio amico Pigi che è in Brasile o da coloro che, ormai diventati genitori, mi presentano i loro bambini: tra me e loro c’è qualcosa di troppo serio, e il troppo serio, nella vita, non è la vita – che può crescere come un fungo (con la dignità di un fungo!)-, ma è il Mistero che si dimostra nella vita, che si contesta delle circostanze della nostra vita.

E non c’è rapporto con nessuno dei miei amici che non lo implichi, che non me lo ricordi; i momenti più amichevoli, più profondamente amichevoli, sono i momenti in cui ce lo ricordiamo tutti insieme: quando cantiamo, per esempio.

Per questo per me il canto è il fattore principie di un’amicizia (a dire il vero il canto autenticamente religioso, e più ancora cristiano).

273 – Rose può fare amicizia lì e Francis può lasciarsi ammazzare dai miliziani di Amin davanti a suo padre perché non vuole promettere di non andare più a far Scuola di Comunità.

Francis può diventare martire solo per l’immanenza dell’amicizia.

È un suolo strano il suolo di una umanità cristiana, che ha una storia cristiana: sembra che tutto sia morto e invece c’è un fervore di possibilità che esplode dove necessario, ed è necessario quando Dio vuole.

309Chi ti vuole bene dimostra che è una presenza che ti fa arrivare. Anche lui, anche chi ti vuol bene è il segno di quella presenza, e non c’è amicizia più acuta, più intensa, più bella.

È la disperazione di Leopardi che non ha trovato amici. Nel suo momento culminante, quando era a un palmo dalla verità totale, si sarebbe fatto frate se avesse avuto degli amici.

526 – La verginità ha come compito nel mondo di proclamare ed esemplificare la verità sull’umano: non è amore se non tende ad essere senza ritorno, è egoismo; non è amore senza ritorno se non è pronto a sacrificare la vita: «Nessuno ama tanto gli amici come colui che dà la vita per i propri amici» [Gv 15,13].

Nessuno osi tentennare sulla stima di questa frase di Cristo, è l’estrema formula, non c’è un’altra formula possibile.


245 – Questo paragrafo identifica l’obbedienza come la forma propria dell’amicizia

La virtù, cioè il comportamento giusto, l’adesione permanente, la fedeltà propria dell’obbedienza, altro non è che la virtù dell’amicizia.

Ma l’amicizia cos’è se non volere bene all’altro per il suo destino, volere il destino dell’altro?

Obbedire, seguire chi vuole il tuo destino, identifica il seguire, l’obbedire con l’amicizia; chiarisce come obbedire e seguire sono la vera amicizia.

L’unica cosa che il capitolo suppone è che l’amicizia sia volere il destino (ma questo è chiaro: volere il bene dell’altro vuol dire volere il destino dell’altro).

L’obbedienza è la virtù di questo volere il bene dell’altro.

Quanto più segui chi vuole il tuo bene, tanto più sei te stesso: non «ti vendi», ma ti «ritrovi».

Il soggetto dell’obbedienza è l’io di fronte al destino; l’atto obbediente rende l’io più io.


89 – La ragione fa conoscere la realtà all’uomo rendendo sempre più aspra e più feroce la solitudine dell’uomo di fronte alla realtà.

È soltanto il bambino che si sente bene in compagnia, mentre è innegabile che un’amicizia cosmica è molto più consona alle esigenze del cuore che neanche la solitudine che morde ogni tanto il tempo dell’adolescenza.


478ss – «L’anno scorso, negli appunti che sono stati presi per questa lezione, c’è una frase che deve essere cambiata.La frase diceva: “Una persona vuole veramente bene a un’altra persona quando si stacca da essa e vede in essa il possesso di un’Altro, cioè di Dio”. Non “si stacca da essa”, ma “va fino in fondo ad essa, perché l’amore, in quanto finisce nell’eterno, non perde nulla,neanche un capello del capo, come diceva Gesù, neanche un soffio appena accennato» [Si può vivere così? p. 292].

479 – Che c’è in fondo alla persona? C’è il suo destino, altrimenti quello che vuoi è rubare ad essa, strumentare per te stesso qualcosa di essa, tradendo il fondo di essa, ciò di cui è fatta e per la cui manifestazione è fatta, il godimento ultimo per cui essa c’è: perché l’amore, in quanto finisce nell’eterno, non perde nulla.

In fondo alla tua faccia sta un Altro, che è la tua felicità.

Staccarsi da te significa staccarsi dal naso, dagli occhi, dai capelli, dal particolare: è il particolare che tradisce la totalità.

480 – Tu hai due immagini:

  1. La prima: di una persona a cui vuoi bene, immagini, guardandola in faccia, di andare fino in fondo, in fondo alla sua faccia; in fondo alla sua faccia c’è un Altro: per questo l’adori, puoi adorarla. Se non vai fino a questo punto, non la puoi adorare, sei impostore, vuoi derubarla. Vale a dire: voi arricchire te stesso di una sensazione, non amarla. Amarla vuol dire entrare nella faccia di una persona, e camminare, camminare, camminare fino in fondo: in fondo, non facendosi da sé c’è un Altro. È nel connubio di questa scoperta, è nell’unione tra te e questo Altro che scopri – al fondo di essa – che quella persona è totalmente esaltata e sta con te per sempre.
  2. La seconda: per amare una persona devi strapparti da essa; strapparti dall’aspetto o dagli aspetti che bloccavano il tuo interesse. Perciò sia l’andare a fondo che lo strapparti hanno la stessa natura originante: sono immagini, che la tua esperienza materiale di permette di compiere, che veramente imbragano un’idea grande che sta al di là del limite materiale da cui l’immagine è estratta. Amare uno andando fino in fondo alla sua faccia per giungere là dove è creato, è un sacrificio di te, perché tu vorresti fermarti o sei invitato a fermarti a ogni passo che fai.

13 – C’è stato qualche cosa per cui io mi sono sentito di incominciare. Sentite: dopo quel giorno a seguire Gesù erano in sei o sette: il primo gruppo era di sei o sette. Perché? Perché due avevano incominciato la sera prima: si chiamavano Andrea e Giovanni. Perché hanno incominciato? C’è stato «qualche cosa» per cui hanno incominciato a vivere un orario di vita differente: qualcosa di diverso e di meglio.

91 – Così vanno al bar alla mattina a prendere il caffè, quei pescatori, Giovanni e Andrea…e sapete la storia del primo capitolo di Giovanni.

Quello a cui pensavano in certi momenti, anche sbadatamente, senza coscienza netta, davanti a quell’uomo sono obbligati a precisarlo.

Capiscono cosa vuol dire una cosa eccezionale – che pur risponde a loro -: «Non c’è nessuno come questo qui. E non c’è nessuno che risponda a quello che io desidero come quest’uomo. Risponde a quel che desidero e che neanche io capisco di desiderare: non saprei io dire quello che desidero come lui sa rispondere a quel che desidero».

96 – Quando abbiamo spiegato il brano del Vangelo in cui Andrea e Giovanni sono tornati a casa, non era eliminato niente ai loro rapporti,al rapporto di Andrea con la moglie e i suoi figli: Andrea aveva trovato qualcosa di più profondo, più vibrante, più suggestivo che provocava la sua affettività cento volte di più che sua moglie, che pure amava.

109 – Per Andrea e Giovanni l’avvenimento è stato quando, andando a casa sua, hanno incominciato a sentirlo parlare in un certo modo, per cui – «Oddio»- non si poteva spiegare più.

Erano colpiti, oppressi ed esaltati da quello che diceva. Più lo sentivano, più erano ammaliati. Era un avvenimento.

Quando Gesù è nato dalla Madonna è stato un avvenimento. Giovanni e Andrea non c’erano; perciò, per loro, l’avvenimento è stato là, in quella casetta. Per i pastori, i Magi, e san Giuseppe fu nella capanna di Betlemme. Ma, dopo, Giovanni e Andrea hanno domandato a Lui: «Dove sei nato?», e Lui gliel’ha spiegato.

Così hanno saputo anche loro dell’avvenimento di Betlemme, ma l’hanno saputo per via indiretta.

Lì era per via diretta che capivano che c’era qualcosa di eccezionale – cioè un miracolo -, c’era un mistero dietro, perché loro non se lo potevano spiegare.

155Giovanni e Andrea, quando guardavano la sua faccia, non vedevano una menzogna, coglievano la modalità suprema con cui l’effimero – e quindi la possibilità incombente di falsità – si strappa all’equivoco, si identifica con la presenza del Mistero, dell’eterno: «Filippo, chi vede me vede il Padre»

218 – La fede è un giudizio: «Di questa persona mi posso fidare». Siccome mi posso fidare la seguo.

Giovanni e Andrea dopo quel pomeriggio andarono a casa, si dissero una sola cosa a metà strada, esprimendo sinteticamente tutto il loro pensamento: «Se non mi posso fidare di quest’uomo, non mi posso fidare più neanche di me stesso».

Pensate, ragazzi, che, se diciamo queste cose per la nostra vita cristiana, la nostra vita cristiana è tale e quale quella di Giovanni e Andrea: risponde alle stesse questioni, ne ripete tutto il dinamismo.

272 – Se tu pretendi di esaurire la conoscenza prima di seguire, ti metti in una prigione da cui non uscirai più. Invece è l’inverso: appena c’è uno spunto che tu riconosci, segui.

Cosa vuol dire seguire? Guardare. Secondo il linguaggio oggettivo degli uomini, seguire vuol dire guardare.

Che verbo abbiamo usato per Giovanni e Andrea? Lo «guardavano» parlare!

274 – Dio si mette in rapporto con il mondo fissando un luogo, entra in rapporto con un luogo che si chiama tempio; questo tempio ad un certo punto si è cambiato in una casa, la casa di Nazareth, per un uomo che vi stava dentro, Gesù.

Quello è il punto in cui il Mistero entra nel mondo: quel luogo, quella casa.

E poi gli amici che si è fatto in quei giorni – Andrea, Giovanni -, i quali, dopo aver parlato con Lui, correvano a casa a sire: «Dio, che cosa abbiamo sentito! Come parla!».

E la moglie di Andrea che incominciava a vederlo silenzioso – cosa che non era mai capitata -: «A che cosa pensi?», «A quell’uomo là».

Poi l’han detto agli amici, han cominciato a ritrovarsi, a seguirlo; poi gli amici degli amici….finché sono arrivati alla fine del secolo, e al secondo secolo, poi al terzo secolo…finché sono arrivati a mia mamma, la quale me l’ha detto.

307 – «Io sono il Dio che aspettate, io!»

Giovanni e Andrea, quella sera, l’hanno sentito parlare così: sono rimasti così sconvolti che non si sono staccati più – anche se più di una ventina di persone non gli stava mai dietro -, non si sono staccati più.

L’hanno detto alla moglie, ai figli, alle zie, ai nonni…intanto così si diffondeva un pò, ma, al massimo, saranno state alcune centinaia di persone quando è morto.

Qui non si tratta di ponte radio, si tratta di creazione di popolo, di generazione di un tipo umano così diverso che ne nasce una gens, ne nasce una razza umana diversa, diceva Paolo VI.

Nella miseria della nostra pusillanimità, noi saremo parte di questa razza umana diversa.

345 – La povertà cosa è? Non porre la speranza della felicità in un oggetto fissato da noi.

Se foste entrati nella casa in quelle due o tre ore in cui Giovanni e Andrea sono stati là e aveste detto: «Aspetta un momento maestro, sospendi! Giovanni e Andrea: volete qualche altra cosa? La vostra felicità, la vostra gioia, la vostra sicurezza, la vostra luce è in qualche altra cosa?», vi avrebbero buttato fuori come quando uno sta contemplando un bel quadro e un altro cretino gli va davanti: lo prende e lo porta via forzosamente.

360 – «La fede non fa nascere la letizia immediatamente, ma mediatamente […] un sentimento è vero quando risponde a tutte le domande di tempo: spiega il passato, chiarisce il presente e assicura il futuro» [Si può vivere così? p.217].

Intervento: «“Risponde a tutte le domande di tempo”: io ho provato a farmi una immagine di questa cosa, ma è come se non ci riuscissi».

Giovanni e Andrea, quando sono andati a casa quella sera, avevano trovato la risposta a questa domanda. L’espressione che hai letta precisa ciò a cui Giovanni e Andrea sentirono risposta piena nel cuore.

361 – Per Giovanni e Andrea quel giovane uomo che avevano davanti agli occhi, quell’uomo spiegava il passato (la parola Messia raccordava quell’istante, quelle ore che stavano passando sentendolo parlare, con tutto il passato del loro popolo), chiariva il presente, perché rappresentava una evidenza così limpida, le parole essendo dette con una superiorità eccezionalmente persuasiva; e non avevano neancheil problema del futuro, tanto era risolto.

363 – Pensate a Giovanni e Andrea: per tutta la loro vita il presente più presente è stato il presente di quel giorno.

Non c’è niente di paragonabile, eccetto che il rinnovarsi di quel giorno tutti i giorni della loro vita.

394 – […] La posizione di Giovanni e Andrea verso Gesù: gli occhi aperti, la bocca spalancata, a sentirlo.

Lo sentivano senza pre-concetti, senza erigere a propria difesa e a proprio guscio di salvataggio il fatto che loro facevano una cosa bella e buona come il fariseo nel tempio.

Il detto prima di capire vuol dire disponibilità. La povertà è disponibilità.

548 – Il cammino del Signore è semplice come quello di Giovanni e Andrea, di Filippo e Simone e anche di Simone!

Non è la decisione di Simone a dir di sì, ma quella semplicità per cui il è nato dalla sua convivenza di tre anni. Questa è la scelta della libertà, che coincide con una storia nel tempo.

Non è un attimo: senza connessioni non c’è il valore di un attimo, la connessione con il resto si chiama storia.

578 – Dopo, Lui è uscito di casa e si è tirato dietro Giovanni, Andrea….quelli lì, quella dozzina lì eran diventati le mura – mura dilatate ancora – della casa di Nazareth.

Quelli lì, poi, andavano a casa, lo dicevano alle mogli, agli altri parenti ai figli: sono diventati una settantina.


49 – In America c’è un vasto movimento «angelista»: fanno gruppi, ogni gruppo individua il suo angelo custode e fan tutti quel che vogliono, avendo questo angelo custode!

L’unica obiezione che noi abbiamo è che noi non avremmo mai saputo che ci sono gli angeli custodi!

Chi dice: «C’è l’angelo custode» è un visionario.

Ma quando il Mistero avesse scosso il nostro cuore e interessata la nostra mente diventando uomo, sedendosi a mensa con noi…e mentre mangiava disse: «State attenti che i bambini bisogna trattarli bene, ché il loro angelo vede continuamente la faccia del Padre mio!» [Mt 18,10].

Allora c’è un altro fattore che mi introduce a capire che c’è una realtà diversa che io non pensavo, non riuscivo ad immaginare; e l’altro fattore è questo uomo che ha detto: «Io e il mistero del Padre siamo una cosa sola. Io sono Dio».

Se Dio è venuto a dirmelo, dopo che me lo ha detto Lui, allora ho incominciato a capire che l’angelo custode è una idea, è una realtà – e quindi anche una idea – fantastica, nel senso di bellissima.

354 – Se io sto facendo una cosa e sono libero, non sono attaccato: sono povero, libero nel senso di povero.

Se il Signore mandasse un angelo invisibile – io non me ne accorgo che è un angelo, ma lo è – che mi dice:«Cambia atteggiamento. Fa’ quest’altra cosa qui», io, essendo libero nel fare quello che sto facendo, subito seguo quella indicazione.

Se invece fossi bloccato da un attaccamento appena appena eccessivo a quello che sto facendo, dico: «Aspetta, aspetta sto…»


111 – Quando tutti i capi partito, i grandi politici, i grandi artisti, i grandi filosofi e letterati e sociologi sono passati dalla casa di Emmanuel Mounier, al posto di onore nella tavola non era il ministro X, il capo di governo Y, il grande artista, il grande genio, il grande filosofo, ma la figlia idiota, perché quell’idiota era il segno dello spirito infinito, del rapporto con l’infinito, che è l’anima, nascosta come dentro una tomba di una materia resa opaca dalla malattia.

Riconosciuta e accettata e offerta a Cristo, con la sua croce, perché salvasse il mondo.

517 – L’io dell’uomo che cosa è? Taglia via una fetta, taglia via un’altra fetta, tagliate a fette il Carlo, giungete all’ultimo nucleo: l’anima dove è? C’è una parola più chiara di anima: io.


208 – (La samaritana) lei non sapeva più dove mettere gli occhi, perché dove aveva trovato nella vita un uomo che la guardasse così?

Né avrebbe potuto essere interessata, se in questo essere guardata non avesse innanzitutto scoperto una cosa nuova, il cui nome era antico – era antica ma era nuova -, cioè l’affezione, l’amore.

233«È entrato nel mondo come un uomo, uomo come gli altri; perciò come gli altri uomini suoi coetanei andavano al sabato alla sinagoga, anche Lui andava alla sinagoga, pregava con quelli della sinagoga, diceva i salmi che diciamo noi e che dicevano gli Ebrei fin da allora.[…] Gesù prendeva sempre quella occasione per alzare la mano e andar fuori a parlare. Quello che incominciò a dire di nuovo, lo disse dentro l’antico: era un nuovo modo di vedere il mondo.

Le parole erano le stesse: era un nuovo modo di vedere le parole antiche. Insisto perché questa è la vita del cristiano, essere cristiani è questo: una novità che si apre sempre il varco dentro le parole antiche» [Si può vivere così? p. 112-113].

234 – Essere cristiani è questo: una novità che si apre il varco dentro le parole antiche, dentro i sistemi antichi che sempre hanno fatto vivere un uomo, dentro le abitudini solite dell’uomo.


(Cfr. anche: positività)

169/170 – […] Se l’individuo si pone verso la realtà con sospetto, guarderà tutte le cose con sospetto; appena trova un intoppo, lo interpreta in favore del suo sospetto.

Se invece uno si pone di fronte alla vita non con sospetto ma positività, non è che lui, davanti a quella duplice versione delle cose, sia genialmente e stranamente – profeta ispirato – portato alla versione positiva.

Ma c’è un fattore, che gli altri non considerano, e che lui, siccome è aperto, considera.

Qual’è questo fattore? È che tutta la tradizione primitiva dice che Cristo non è affatto contraddittorio e che i due testi non sono contraddittori.

171 – È vero che uno arriva alle conclusioni secondo il punto di partenza: se inizia con una sfiducia, alla fine quello che cerca e quello che scrive sono i motivi per confermarsi, per permanere in questa sfiducia.

Invece iniziare aperti a tutte le possibilità – che è una delle caratteristiche della ragione: la categoria della possibilità – è l’unico modo per mettersi nel reale e poter scoprire e riconoscere il reale.

178 – Se parti con sospetto, innanzituto sei portato a non guardare quei fattori che ti romperebbero le scatole; mentre, se parti con cuore aperto, non hai paura di nessun fattore che entri in gioco, neanche di un fattore come una tradizione di mille anni che non trova un corrispondente analogo.


119/120 – […] Ma se fossero (tutto il popolo) stati insieme a Lui come quella dozzina, se fossero stati con Lui settimane, mesi, a vedere tutti i giorni quel che faceva – tutti i giorni! -, a sentire quel che diceva!

La convivenza è un fattore ultimamente tanto più necessario – perché sia ragionevole il nostro assenso, il nostro affidamento al testimone – quanto più il testimone dice una cosa grossa.

241 – «Con che parola si può definire l’atteggiamento che Cristo ebbe verso il Padre? È quella che san Paolo dice qualche riga dopo: “fatto obbediente fino alla morte”. Simone e gli altri si sono fatti obbedienti a Cristo anche di fronte all’incomprensibile». [Si può vivere così? p. 119]

Allora l’obbedienza degli apostoli a Lui, il seguirlo, costituiva veramente qualcosa di religioso: il valore dell’adesione della loro testa, della loro affettività a Lui era un valore misterioso.


275 – «Tutto in Lui consiste» [Col. 1,17]. Questo è lo scopo del mondo: che si riveli che cosa è il mondo.

Allora noi comprendiamo che viviamo con vergogna una immensa menzogna: l’apparenza diventa un’immensa menzogna se non è segno di Lui.


313 – «La fedeltà nell’appartenenza, che è la stoffa della pazienza o la fatica della speranza, ha un modo di esprimersi. Quale? La domanda; è il domandare o, meglio ancora – siccome non è il domandare di uno che è qualche cosa lui e vuole altro, ma è domandar tutto -, è mendicanza» [Si può vivere così? p. 172].

314 – «I nemici di questa fedeltà nell’appartenenza, i nemici più rilevabili sono la discontinuità[…] un giorno su e un giorno giù. La discontinuità, dunque, e poi la fatica e il dolore» [Si può vivere così? p. 172-173].

565 – Soltanto che, amico mio, «niente» non puoi diventare: sei stato fatto e perciò «sei di», appartieni; rifiuta quel che vuoi, ma appartieni, appartieni a qualcosa che non è innanzitutto quello che capiresti e vorresti tu. È meglio far coincidere Colui cui appartieni con quello che Lui vuole da te, è meglio far coincidere: si è più in pace.


22 – La necessaria approssimazione nell’affrontare la strada con la ragione. Necessaria approssimazione, perché prima di fare una strada tu présenti qualcosa che te la fa guardare, capisci che quella strada c’entra con il destino della tua vita e col destino della vita del mondo: questo lo senti e non c’è nessun altro discorso in cui lo senti, nessuno; allora ti ci metti.

23 – È un paradosso da cui non si può scappare: la ragione raggiunge la certezza o la pienezza di un «vero» attraverso approssimazioni, passi approssimativi.

L’approssimazione non è irrazionalità, perché l’approssimazione – per usare un’altra metafora – pre-sente, anticipa, ha il presentimento di un qualcosa di vero.

48 – Intervento: «Lei ha sottolineato che è attraverso una approssimazione che si giunge alla certezza. Io volevo fare una domanda su questa approssimazione, e cioè se è il metodo per conoscere, per immedesimarsi».

Approssimarsi vuol dire avvicinarsi.

La parola approssimazione dipende dal tipo di realtà che noi viviamo.

Il tipo di rapporto tra la realtà, i nostri occhi e il nostro cuore – conoscenza è affezione – è nebuloso. È soltanto attraverso una approssimazione sempre più grande che ciò che la cosa è non «si vede totalmente», ma «si può capire che è realmente la tal cosa»: si individua anche senza vederla del tutto.


470ss – Ma se la sorgente si inaridisce e io debbo andare avanti solo con la forza della volontà, per coerenza, perché non posso negare che le cose stanno così, il centuplo dove vado a prenderlo?

In quei momenti è la memoria storica che ti salva; e ti salva l’esito di questa memoria storica, che è la compagnia in cui sei.

Vi assicuro che, dopo tre anni di emozione, tre mesi di aridità, trent’anni di aridità, tre mesi di «riemozione» o di rimozione dell’ostacolo della commozione, a un certo punto: plaff, si spalanca davanti al buco immenso del mare e lo copre tutto, senza fine.

471 – Se ti vengono tre mesi di aridità, non puoi negare tre mesi di commozione per l’aridità che hai adesso.

E non so per quante volte è così: tre, quattro, cinque, sei, sette, non importa.


53 – (A Nagoya nel monastero buddhista) Ho parlato per 57 minuti di ciò che identificava l’esperienza della realtà per il buddhista e per il cristiano, ed ero tutto proteso a dimostrarne l’identità: sotto la diversità dei termini, l’identità del contenuto.

Ma quando, negli ultimi tre minuti, ho detto che questa armonia di cui tutto il reale è fatto, questa corrispondenza ultima di cui tutte le cose sono soggetto e contenuto di destino, è diventato uomo, è nato dal seno di una donna di 15/17 anni, capivo io, nel dire queste parole, l’impossibilità a dirle: era impossibile dirle, e le ho dette!

Mi era impossibile come uomo, ma non mi era impossibile come uomo che ha fatto un certo incontro.

Nessuno mi ha obiettato.


106 – Si chiama Cristo risorto e il suo Spirito che domina il mondo innanzitutto attraverso i chiamati – la Pentecoste -, e poi si diffonde nel mondo: nella Ascensione al cielo va alle radici delle cose, che sono tutte sue; e le cose non si accorgono di essere brandite, ma c’è una mano che si stringe attorno ad esse, per cui esse si sentono sostenute e chiarite nel momento opportuno: si chiama grazia di Cristo.


346 – La povertà è quella libertà dalle cose – anche dalle facce – che avviene come conseguenza della identificazione chiara di ciò da cui possiamo sperare la felicità, di quella Presenza da cui ci aspettiamo tutto, che è tutto: «Tutto per me Tu fosti e sei», diceva Ada Negri in Mia giovinezza.

Per questo la faccia significativa, che era entrata nella tua vita o che hai visto passare per la tua vita, non la perdi più. Ma per questo non la perdi più, non perché tu dici «Mi è piaciuta quella faccia»: è per il nesso tra quella faccia e quella Presenza.

Altrimenti passa questo aspetto delle cose, passa l’aspetto effimero delle cose (aspectus: la faccia, la faccia delle persone e delle cose).


225ss – […] È lo sbaglio che fin qui ho fatto, ma adesso non lo farò più: ingenuamente ho creduto che, moltiplicandosi le assemblee, moltiplicando gli interrogativi sui punti non chiari, uno capiva di più.

Così sarebbe stato, se fossero state davvero domande.

Invece cosa è avvenuto nelle vostre assemblee?

226 – Non domanda fu l’assemblea, ma investigazione! Se volete una parola, la meno insultante di tutte: le vostre sono state investigazioni più o meno serie, scandagli….la parola investigazione è la parola proprio giusta.

227 – La domanda è fatta con umiltà. L’umiltà tende le corde dell’animo, della ragione e dell’affezione, così che, appena c’è un accenno di ragione, voi la percepite, siete proprizi, siete desiderosi di poterla accettare, comprendete, si fa più ampio il respiro.

Dovete prepararvi all’assemblea. Chi non si prepara non è degno di partecipare all’assemblea; non capirà un centesimo di quello che potrebbe capire, perché non ha affezione; senza affezione non si può comprendere, non si può capire.

Prepararsi all’assemblea vuol dire pregare, quindi chiedere a Dio che si riveli, che venga, che risponda, che corrisponda, che io si capace di non stare lì irrigidito, ma di allargare le braccia ed accettarlo.

Perciò non venite alle assemblee da investigatori, che spesso traduce qualcosa di peggio: un preconcetto che «Ti sfido a dimostrare che non è vero! Dimostrami tu, dimostrami!»

Si chiama «scetticità» questa estrema figura dell’investigatore che sei tu, del piccolo, «cimice» investigatore dell’infinito Iddio.

Invece il piccolo cuore del più piccolo bambino riceve la luce dell’eternità nella sua semplicità.

249 – Non dovete più venire all‘assemblea con delle domande a guisa di scimitarre sfoderate.

Le domande non devono essere espressione di una curiosità, di un tentativo di rivalsa contro il parere di chi ha parlato, scettiche, non devono essere domande inquisitorie; le domande debbono essere di mendicanza – mendicare di capire il proprio volto, di capire il proprio cuore -, devono essere, cioè, vere domande o domande di verità su di sé.

493 – In un raduno come questo, allora, è più necessario che si cantino i canti del popolo di Dio in cammino verso la patria.

Il popolo in cammino verso la patria siamo noi: gente di tutte le razze, di tutti gli stati, di tutte le età, di tutte le condizioni, come un essere solo, come un popolo solo.

Questo popolo non dimentica i suoi canti. Anzi, quanto più è ufficiale il raduno, tanto più è obbligatorio il canto; magari non preparato o cantato male, ma quanto più i raduni sono obbligatori, tanto più il canto è necessario.


(Cfr. anche: immedesimarsi)

158/159 – Immedesimarsi vuol dire percepire l’essere dell’altro, percepirlo nella sua espressività, percepirlo nella sua potenza creativa, percepirlo nel suo destino, come si percepisce se stessi: il medesimo; Per immedesimarsi occorre amare: io so tu, tu sei io.

Intervento: «Cosa vuol dire assimilarsi a te?»

«Assimilarvi a me» non significa assimilarvi a me come «io, tal dei tali», ma entrare nel gioco dell’esperienza che faccio, comprendendo queste cose.

Assimilarvi vuol dire fare il vostro movimento di chiarezza, il movimento di illuminazione, il movimento di comprensione che si ha di una esperienza che si sta facendo, e assimilarvi al sentimento che da questo giudizio nasce.

È un assimilarvi non a me, ma ad una esperienza che può essere fatta da te, a una esperienza che si può ripetere in te.


232 – La conoscenza non è mai tale se non termina in una affezione.

Questa affezione può essere diversa. A seconda di questa affezione, viene motivato l’atteggiamento di un altro fattore, che sta dietro le quinte, dietro questo fenomeno della conoscenza che si chiama libertà.

La libertà è come un coltello che sta lì ed entra tentando di tagliare il nesso tra l’impatto della conoscenza e l’affectus che produce.

Fa sentire così astratta la cosa, poiché rimane solo la conoscenza (idea astratta) e arresta all’istintività l’atto, se rimane solo l’affectus.

E né l’una né l’altra cosa sono giuste.

Invece non si può tagliare in due il fenomeno della conoscenza: la conoscenza è registrazione di una cosa in quanto c’è secondo uno shock, un affectus che ti produce; e in base a questo c’è poi tutto il gioco della libertà.

311 – Non sono astratti per noi che abbiamo settant’anni, sono esperienza per chi ha fatto una storia umana; sono astratti per chi non l’ha ancora fatta, come voi che avete soltanto brandelli di scontro con la realtà.

Il vero nostro nemico è che le nostre parole sembrano astratte.


465 – L’oggetto principe dell’amore senza ritorno è Gesù. Tanto è vero che il riverbero di questo può essere l’amore che portiamo al papà e alla mamma, alla donna e all’uomo, ai figli o qualunque altro uomo: le altre vicinanze sono riflesso di questa.

Dove sta l’inconveniente del mio dire? Che è astratto per chi non è concreto!

Per tutti quelli per cui non è concreto, è astratto, e l’astratto non serve a niente.

Il mezzo per far diventare concreto il rapporto con Cristo, non è innanzitutto quello di ragionare insieme, parlare insieme, ma è quello di chiederlo, di mendicarlo da Lui: si tratta della sua persona.

Se una persona non si rivela, nessuno può sfondarla per conoscerla.


379 – Per afferrare, comprendere tutti i fattori in gioco e da questo spalto lanciarsi nell’avventura dell’eterna conoscenza, dell’infinita conoscenza – che vale per il mistero di Dio, come vale per il piccolo fiore del campo cui dà vita -, per realizzare questo scopo del nostro vivere cosciente ed amante, bisogna distaccarsi.

Non è colpa mia, ma devo dirlo! Hanno colpa tutti quelli che non ve lo dicono, vale a cire il 99,99 per cento della gente che conoscete; hanno colpa, o perché non riflettono minimamente su quel che fanno – perché allora capirebbero, intuirebbero, non sentirebbero così estraneo quello che dico -, oppure perché violentemente cercano di imporsi alla natura delle cose, sono atei.


(Cfr. anche: affezione)

142 – (Al giovane ricco disse): «Ti manca una cosa: vieni con me.» È il di Pietro!

Perché san Pietro gli ha detto di sì? Perché era attaccato. «Attaccati a me!» Vale a dire: «C’entro io con la perfezione della moralità. È buono chi riconosce e ama me». «Me»: Quid est veritas? Vir qui adest, l’uomo che hai lì davanti.

Questo uomo che hai qui davanti è la grande questione, cioè il grande Mistero, la questione del grande Mistero, la questione del grande Dio – «Io sono Dio» -. «E quello se ne andò triste»:da quel giorno in avanti non fu più semplice.

289 – L’emozione sottolinea o accusa un colpo alla testa.

L’affectus sottolinea l’emozione come qualcosa che investe il lavorio che la testa, come ragione, fa sulle cose; non l’abbandona mai, anzi, quanto più la ragione s’avvicina alla completezza, tanto più l’affezione si inarca, diventa grande.

Tanto è vero che è molto più sicura l’affezione che un uomo ha per la sua donna a sessant’anni di quello che un giovane di vent’anni ha verso la sua ragazza.

Nel primo caso l’affetto si chiama anche «attaccamento», in quanto deriva non solo dalla cosa, ma dallo scopo della cosa perseguito; non solo dal vedere la ragazza, ma dallo scopo per cui la ragazza si mette con un uomo: i figli, l’educazione, il portare la famiglia.

E, a sessant’anni, vedere questa traiettoria di quarant’anni è commovente.

L’emozione raramente è commovente, l’affetto sempre.

485 – Aiutare l’altro così che il giorno dopo abbia un po’ più dei soldi che ha bisogno, questo è carità; o che sappia meglio il testo di religione o il testo di matematica che deve portare all’esame, questa è carità; e siccome è ammalato ed è lì tutto il giorno da solo, andarlo a trovare, questa è carità.

«Attaccamento all’altro, affezione all’uomo; sia come devozione (rispetto), sia come fedeltà (continuità del rispetto)» [Si può vivere così? p. 293].


383 – «La povertà appartiene dunque al dinamismo della conoscenza, per cui occorre un distacco per vedere le cose e quindi usarle e goderne di più. Allora capite come si può parlare di distacco intelligente e pieno di affezione. Senza questo distacco non ci sarebbe tale intelligenza e tale affezione» [Si può vivere così? p. 224].

Intervento: «Vorrei capire il nesso fra le due cose che ci hai detto: l’attaccamento alle cose come porta per conoscere l’essere e la necessità del distacco. Guardando me in azione, vedo che tante volte io mi attacco alle cose. Allora mi sembra che la povertà si giochi nella domanda, perché capisco di non essere capace di povertà.»

Dico che per conoscere una cosa, o per conoscere l’essere di una cosa, occorre prima di tutto riconoscerla parte di un disegno, parte del disegno di Dio: ha una radice che nasce dal Mistero, fatta di Mistero. Perciò l’affermar l’altro è già un iniziale dimenticare se stessi.


403 – Intervento: «Io volevo sapere a che cosa si devono appoggiare la certezza e l’affidamento per essere stabili. Perché per la mia esperienza è come se la certezza dell’essere affidati dovesse sempre ricominciare da capo. Allora, cosa deve prevalere il giudizio o l’attaccamento, o insieme?»

Deve prevalere il giudizio a cui a un certo punto sei arrivata, dal quale non si può non sprigionare un attaccamento. Ma l’attaccamento si sprigiona come e quando Dio vuole.

È il mistero del Padre che traccia l’itinerario della tua strada. Tu devi essere fedele al prima, fedele all’avvenimento, il cui frutto principale è un giudizio di certezza.

L’abbiamo sempre detto: nella morale cristiana l’unica cosa che non c’è è la matematica, non esiste la matematica, non esiste la misura.

Il di san Pietro a Cristo che misura ha dentro? Che prospettiva di anni aveva dentro? Impossibile concepirla: è il e basta.


169 – La ragione si muove sempre in un certo modo di fronte alla realtà.

Secondo un certo atteggiamento che l’individuo ha verso la realtà.

Se l’individuo si pone verso la realtà con sospetto, guarderà tutte le cose con sospetto; appena trova un intoppo, lo interpreta a favore del suo sospetto.

E invece è uno che si pone di fronte alla vita non con sospetto ma con positività […se] c’è un fattore che gli altri non considerano, e che lui, siccome è aperto, considera. Qual’è questo fattore? È che tutta la tradizione cristiana primitiva dice che Cristo non è affatto contraddittorio e che i due testi non sono contraddittori.

544-545 – La cosa importante non è rispondere a tutte le domande, ma è l’atteggiamento dell’io.

545 – È l’atteggiamento dell’io di fronte al tocco che la tua esperienza percepisce, o che la tua esperienza deve riconoscere, o che la parola che ti si dice pretende di essere; è l’attegiamento dell’io di fronte al momento della dinamica del cuore che si chiama innamoramento, che si chiama soggezione, che si chiama insoddisfazione, che si chiama esperienza della cattiveria, esperienza di dolcezza, generosità, dono, crumiraggio, ecc…..

È l’atteggiamento del cuore. Ma cosa vuol dire questo atteggiamento del cuore? Se il cuore è nella stessa posizione in cui il Mistero creatore l’ha buttato nell’universale paragone.


241 – «Con che parola si può definire l’atteggiamento che Cristo ebbe verso il Padre? È quello che san Paolo dice qualche riga dopo: «fatto obbediente fino alla morte». Simone e gli altri si sono fatti obbedienti a Cristo anche di fronte all’incomprensibile» [Si può vivere così? p. 119].


123 – C’è un connessione per cui in proporzione alla tua sensibilità e attenzione – in proporzione non alla tua intelligenza, ma alla sensibilità della tua intelligenza (alla sensibilità che la tua intelligenza ha della vita, al sentire ciò che vive) e in proporzione alla tua attenzione ad ascoltare quello che la tua sensibilità ti dice – puoi essere più unita.


30 – Dio crea l’uomo come promessa e l’uomo attende come risposta.

[…] una tensione, una promessa, che costituisce la nostra carne, le nostre ossa, il nostro cuore, e la risposta è l’ultima parola dell’Essere; l’ultimo volto della realtà è la risposta ad una promessa.

31 – Ecco, allora, che Colui che ci ha costituiti come attesa della risposta, Colui che ci ha fatti promessa ogni tanto fa scaturire dalla compagnia umana dei profeti, i quali, alla gente, tutta distratta,dicono: «Badate, per favore,che siete in cammino per un’altra cosa».

Infatti non è pensiero quello degli uomini; è reazione, di fronte alle cose che capitano, in cui si esprime l’attesa.

L’attesa si esprime, ma si esprime confusamente, come reazione alle cose che accadono, perciò, al fondo, come delusione di fronte alle cose che accadono o come mortificante gioia (Mortificante gioia perché è una gioia che finisce: più mortificante di questo c’è soltanto la morte).

336 – Nella musica, nel panorama della natura, nel sogno notturno, è a questo qualcosa d’altro che l’uomo rende il suo omaggio, da cui aspetta: l’aspetta. Il suo entusiasmo è per qualcosa che la donna, o la musica, o tutto ciò che è bello al mondo, ha destato dentro.

Nell’uomo – vedendo l’oggetto amato e stimato – è stata destata l’attesa di qualcosa d’altro. E lui identifica questo in quello che gli deve dare la donna, e così diventa ingiusto, perché non può pretendere da essa quello che essa non può dare.

337 – Così l’uomo fa coincidere le sue eccessive attese con una donna che ha davanti, con ciò che ha davanti, mentre ciò che ha davanti rimanda ad altro che egli non sa, ma che attende e non sa neanche attenderlo.

Cristo è venuto per chiarire questo gioco: «Tutto è segno di me. Tutto parla di me».

Tutto ciò che è grande nella vita dell’uomo è profezia di Lui.

Nell’inno Alla sua donna Leopardi esplicitamente lo dice: la bellezza del viso muliebre, la bellezza del panorama della natura, la bellezza della musica sono segno di qualcosa d’altro; non nel loro circuito sta la soluzione, non posso chiederla a loro, è a qualcosa d’altro che mi rimandano.

E l’uomo attende questo qualcosa d’altro.

La verità più affascinante di una donna o di una musica o di una cosa bella è di essere segno di qualcosa d’altro.

Quando l’uomo prèsente questo immediatamente piega l’animo ad attendere l’altra cosa: anche a ciò che può afferrare, attende un’altra cosa; afferra ciò che può afferrare, ma attende un’altra cosa.

La speranza non è in qualcosa che puoi afferrare, ma in qualcosa d’altro.

518 – Ora, la natura, cioè il buon Dio, ha fatto il cuore dell’uomo come una attesa, una sete, una ricerca condotta via via dall’evidenza.

E l’evidenza che cosa è? Ricordo quello che disse un mio carissimo alunno di prima liceo: «L’evidenza è una inesorabile presenza»


317 – «Essere attaccati alla propria opinione esige la perdita della semplicità, l’introduzione di una presunzione e il prevalere della propria immaginazione sull’attesa. È esattamente il grande pericolo che tutti noi corriamo: il prevalere delle nostre immagini sull’attesa che Dio ci ha destato nel cuore e che Cristo ci ha rinnovata, anzi, ci ha precisata» [Si può vivere così? p.184].


517 – Intervento: «Io sento una passione perché tutti lo riconoscano, però, adesso ho incominciato a lavorare e sono sola in ufficio e quel che faccio non lo vede nessuno. Allora come legare questa situazione alla gloria di Cristo, alla passione che tutti lo riconoscano?»

Questo è l’esempio più clamoroso della ecumenicità, della totalizzazione, della comprensività infinita che ha l’attimo, ogni attimo, vissuto con la coscienza di Gesù.

Quella ragazza nel suo ufficio, se offre a Dio l’istante in cui è, a chi lo offre? All’infinito! Ha un valore infinito.

È il rapporto tra l’infinito e il mondo che conta, non il rapporto fra te che fai l’erbivendolo e il mondo, fra te che fai il professore di chimica e il mondo.

Non è questo che influisce sul mondo, è il tuo rapporto con Dio.

Quel che fai come professore di chimica è rapporto con Dio; se non vivi questo non vale niente

518 – È nella mani di Dio che il tuo «tic-tac» diventa utile all’universo.

Se un attimo solo, un solo frangente, una sola intersezione del tempo e dello spazio – un attimo? neanche un attimo: dieci milionesimi di un attimo – fosse inutile, Dio non ci sarebbe, non sarebbe Dio, non ci sarebbe il mondo! Tutto è utile.

Solo in san Paolo – di tutta l’antichità, di tutto l’umanesimo del mondo, nel mondo -, solo in san Paolo trovate la frase «Tutto è utile» (2 Tm 3,16), e fa un elenco che non so a memoria.

548 – Non è la decisione di Simone a dir di sì, ma quella semplicità per cui il è nato dalla convivenza di tre anni. Questa è la scelta della libertà, che coincide con una storia nel tempo. Non è un attimo: senza connessioni non c’è il valore di un attimo, la connessione con il resto si chiama storia.


317 – Il perdono di Dio è un atto creatore.

Il creatore può o dal nulla far essere (e questo è un atto infinito), o dall’essere annullare (questo è un atto infinito).

Cerchiamo di prendere coscienza del perdono di Dio non dei nostri peccati!


52 – Quando l’evidenza riguarda un contenuto di irresistibile attrattiva, non c’è niente da fare: uno ci pensa, va a nanna alla sera e ci pensa, si alza alla mattina e ci pensa, va a mangiare a mezzogiorno e ci pensa ecc…

La verità di questa situazione è collocata tutta nel valore semantico, nel valore di segno che ha la cosa: se questa attrattiva ti lancia per una prospettiva che non ha fine (se ha una fine, non è secondo la natura dell’uomo, non terrebbe conto di tutti i fattori inerenti all’esperienza stessa; e infatti non è razionale, proprio perché la ragione è esigenza di conoscenza secondo la totalità dei fattori).

Ti strappi l’anima ma, se l‘attrattiva di adesione irresistibile a una persona ti porta nel baratro, non ci vai.

Se ci vai è perché non sei ragionevole, è una pazzia.

200 – «L’attrattiva o l’emozione suscitata da una creatura che esercita un influsso immediatamente più forte di un’altra cosa che porterebbe la libertà più avanti, che farebbe camminare la libertà, questo è l’errore; non è un errore l’attrattiva che si sente, è un errore preferire questa attrattiva all’attrattiva più debole, ma più attiva e sicura verso il destino che qualche cosa inoltra nel cuore, propone al cuore» [Si può vivere così? p. 72/73].

[Vedi anche “La traiettoria della libertà” In “Si può vivere così?”].

265 – C’è una presenza, la vita dell’uomo ha una presenza, ha dentro di sé una presenza: la presenza delle persone e delle cose. Queste presenze esercitano un’attrattiva, per cui l’animo dell’uomo parte con i desideri che costituiscono la molla d’ogni suo dinamismo.

L’uomo non è una “gattamorta”. Le attrattive si questa presenza suscitano gli ideali della vita: la bellezza, la verità, la creatività, il lavoro (la creatività è il lavoro).

Tutto l’attaccarsi che l’uomo fa a questi ideali e, perciò, la stima che porta ai suoi desideri, lo accecano sulla provvisorietà di essi: l’uomo non vede che tutti questi sono dei segni, dei segni lungo la strada.

560 – Perciò si può dire che è provvisorio il tono dell’attrattiva. Ma non è giusto dire che è provvisorio, perché è eterno; quanto più è vero, tanto più è sicuramente eterno.


63 – Come si dice che l’essere, il vero, il bello, il buono sono la stessa cosa, così l’uomo è quel livello della natura in cui la natura incomincia a conoscere di che cosa è fatta: autocoscienza.

La natura è fatta, cioè alla natura vien donato l’essere, di essere.

80 – Nella totalità dei suoi fattori, in primo luogo viene l’imponenza dei criteri con cui la ragione giudica se stessa (auto-coscienza), i principi a cui essa si affida per essere e per esistere. Questi criteri sono quelli che abbiamo chiamato cuore.

380 – Investendo tutti gli aspetti del sentimento di te, investendo tutti gli aspetti dell’autocoscienza, della coscienza di sé, del sentimento di sé, investendo tutti gli aspetti della coscienza di sé o del sentimento di sé, la nostra ragione, la nostra capacità di conoscenza arriva a identificare qualcosa che essa non può conoscere, che la supera, che essa deve affermare e abbandonare nello stesso tempo: affermare senza la pretesa di doverlo definire.

Affermare senza la pretesa di poterlo definire vuol dire affermare l’essere: c’è!

409 – Quando uno riconosce che non possiede lui, allora si può abbandonare a ciò che possiede la cosa.

Se non è l’uomo a possedere, tanto meno è la cosa a possedersi: le stelle del cielo non sanno chi sono, non si possiedono neanche come inizio di quella riflessione su di sé che è l’autocoscienza.

L’autocoscienza è l’inizio di un possesso. Pretendere, perché c’è come inizio, di essere la sorgente del possesso completo: questo è l’orrore dell’uomo che Dio denuncia come peccato originale.

È l’orrore che sta al principio della storia ed è l’orrore dell’uomo che Dio denuncia come peccato originale.


184 – Intervento: «La libertà ne “Il Senso Religioso” è definita come la capacità di adesione all’essere….»

No! Non perché è ne Il senso religioso; ma da un punto di vista di pura riflessione sull’umano, di autocoscienza, è vero! L’autocoscienza, coscienza di me, mi porta a sentire che la libertà è aderire a quello che mi soddisfa: è la coscienza di me stesso che mi porta qui, non la religiosità.

Dire sì o no è un potere della libertà, ma non è il sì e il no che ti rende libero.

È una conseguenza, non una definizione della tua libertà.

Non va confuso il problema di come la libertà si attua con il problema di cosa sia la libertà.


190 – Intervento: «Io faccio esperienza della libertà quando finalmente arrivo a casa e posso fare quello che voglio, nel senso dell’autonomia. Mi sembra che sia opposto a quello che lei dice».

L’autonomia non puoi né baciarla, né abbracciarla, né accarezzarla, mi spiego? L’autonomia è una situazione di rapporti, mentre il gusto che provi essendo autonoma, sì, quella è la libertà!

Quel gusto lo provi, ti riempie il tempo, ti lascia spazi per l’immaginazione, ti lascia creativa.


105 – Allora, tra volontà e la ragione sta questo vuoto (la libertà che non si muove). Come si fa a superarlo? Gli apostoli lo hanno superato: primo, quando era presente Gesù; secondo: quando erano insieme.

Presenza di autorità e di compagnia sono i primi due fattori che sperimentalmente fanno superare la paura.

Tutti gli apostoli hanno provato questo momento di paura grande, e tutti han ceduto, tutti sono stati travolti dalla paura.

346 – «Tutto per me Tu fosti e sei» diceva Ada Negri.

Come si fa a pensare spesso così? Come si fa ad averne coscienza sempre?

E stando attenti al luogo in cui Cristo stesso ci desta la coscienza, che è la compagnia vocazionale: attraverso l’autorità che non dovrebbe parlare se non provocandoci a questo.


109 – Per Andrea e Giovanni l’avvenimento è stato quando, andando a casa sua, hanno cominciato a sentirlo parlare in un certo modo, per cui non si poteva spiegare più.

Erano colpiti, oppressi ed esaltati da quello che diceva. Più lo sentivano, e più erano ammaliati.

Quando Gesù è nato dalla Madonna, è stato un avvenimento. Giovanni e Andrea non c’erano; perciò, per loro, l’avvenimento è stato là in quella casetta.

Per i pastori, i Magi, e san Giuseppre fu nella capanna di Betlemme.

Ma, dopo, Giovanni e Andrea hano domandato a Lui: «Dove sei nato?», e Lui glielo ha spiegato.

Così hanno saputo anche loro dell’avvenimento di Betlemme, ma l’hanno saputo per via indiretta.

Lì era per via diretta che capivano che c’era qualcosa di eccezionale – cioè un miracolo -, c’era un mistero dietro, perché loro non se lo potevano spiegare.

Si chiama avvenimento. La parola avvenimento è una parola importantissima del vocabolario della conoscenza.

Perché una avvenimento, come diceva Finkielkraut – quel grande filosofo ebreo francese, commentatore di Charles Péguy, che più di tutti gli altri suoi contemporanei ha spiegato come l’avvenimento sia l’intervento di una novità nella vita -, un avvenimento porta una novità.

110 – Ogni istante porta una novità che non c’era prima, tant’è vero che si chiama avvenimento. L’avvenimento è il fatto che porta la novità nel discorso del mondo, nella fila delle cose, nella storia.

Un avvenimento non è mai identico, proprio identico all’altro, altrimenti sarebbe accaduto alle dieci di mattina come l’altro.

Che Dio si sia fatto uomo è un avvenimento che per Giovanni e Andrea è apparso quando sono andati là, per Giuseppe è apparso quando è nato il bambino, per i pastori quando hanno visto questo bambino – era già nato – e per i Magi quando sono andati là ad adorarlo; e per noi quando vediamo qualcosa di così cambiato che non si potrebbe immaginare niente al mondo capace di questo cambiamento, in noi e in un altro.

122 – Devo riconoscere un avvenimento assolutamente diverso dagli altri, irriducibile, che nasce soltanto sulla sua parola, su quella memoria.

L’avvenimento è il cambiamento che accade in te, o nell’altro, o nell’altro.

Riconoscere il tuo cambiamento, essere sorpreso dal tuo cambiamento, dirmi: «Come fa a cambiare così questa qui? Come ha fatto?».

«Perchè vive la coscienza del rapporto con Cristo.»

Ma, dunque, Cristo è presente, talmente presente che opera il cambiamento di una cosa presente – che è lei – e perciò la memoria è riconoscere, come presente in un cambiamento, Cristo, che è incominciato duemila anni fa, ma rimane fino alla fine dei secoli.

Ma si capisce proprio che l’avvenimento di Dio fatto uomo è sempre presente e quando lo si percepisce, quando si può riconoscere che questo uomo cambia me: cambia me, ha la forza per cambiare me.

Non di schianto, ma cambia me, cambia te, se tu vivi in un certo modo: se tu lo riconosci.

577 – Ma cosa vuol dire che Dio si fa conoscere in un avvenimento?

Il primo avvenimento è la Madonna.

L’avvenimento avviene in un luogo, in un posto, in un determinato momento.

Il posto, il luogo è stata la Madonna, il corpo della Madonna, il seno della Madonna, in un momento storico che è stato anche documentato all’anagrafe di Betlemme, duemila anni fa.


192 – Oltre a quello che ho in testa, conoscere vuol dire aggiungere qualcosa di nuovo; la conoscenza mi è data da uno sguardo che io porto sul presente, condizionato da quello che ho già dentro la testa: dall’avvenimento.

357 – La conoscenza dell’uomo ha una infinità novità davanti, è sempre novità, sarà sempre novità, è eterna.

Tanto è vero che la parola che veramente dice che cosa è la conoscenza è la parola avvenimento: l’oggetto della conoscenza è un avvenimento.

E per chi capisce queste cose, è avvenimento l’albero che sta in cortile adesso.


576ss – Se l’oggetto è il Mistero, per conoscerlo c’è un solo metodo: che esso si sveli, che esso si dica.

577 – Il Mistero per farsi conoscere, non parla all’orecchio di uno che dorme, non parla alla mente di uno che riflette, entra dentro nella storia come un fatto.

È un fatto, o, meglio ancora, con una parola più appropriata: un avvenimento.

Ma cosa vuol dire che Dio si fa conoscere in un avvenimento? Qual’è il primo? Il primo è che una donna ha partorito un figlio che «sarà chiamato Figlio dell’Altissimo e salverà il suo popolo» le disse un angelo che le era apparso.

Il primo avvenimento è la Madonna. L’avvenimento avviene in un luogo, in un posto, in un determinato tempo.

Il posto, il luogo è stata la Madonna, il corpo della Madonna, il seno della Madonna, in un momento storico che è stato anche documentato all’anagrafe di Betlemme 2000 anni fa.

Se Dio si è fatto conoscere allora, entrando nel mondo come un piccolo bambino, poi adulto, poi grande, poi lo hanno ammazzato, poi è risorto, come facciamo noi a prendere rapporto con Lui in modo tale da conoscerlo e da stupirci, come l’hanno conosciuto e se ne sono stupiti Giovanni e Andrea?

578 – La casa. La casa di Giuseppe, con quelle mura, era come il Mistero del seno della Madonna dilatato: tra quelle quattro mura anche gli amici più vicini, gli abitanti più vicini, potevano vedere quel bambino, stupirsi di certe risposte che dava, come si sono stupiti i dottori della legge a Gerusalemme.

Dopo Lui è uscito di casa e si e si è tirato dietro Giovanni, Andrea…quelli lì, quella dozzina lì eran diventati le mura – le mura dilatate ancora – della casa di Nazareth.

Quelli lì poi andavano a casa, lo dicevano alle mogli, agli altri parenti, ai figli: sono diventati una settantina.

Poi lo hanno ammazzato. Quei settanta lì, non solo non si sono fermati, ma hanno raggiunto i confini del mondo conosciuto di allora: san Tommaso, l’apostolo, è andato fino a Kerala, al centro dell’India, altri hanno raggiunto la Spagna, altri hanno raggiunto l’Italia del nord.

Questa convivenza si è dilatata fino alla casa di mia mamma, la quale l’ha detto a me: si è dilatato fino a me. E l’affare continua, e continuerà fino alla fine del mondo.

580 – Il metodo di Dio implica un avvenimento che permane, permane come realtà di avvenimento in tutti i giorni della storia: «Sarò con voi, tutti i giorni, fino alla fine del mondo» [Mt28,20].

Un avvenimento continuato, che continua, sorto in un tempo e in uno spazio e si comunica a tempi e spazi nuovi. Come? Come Dio vuole!

581 – Infatti, in tutta la storia della Chiesa, la comunicazione di quello che ha voluto far conoscere di sé, di tutta la ricchezza della sua forza, della sua potenza, ha meravigliato in tutte le generazioni gli uomini, convogliandosi in tanti punti – non uno: tanti punti – in cui l’avvenimento di Cristo si rifletteva.

Questi punti sono avvenimenti, vite di persone, in cui la conoscenza del Signore e l’affezione al Signore, in cui la fede cristiana, il messaggio cristiano è apparso in modo molto più naturale, più chiaro, molto più persuasivo, molto più invitante e molto più creativo che non in altri punti.

È la continuità di un avvenimento, cioè è la continuità di una cosa che risorge continuamente, che nasce continuamente.


583 – Noi non neghiamo la responsabilità dell’io, ma sottolineiamo il fatto che l’io, per sviluppare la sua responsabilità, è facilitato dalla compagnia.

In fatti nella Chiesa ognuno è responsabile di fronte a Dio, ma è legato a tutti insieme e il corpo misterioso di Cristo, la comunione, fa la liberazione.

Per questo seguire vuol dire obbedire, implica obbedienza alle modalità caratteristiche di un movimento.

Essendo stati voi colpiti, sorpresi, afferrati, in un certo tempo e in un certo spazio da un certo tipo di avvenimento, la regola fondamentale è essere fedeli fino in fondo a quell’avvenimento e alle regole che esso traduce.


ABCDEFG/HILMNOPRSTUV




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