Temi di «Una strana compagnia» (82-86-84) – 2a parte

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ACDF GI LMOPRSTUV


Lettera «U»


Umanità/uomo

19-21 – «Non ci sarà fedeltà […] se non si troverà nel cuore dell’uomo una domanda, per la quale solo Dio offre la risposta, dico meglio, per la quale solo Dio è la risposta».

Giovanni Paolo II, Omelia – Viaggio nella Repubblica Dominicana, Messico e Bahamas, Città del Messico 26 gennaio 1979

Dai banchi della scuola, su cui ci siamo trovati, fino alla compagnia di oggi, è la serietà di questa domanda umana che mi sorprendo questa mattina a sentire in tutta la sua esigenza, in tutta la sua forza, e in tutta la precarietà di consistenza che essa ha nella vita di un uomo.

20 – Come è urgente che l’umanità con cui ci siamo incontrati tanti anni fa – perché quello che ci ha fatti incontrare è stata una umanità -, come è urgente che questa umanità che ci ha fatti incontrare tanti anni fa, quella domanda che vibrava dentro di voi e che otteneva appassionata risposta in me, come è importante che questa umanità si ritrovi insieme, si aiuti opportunamente a non dimenticarsi.

Ai nostri amici universitari, quest’anno, ho ricordato parecchie volte questa poesia dell’autore di Barabba, Pär Lagerkvist, che mi piace tanto, perché è come riassuntiva di tutto lo spunto umano a cui ci siamo appoggiati nei primi dieci anni della nostra storia:

«Uno sconosciuto è il mio amico, uno che io non conosco.
Uno sconosciuto lontano lontano.
Per lui il mio cuore è colmo di nostalgia.
Perché egli è presso di me. [...]
chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza?
Che colmi tutta la terra della tua assenza?»

37/38 – Vorrei che questa mattina, nel tempo della meditazione, rileggeste la bella profezia dell’uomo che Cristo è venuto a incontrare, cioè la profezia di ognuno di noi. Vorrei che andaste a rileggere nel vecchio Isaia, nel capitolo 38, il Cantico di Ezechia, tutto il capitolo 41 e poi il capitolo 55, perché io credo che vi sia espresso lo spirito o il sentimento di sé che noi siamo chiamati a “restituire” maturamente adesso («restituire» perché è lo spirito di quando eravamo bambini; «maturamente» perché siamo grandi): siamo chiamati a “restituirlo” in vita, affinché una vita nuova avvenga in noi e sia sorgente di una presenza diversa di umanità, sorgente di una compagnia diversa e sorgente di opere diverse.

58 – L’impaccio quando ci si trova per parlare può essere l’indice di qualcosa che manchi ancora alla propria umanità, vale a dire che la sincerità del desiderio della strada e la certezza consapevole che Cristo è risorto, perciò che il nostro problema è risolto, che la nostra strada è compiuta e deve solo manifestarsi.

63-64 – La Fraternità vi aiuta, pur essendo così lontani l’uno dall’altro, a vivere il vostro lavoro, secondo una soggettività più umanamente e cristianamente matura, attraverso l’educazione che essa dà al vostro cuore.

64 – È aumentando il cuor, l’umanità del cuore, che si impara ad affrontare i problemi in un modo più maturo.

La Fraternità ha lo stesso scopo del movimento, vale a dire, maturare il cuore nostro, il maturare la nostra soggettività nella fede, e cioè nell’umano, nella sua umanità.

La Fraternità vi aiuterà a individuare e usare i criteri di soluzione di una vostra situazione, così un’altra volta, in analoga situazione, saprete cavarvela da soli.

85-88 – […] perché là dove due o tre si riuniscono Ti riconosciamo presente, ed è la Sua presenza che genera una umanità diversa.

87 –

«Ciò che dovunque, altrove, è una frustrazione / qui non è che una dolce e lunga obbedienza ; / ciò che, dovunque, è costrizione di regola, / qui non è che un punto di partenza e movimento di abbandono; / […] ciò che, dovunque, altrove, è una lunga usura e logoramento, / qui non è che sostegno e occasione di crescita; / ciò che, dovunque, altrove, è confusione, / qui non è altro che l’apparire sull’orizzonte della bella avventura

Ch. Péguy, «Preghiera di residenza»

88 – Nessuno giudichi nessuno né tanto meno gli altri, ma ognuno rialzi il suo sguardo, la sua faccia , alla presenza di Cristo. come bambini che guardano la loro madre.

Così questo brano di Péguy realmente deve stabilire, indicare un traguardo di amicizia reale, di convivenza ideale; deve indicare l’orizzonte di una umanità realmente, concretamente diversa nel modo di pensare, di sentire, di comportarsi.

122 – Una sola cosa so: che io debbo essere come l’occhio del servo attento al cenno del suo signore, disponibile a Te, ché la disponibilità è proprio il primo sintomo della verità, e la verità è che l’uomo è povero.

131 – Anche psicologicamente e sociologicamente un uomo è forte, una personalità è attiva, è generativa, un gruppo, un popolo – una unità di popolo – è forte e creativo solo se la gente sa a chi appartiene, a che cosa appartiene.

141-152 – L’uomo che incomincia a capire che il suo essere, la sua personalità è appartenere a un Altro è un uomo diverso.

È talmente diverso un uomo sul cui orizzonte c’è l’albore e l’aurora di questo sole, è talmente un uomo diverso, che Gesù, discutendo con un professore di università dei suoi tempi, un pezzo grosso, un “barone” molto importante, gli ha detto: «Se uno vuole entrare nel regno di Dio», cioè se vuole capire la verità – era un professore universitario, la verità doveva interessarlo -, se uno vuole entrare nella verità, «deve nascere di nuovo». «Così è di chiunque nasce dallo Spirito».

142 – Tu non sai come avvenga, ma ne odi la voce, vedi gli effetti: è un altro uomo, un altro uomo!

Quello che vale è la creatura nuova, l’uomo nuovo!

Chi capisce questo è un nuovo essere: resta come tutti gli altri, ma è diverso!

143 – È un tipo d’uomo così nuovo, così veramente nuovo, che i rapporti che stabilisce sono diversi, più profondi; è un tipo di essere così nuovo l’uomo che riconosce di appartenere a Dio, che riconosce che il suo io è appartenere a un Altro.

144 – Quelle «nuove forme di vita per l’uomo», cui il Papa accennava in quest’aula, come trama espressiva di una civiltà nuova della verità e dell’amore, nascono non dall’interesse, dal piace, dalla convenienza, dalla coincidenza, ma da un’altra cosa: dal riconoscere che io appartengo a Cristo e tu appartieni a Cristo.

145 – Un uomo che è pieno di questa coscienza testimonia: non c’è bisogno di parole o di gesti particolari, c’è bisogno di un atteggiamento, cioè di una realtà nuova di coscienza e basta, di uno che dice «io» con quella coscienza, in famiglia, tra gli amici, in comunità, in parrocchia, al lavoro, è lo stesso.

Se quel ragazzo (il giovane ricco) avesse avuto la coscienza di appartenere, che apparteneva a Dio, al Signore, che apparteneva a quell’uomo che aveva lì davanti, allora avrebbe lasciato tutto, come hanno fatto gli altri, gli sarebbe andato dietro.

147 – Questo è l’uomo cristiano che cammina spe erectus, diritto nella speranza!

Dobbiamo ammettere che si tratta di una cosa dell’altro mondo, eppure ce lo stiamo dicendo tra di noi: è un altro uomo, è un altro mondo, ma è un altro mondo che vibra e sussulta tra di noi.

Ma è proprio un altro mondo, è un mondo umano: umano!

Questa è la riprova che Cristo è Dio, secondo tutto l’insegnamento di Giovanni paolo II: perché rende l’uomo umano.

149 – C’è una condizione, però, di questo passaggio di conversione al senso di appartenenza attraverso la fedeltà ad una storia, destinata a vincere il mondo: perché Cristo, con buona pace di tutti gli aperturisti, non passa alla coscienza e al cuore degli altri, e alla umanità intera, attraverso la natura dell’uomo, ma passa attraverso coloro che sono stati da Lui chiamati!

Ha creato la Sua strada, il Suo metodo, e non lo contraddice. Bene, c’è una condizione di tutto questo, ed è il sacrificio.

Passare dal sentimento della mia persona come amor proprio, come possesso di me, come voglia di me stesso, come legge a me stesso, al sentimento di appartenenza, che è il sentimento più liberante che ci sia, più liberante alla gioia, questo passaggio implica un sacrificio, sembra di perdersi.

«….e Abramo tosto si alzò» Abramo se ne va così, senza sapere neanche dove andava, ma obbedendo al cenno di Dio, in quella mattina presto, in quell’alba con il cuore schiantato, perché doveva ammazzare il figlio, il figlio che lo seguiva e non lo sapeva.

Questo è l’unico uomo, al di fuori di Cristo, con la U maiuscola, perché è l’uomo “di”, che ha capito che la propria persona è “di” un Altro, che la giustizia è la volontà di un Altro: non è la mia misura o il mio progetto o i miei paragoni.

192-202 –

193 – Il Dio puro che i musulmani hanno ereditato dagli ebrei e dai cristiani dei primi sei secoli, non cambia l’uomo, non cambia la natura dell‘uomo.

Il cristianesimo, invece, è l'annuncio di una Presenza che cambia la natura dell'uomo.

Il cristianesimo è talmente dono alla natura nostra, alla natura dell’uomo, è talmente qualcosa che investe, scuote e penetra la nostra natura – perché rivela la presenza di Colui “di cui” siamo fatti, “per cui” siamo fatti, “di cui” siamo -, che il cristiano cioè chi vive di conversione, chi vive questa coscienza di appartenenza a Cristo, chi vive la memoria è un altro uomo, è come uno nato a un altro livello, è come un essere nato non dalla carne e dal sangue.

Questa è la grande grazia che abbiamo ottenuto, secondo tutta la discrezione con cui normalmente Dio si muove nella vita dell’uomo, secondo la discrezione con cui la libertà di Dio rispetta la nostra libertà.

198 – Lettera: «Io non so se posso pensare così a Cristo, come al tutto della mia vita, io che non sono chiamata a vivere al verginità, ma il matrimonio. Ma io constato solo questo: se non penso a Cristo, anche l’uomo a cui voglio bene lo guardo senza potermi impedire un’ultima indifferenza, e quando parlo di eternità è come se mi venisse la tentazione di odiare il tempo»

199 – «Mi plasmi e mi fai crescere al contrario di come io mi immagino il proprio “io” e tutti gli u omini, e tuttavia fai questo in conformità a ciò che io sono».

200 – Però ci deve essere, per un pizzico, per un frangente piccolino, un’apertura di stima a Lui più che a noi, di stima a Lui più che alla donna e all’uomo, di stima più a Lui che ai figli, di stima più che al cielo e alla terra, di stima a Lui più che alla vita: «La grazia vale più della vita».

296-297 – Cristo lo si dà attraverso una umanità nuova che si dimostra.

Cristo si rivela attraverso l’umanità nuova che crea.

Cristo lo si comunica attraverso una umanità nuova che noi viviamo con gli altri.

397 – È da un atteggiamento amico e umano che io ho verso di lui, che un compagno di lavoro può essere disposto a capire che in me c’è qualcosa di diverso.

Il Movimento è il primo grande spazio per questa comunicazione e per questa dedizione missionaria, vale a dire è il grande spazio di questa umanità in cui Cristo è realmente parte della coscienza di sé, e in cui i rapporti e perciò il modo di comportarsi diventano diversi, più umani.

Umiltà

259 – «Siate pieni di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza»

Col 3,12

Perché la misericordia, la bontà, l’umiltà, la mansuetudine, la pazienza vogliono dire questo: l’atteggiamento di adesione, di abbraccio, come quello della madre verso il bambino.

278-279 – Egli, proprio per farci convertire veramente, permette alla nostra vita la lunga, altrimenti tristissima, l’umiliazione del peccato, dell’errore.

La vera nostra ricchezza è quella del bambino. Il salmo dice «l‘umile di cuore»; ma l’umile di cuore nel Vangelo è paragonato al bambino, perché il bambino, se fosse cosciente e responsabile, sarebbe proprio un umile di cuore, è fatto umile di cuore dalla natura stessa, cioè dal disegno stesso di Dio.

282-283 -Ma per essere disponibile a Lui, la nostra vita non deve aver nulla da difendere, perché l’unico che difende la vita è Lui, è Dio, è Cristo! E chi è l’umile e il povero? L’umile e il povero è chi non ha nulla da difendere.

283 – Una sola cosa è necessaria, questa dobbiamo difendere: l’umiltà che ci fa percepire il nostro nulla e la povertà che ci fa comprendere come l”unica sorgente della ricchezza della vita, del valore della vita, è riconoscere e amare Cristo.

307 – A noi è stato dato il dono della fede, a noi che siamo così piccoli e miseri fra tutti. Perché quando dice del cuore parla di umiltà e di povertà: umile è uno che sa di essere poco o niente. Non esiste nulla di più necessario, per noi, che questa umiltà, perché solo in essa noi potremo continuare a dire: «io credo, Signore», con semplicità e totalità.

Unità

80-81 – Chi vede noi, chi vede il mistero della nostra unità, che vede il mistero della nostra comunione ha visto Cristo, vede Cristo, esperimenta Cristo risorto, Cristo che vince, la Sua parola che richiama, la Sua presenza che muta, che cambia, che sfida e cambia, la Sua compagnia che compie, che apre al senso di tutte le cose e chi inizia, rende inizialmente vera, l’esperienza del compimento attraverso la pace.

81 – È nella nostra compagnia, è nella nostra unità, è nella nostra comunione, è in questa presenza dei fratelli che noi possiamo sperimentare la Sua presenza.

153 – La nostra compagnia è il frutto miracoloso, l’unico frutto veramente miracoloso: questo bruciarsi totale della estraneità, questa familiarità, questa consanguineità eccezionale, questa unità impossibile, è il frutto e nello stesso tempo lo strumento educatore della nuova personalità cui siamo stati chiamati quando, tra le braccia del padrino o della madrina, abbiamo ricevuto il Santo Battesimo.

210 – Che la passione per il mondo, la responsabilità per il verso il mondo, scoppi e incendi le banalità delle nostre giornate, questo è il miracolo – il miracolo!.

Il cui aspetto più impressionante, certo, è l’unità fra di noi, questo superamento dal profondo dell’estraneità, questo abbraccio del diverso, in cui vibra, sia pure come eco lontana, il mistero di Dio, cioè la misericordia.

248 – Come si fa a fare unità con la donna, a fare unità coi figli, a fare unità con l’amico, a fare unità con l’estraneo, a fare unità addirittura con il nemico, a fare unità con le cose, a fare unità col cielo e con la terra, a fare unità con la società, a fare unità col tempo e con la storia, a fare unità nel mondo, come si fa a fare unità, se io sono diviso da me, se il soggetto che deve fare questa unità è diviso? E se uno non ama se stesso è diviso.

Confondiamo l’amore e la tenerezza verso noi stessi con l’amor proprio.

255-256 – Come fai a fare unità con l’altro, quando non c’è unità con l’altro, quando non c’è unità con te?

E non c’è unità con te, se non ti ami di un amore vero, se non hai stima e tenerezza verso di te – non verso quello che pensi o che fai, non verso le tue reazioni -: non l’amore proprio, ma l’amore a te come creatura di un altro.

303-305 – Non c’è uno solo qui presente che sia in condizioni tali per cui questa strada non sia possibile. Perciò, abbiamo riconoscenza vicendevole, ma soprattutto abbiamo riconoscenza verso la nostra unità, perché senza questa unità tutto si sfalderebbe.

Abbiamo riconoscenza verso questa unità e abbiamo fedeltà ad essa, più che attaccamento alle nostre opinioni, ai nostri tornaconti, ai nostra stati d’animo.

305 – Siamo fedeli ai punti in cui la nostra unità ci raggiunge, specialmente il Ritiro, la vita del gruppo.


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